CAPITOLO PRIMO
LE PMI IN EUROPA
1.1 Definizione di PMI.
Negli anni recenti, numerosi programmi sono stati introdotti a livello
europeo per aiutare le piccole e medie imprese, completando le misure
prese a livello nazionale.
In ogni modo, queste misure non hanno tutte adottato lo stesso
approccio nel definire le Pmi, con il risultato che è stata utilizzata, sino
adesso, una varietà di definizioni.
Queste differenze hanno prodotto incoerenze, che hanno contribuito
alla creazione di distorsioni di concorrenza tra le imprese [ 1 ].
Questa situazione fu criticata dalla Corte dei Revisori, nel suo
rapporto del 1995, e dal Parlamento Europeo, che chiese alla
Commissione di risolvere il problema della definizione di piccola e media
impresa.
Con l’adozione, in data 3 Aprile 1996, di una Raccomandazione
relativa alla definizione delle PMI
1
(Vedi Doc.1) destinata agli Stati
membri, alla Banca europea per gli investimenti (BEI) e al Fondo
europeo per gli investimenti (FEI), la Commissione ha fissato per la
prima volta un quadro di riferimento unico per il complesso delle misure
a favore delle PMI.
1
GU n. L 107 del 30.4.1996, pag.4
Tale Raccomandazione promuove l’impiego di una definizione unica
di PMI, di piccola impresa e di microimpresa a livello sia nazionale che
comunitario, allo scopo di accrescere la coerenza, l’efficacia e la visibilità
dell’insieme delle iniziative a favore di tali imprese.
Per definire un’impresa piccola e media è necessario avere riguardo a
tre dati fondamentali:
1) Il numero dei dipendenti
2) Il fatturato annuo o totale del bilancio annuo
3) Il requisito di indipendenza.
Affinchè un’impresa sia definita piccola e media impresa è
necessario che abbia un numero di dipendenti inferiore ai 250.
Oltre a tale criterio dimensionale, una piccola e media impresa deve
soddisfare due criteri di carattere finanziario.
Essa deve avere un fatturato annuo non superiore a 40 milioni di
ECU, o un totale di bilancio non superiore a 27 milioni di ECU e deve
essere in possesso del requisito di indipendenza, definito al paragrafo 3
dell’allegato della relativa Raccomandazione.
Sono considerate imprese indipendenti quelle il cui capitale o i cui
diritti di voto non sono detenuti per 25% o più da una sola impresa,
oppure, congiuntamente, da più imprese non conformi alle definizioni di
Pmi o di piccola impresa, secondo il caso.
Ma questa soglia può essere superata nelle due fattispecie
seguenti:
• Se l’ impresa è detenuta da società di investimenti pubblici, società di
capitali di rischio o investitori istituzionali, a condizione che questi non
esercitino alcun controllo, individuale o congiunto, sull’ impresa;
• Se il capitale è disperso in modo tale che sia impossibile determinare
da chi è detenuto e se l’ impresa dichiara di poter legittimamente
presumere che non è detenuto per il 25% o più da una sola impresa,
oppure, congiuntamente, da più imprese non conformi alle definizioni
di PMI o di piccola impresa, secondo il caso.
Inoltre la Raccomandazione della Commissione definisce la piccola
impresa, differenziandola dalla media impresa, come quell’impresa che:
1) ha meno di 50 dipendenti
2) ha un fatturato annuo non superiore a 7 milioni di Ecu, o un totale di
bilancio annuo non superiore a 5 milioni di ECU ed infine
3) è in possesso del requisito di indipendenza definito al paragrafo 3.
La presente Raccomandazione riguarda la definizione delle PMI
utilizzata nelle politiche comunitarie applicate all’ interno della Comunità
e dello Spazio economico europeo.
1.2 Il ruolo e la dimensione delle Pmi in Europa.
Le PMI, in particolare le più piccole di esse, svolgono attualmente
un ruolo determinante in termini di crescita economica, attraverso gli
investimenti e il prodotto lordo, e di creazione di nuovi posti di lavoro.
A dimostrazione che le PMI risultano la principale fonte
d’occupazione [ 2 ], basti dire che, in Europa, esse rappresentano il
99,8% di tutte le società, il 66% del totale dell’occupazione e il 65% del
fatturato delle imprese dell’Unione europea (Vedi Tav.1 e 2).
In Italia, più di due terzi dell’export proviene da imprese con meno di
250 addetti e più di 200 distretti industriali hanno contribuito negli ultimi
decenni a creare nuovi posti di lavoro, compensando la cura dimagrante
dei grandi gruppi [ 3 ].
Nell’U.E. la creazione netta di posti di lavoro nelle PMI ha più che
compensato le perdite di posti di lavoro nelle grandi imprese nel periodo
1988-1995.
Durante questo periodo si devono alle imprese con meno di 10
dipendenti quasi tutti i posti di lavoro creati.
Il documento di Madrid sulle PMI del 1995 sottolinea che il
potenziale di crescita e di creazione di occupazione delle PMI europee
non è stato adeguatamente sfruttato e che la crescita e la creazione di
posti di lavoro sono state frenate da imperfezioni e carenze del mercato
e della politica [ 4 ].
Oggi, queste imprese operano in un ambiente caratterizzato da una
forte concorrenza e da pressioni di vario tipo.
Da una parte, devono migliorare costantemente la propria
competitività e, dall’altra, si trovano ad affrontare difficoltà amministrative
e d’accesso ai finanziamenti, all’informazione e all’istruzione.
Vi sono segnali che mettono in luce difficoltà strutturali e ritardi
nell’adeguamento delle PMI al nuovo quadro economico generato dalle
innovazioni tecnologiche e dall’internazionalizzazione delle imprese.
Poche sono infatti le imprese che dispongono delle risorse e delle
capacità necessarie per far fronte ai complessi aspetti legati alla
penetrazione dei mercati internazionali.
Le Pmi, in presenza di vincoli dimensionali e strutturali, rischiano di
essere marginalizzate dai processi di internazionalizzazione [ 5 ].
Per cui il sostegno pubblico, sia a livello nazionale che a livello
europeo, all’attività internazionale delle imprese è quindi una
componente importante dei programmi di politica industriale e
commerciale.
Infatti, a livello europeo, essendosi affermata progressivamente una
priorità politica a favore delle Pmi in conseguenza del riconoscimento
delle potenzialità di creazione di posti di lavoro da parte di esse e al fine
di migliorare il contesto amministrativo, giuridico, fiscale e finanziario in
cui esse operano, la Commissione si impegna affinchè in sede di
elaborazione di tutte le politiche comunitarie si tenga conto della
specificità delle Pmi e propone per esse iniziative specifiche.
Queste hanno lo scopo di spingere le piccole e medie imprese a
confrontarsi sempre più in un ottica internazionale, poiché, data la
saturazione dei mercati interni, il posizionamento sui mercati esteri è il
pre-requisito essenziale per crescere e per ampliare il potenziale delle
Pmi.
E’ oggi considerazione largamente diffusa il fatto che – a parte per
alcuni settori di nicchia – l’internazionalizzazione non si presenti più
come una vera e propria opzione strategica che le imprese possono
perseguire o meno, ma come una scelta obbligata che deve essere
necessariamente affrontata [ 6 ].
L’internazionalizzazione è considerata, insomma, il “filo conduttore”
dall’impresa che vuole rimanere competitiva sul mercato [ 7 ].
1.3 L’internazionalizzazione delle Pmi.
Con il termine “internazionalizzazione delle imprese” si intende
definire tutti i percorsi di crescita che le imprese attuano sui mercati
esteri.
Nel tempo si è avuta un’estensione del concetto di
internazionalizzazione che riflette la crescente complessità delle
modalità con cui le imprese sviluppano la loro presenza all’estero.
Dal punto di vista strettamente economico si è riscontrato nel tempo
un crescente ampliamento dello spazio relazionale dell’impresa e il
passaggio dal punto alla rete, ovvero dallo spazio della produzione a
quello dell’organizzazione complessiva dell’impresa [ 8 ].
Le modalità di apertura ai mercati esteri [ 9 ] sono raggruppabili in
due grandi categorie: internazionalizzazione mercantile o commerciale e
internazionalizzazione produttiva.
Per quanto riguarda la prima, storicamente il primo strumento con
cui le imprese si sono internazionalizzate è costituito dalle esportazioni.
Successivamente, si è affermata la forma definita “produttiva” che
consiste nel trasferimento, da parte delle imprese, di risorse e di capacità
tecnologiche dal paese d’origine a un altro paese.
Quindi, l’internazionalizzazione si è caratterizzata con modalità
“classiche” o tramite la realizzazione di investimenti diretti all’estero;
successivamente, si sono sviluppate con gli anni settanta “nuove forme”
, quali, ad esempio, le joint ventures, gli accordi di collaborazione/
cooperazione, i trasferimenti di tecnlogia e le partecipazioni incrociate
[ 6 ].
L’ampiezza significatica e la diffusione che ha assunto tale processo
è dimostrata dal fatto che la letteratura economico-aziendale ha dedicato
a queste tematiche un interesse crescente.
In particolare nell’ambiente accademico anglosassone si sono
sviluppate teorie dell’internazionalizzazione il cui obiettivo è stato quello
di spiegare come mai le imprese abbiano trovato conveniente ampliare
la propria attività a livello internazionale.
Le cause di questo processo [ 10 ], sostanzialmente simili per tutte
le imprese ma con qualche differenza per le Pmi, sono legate al
perseguimento di taluni obiettivi quali:
• raggiungere dimensioni maggiori per poter continare a competere
con successo (ma ciò comporta il rischio per le Pmi comporta
attivare una azienda pìù pesante di quella precedente);
• conseguire sinergie in campo tecnologico, produttivo e
commerciale mediante la collaborazione con imprese straniere;
• servire più efficacemente la clientela estera;
• essere presenti stabilmente sui mercati internazionali.
Affinché si comprenda appieno il processo di internazionalizzazione
è opportuno soffermarsi sulle sue varie forme assunte a seconda della
dimensione delle imprese e dei settori di appartenenza.
Il modo più semplice per operare in un mercato estero è costituito
dall’esportazione, poiché ciò comporta il minor numero di
cambiamenti,rispetto alle altre modalità, sia a livello organizzativo che di
investimenti.
Altre forme intermedie sono rappresentate dagli accordi di
collaborazione/cooperazione sul piano tecnico, produttivo e commerciale
con altre imprese estere, dallo scambio di licenze, marchi e brevetti e
dalla creazione di joint-ventures.
Quest’ultime implicano una cooperazione che conduce a realizzare
unità produttive all’estero di proprietà congiunta, realizzabili sia con
l’acquisto di partecipazioni che con la costituzione di nuove società.
Tali forme di internazionalizzazione, appena descritte, risultano
particolarmente diffuse tra le imprese di piccola e media dimensione per
il loro basso onere che esse comportano sulla gestione aziendale sia dal
punto di vista organizzativo che di investimenti.
Mentre gli investimenti diretti all’estero sono dominio quasi esclusivo
di imprese di grandi e medio-grandi dimensioni.
Questa forma d’internazionalizzazione , che risulta essere la più
complessa, consiste nel realizzare unità produttive all’estero allo scopo
di conseguire delle economie di costo sotto forma di manodopera e di
materie prime meno costose, di incentivi agli investimenti da parte dei
governi locali e dalla Commissione Europea, di minori costi di trasporti,
ecc.
Le politiche di sostegno e di promozione, sia a livello nazionale ma
soprattutto a livello comunitario, dell’internazionalizzazione delle Pmi
hanno assunto un ruolo cruciale e strategico [ 5 ].
Tali politiche si giustificano per le difficoltà incontrate dalle Pmi
nell’operare sui mercati internazionali e legate all’instabilità della
congiuntura internazionale, al proliferare di forme di protezionismo che
ostacolano gli scambi internazionali, all’inadeguatezza delle modalità
organizzative o delle formule imprenditoriali che rendono fragile e
precaria la capacità concorrenziale dell’impresa.
Tra i molti strumenti di politica commerciale utilizzati dalle autorità di
politica economica, nazionali e comunitarie, i servizi reali
all’internazionalizzazione stanno assumendo sempre più importanza
[ 5 ].
Tale comparto di servizi si compone oggi di un vasto insieme di
servizi potenzialmente utili alle Pmi che operano sui mercati esteri o
hanno intenzione di accedervi.
Tali servizi coprono attività diverse come la promozione, formazione,
consulenza-assistenza e informazione.
L’uso dei servizi reali all’internazionalizzazione (SRI) consente di
superare alcune barriere dovute alla carenza di risorse che
contraddistingue le imprese di piccola e media dimensione.
Tali barriere [ 5 ] possono essere distinte in:
• motivazionali: esse sono dovute alla mancanza di percezione dei
mercati esteri come reale opportunità di sviluppo per lìimpresa o di
incapacità di adattarsi alle esigenze dei clienti;
• informative: esse sono dovute alla mancanza di informazioni sui
mercati esteri e sul loro funzionamento;
• operative: esse sono dovute alla mancanza di risorse e strutture
adeguate (personale qualificato, rete distributiva, ecc.).
Inoltre, l’uso dei SRI consente alle imprese di incrementare il
fatturato export e di ridurre i costi di penetrazione commerciale.
In conclusione, tali servizi, in contrapposizione a quelli finanziari,
hanno l’obiettivo dichiarato di migliorare la competitività delle Pmi
riducendo i loro costi di produzione.
1.4 L’U.E e la politica delle imprese.
La politica delle imprese [ 11 ], che rappresenta un’importante
attività della Comunità Europea, è stata avviata a partire dal Trattato di
Roma, sebbene, come nel caso della maggior parte delle attività
nazionali, solo recentemente gli è stata attribuita a livello europeo forma
istituzionale.
La prima misura della politica comunitaria a favore delle imprese è
stata l’organizzazione nel 1983, in seguito ad una proposta del
Parlamento europeo, dell’anno europeo delle piccole e medie imprese e
dell’artigianato.
In un suo incontro a Lussemburgo il 2 e 3 Dicembre 1985, il
Consiglio europeo decise di instituire uno studio di valutazione
dell’impatto dei programmi comunitari sulle Pmi e di preparare delle
misure atte a semplificare il loro ambiente amministrativo, fiscale e
commerciale.
Questi compiti prioritari furono realizzati, in base all’articolo 235 del
Trattato di Roma, in due fasi:
1) La prima è iniziata nell’avvio di una “”Task Force PMI” nel Giugno
1986. Un’azione di programma è stata adottata il 3 Novembre 1986
nella forma di una Risoluzione del Consiglio
2
. Il 22 dicembre 1986, il
2
Guce OJ C 287 del 14.11.86.
Consiglio adottò una Risoluzione
3
su un’azione di programma a
favore dell’occupazione. La sezione di tale Risoluzione riguardante le
azioni tendenti a promuovere le nuove imprese e incrementare
l’occupazione conteneva una serie di misure per assistere le Pmi.
2) La seconda fase è iniziata nel 1989, quando la Comunità decise di
attribuire più risorse alla politica delle imprese sulla scia del nuovo
impeto creato dall’entrata in vigore nel 1987 dell’Atto Unico europeo.
Venne creata una nuova Direzione Generale, la DG XXIII, la quale
sino adesso è la principale responsabile della politica delle imprese ,
turismo, artigianato ed economia sociale ed ha preso il posto della
“Task Force Pmi”. In seguito, il 28 Luglio 1989 il Consiglio prese la
Decisione
4
sul miglioramento del contesto commerciale e sulla
promozione dello sviluppo delle imprese, in particolare le Pmi
comunitarie.
Tale Decisione concesse un finanziamento di 110 milioni di ECU
per il periodo 1990-1993.
Il 18 Giugno 1991 una Decisione del Consiglio
5
incrementò
l’ammontare di questo finanziamento da 110 milioni di ECU a 135
milioni.
3
GUCE C 340 del 31.12.1986, pag.2.
4
GUCE L 239 del 16.08.1989, pag.33.
5
GUCE L 175 del 04.07.1991, pag.32.