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insetto di nuova introduzione come il Flatide Metcalfa pruinosa, temuto per le sue infestazioni ai
danni della Vite, è rilevato a basse densità negli habitat oggetto di studio.
In base alle mie indagini la siepe di Rovo sembra essere un’elemento di biodiversità
funzionale nel vigneto umbro. Estrapolando un concetto generale dall’esperienza del vigneto, si può
dire che tra gli specifici elementi di biodiversità utili al potenziamento del biocontrollo naturale dei
fitofagi vi sono sicuramente parecchie caratteristiche “tradizionali” degli agroecosistemi.
Considerata “marginale” dai policy makers, l’agricoltura tradizionale della collina umbra mostra
invece di avere un ruolo centrale come custode per le generazioni future di quegli elementi di
biodiversità evoluta (funzionale), che oggi le agricolture avanzate cercano con grande difficoltà di
ricreare.
Vista l’intenzione da parte dell’Unione Europea di incentivare caratteristiche del paesaggio
agricolo che si sono dimostrate utili per il controllo biologico naturale, è opportuno cercare di
mantenere ed incrementare gli elementi tradizionali dell’ecosistema agrario, primi fra tutti siepi che
contengano del Rovo.
Questa esperienza formativa e di ricerca sull’agroecosistema vigneto, suggerisce che è
necessario approfondire la conoscenza degli ecosistemi coltivati, specialmente quelli tradizionali,
poiché essi custodiscono la biodiversità funzionale al controllo biologico e sono quindi utili per il
design di sistemi agricoli sostenibili.
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2. Introduzione
La letteratura scientifica è piena di esempi di esperimenti che documentano come la
diversificazione dei sistemi di coltivazione spesso porti ad una riduzione della popolazione dei
fitofagi (Altieri, 1994). In sistemi agricoli moderni l’evidenza sperimentale suggerisce che la
biodiversità può essere utile per migliorare la gestione fitosanitaria (Andow, 1991).
La vegetazione spontanea è un elemento centrale della biodiversità di un agroecosistema
(Altieri, 1982). Secondo Rabb (1978) un agroecosistema dovrebbe essere concepito come un’area
ampia abbastanza da includere quelle aree incolte che influenzano le colture attraverso scambi di
organismi, materia ed energia tra comunità diverse.
Le siepi ed altre caratteristiche tradizionali del paesaggio agrario hanno di recente suscitato un
grande interesse tra i ricercatori europei. Tale interesse ha riguardato l’effetto delle siepi e della
vegetazione spontanea sulla distribuzione ed abbondanza degli artropodi nei campi coltivati
adiacenti. In molti casi la vegetazione spontanea attorno ai campi sostiene prede ed ospiti alternativi
per i nemici naturali, fornendo in tal maniera risorse stagionali utili per superare i gaps tra cicli
biologici di entomofagi utili e fitofagi delle colture.
Nonostante questa mole di evidenze sperimentali, non è ancora stato possibile sviluppare una
teoria che ci metta nelle condizioni di determinare quali specifici elementi della biodiversità di un
agroecosistema sarebbe opportuno mantenere, aggiungere od eliminare al fine di potenziare il
controllo naturale delle avversità delle piante coltivate (Altieri, 1994).
Per questo motivo, ad esempio, non è ancora chiaro se la perdita di habitat naturali e
cambiamenti nelle specie di piante spontanee all’interno di questi abbiano portato alle recenti
pullulazioni di Empoasca vitis Goethe, la Cicalina verde della Vite, in Italia ed in Svizzera (Pavan
et al., 1992; Cerutti et al., 1989). Gli stessi autori ammettono, comunque, che la vegetazione
spontanea ha di certo giocato un ruolo importante nel fatto che questo fitofago sia riemerso con
maggiore gravità.
In Umbria non sono state segnalate popolazioni dannose di cicaline del vigneto, come è
invece avvenuto nel nord Italia. Il paesaggio agrario umbro mostra ancor oggi molte caratteristiche
tradizionali, tra le quali possiamo includere particolari tipi di vegetazione spontanea a formare
quegli elementi lineari di separazione tra i campi coltivati, denominati siepi.
Il fatto che il vigneto umbro necessiti ancor oggi di un livello molto contenuto di input
fitofarmacologico ne fa un oggetto di studio unico. Questo agroecosistema sembra aver conservato
una maggiore integrità rispetto ai vigneti del nord Italia. Questo, probabilmente, grazie anche al
fatto che particolari condizioni socioeconomiche hanno permesso a questa coltura di mantenere
alcune connotazioni tradizionali. Un fattore di grande influenza in questo senso è stato lo sviluppo
nell’Italia centrale della forma di conduzione denominata mezzadria. Essa ha avuto profonde
ripercussioni sulla struttura fondiaria umbra ed i suoi segni sul territorio sono spesso evidenti ancor
oggi. Questo è vero soprattutto nelle zone collinari, dove la marginalità ha tenuto lontana
l’agricoltura industriale. Nel caso della Vite, poi, si deve considerare anche il fatto che la sua
coltivazione in Umbria risale alla civiltà etrusca (Johnson, 1991). Non è quindi fuori luogo parlare
di agricoltura tradizionale in una regione nella quale si trova una rara combinazione tra
conservazione della struttura fondiaria e antichità della coltura.
La maggior parte delle evidenze sperimentali a supporto dell’importanza della
diversificazione dei sistemi di coltivazione per il potenziamento del controllo biologico naturale
viene da ricerche effettuate nell’ambito di agricolture avanzate e comunque pesantemente
influenzate dalla green revolution. Il vigneto umbro ha passato questa rivoluzione praticamente
indenne, mantenendo una comunità artropode stabile e quindi poco soggetta a pullulazioni.
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Ho quindi ritenuto che affrontare lo studio di alcuni vigneti umbri, proprio perché
sostanzialmente privi di problemi di difesa fitosanitaria, sarebbe stato come tentare di risalire ai
tasselli mancanti di un mosaico osservandone un altro simile, ma in migliore stato di conservazione;
laddove i tasselli mancanti sono interrelazioni biocenotiche venute a mancare in altri ambienti, alle
quali sarebbe impossibile risalire in altro modo.
Dallo studio di un agroecosistema tradizionale, infatti, si possono trarre principi ecologici da
usare nella progettazione di ecosistemi agrari nuovi, migliorati e sostenibili, in maniera da
correggere i difetti cronici dell’agricoltura moderna (Altieri, 1995). Ecosistemi agrari sostenibili
devono avere un alto grado di diversità vegetazionale, che permetta al controllo biologico naturale
di estrinsecarsi a pieno. Quel che resta dell’agricoltura tradizionale deriva da secoli di evoluzione
culturale e biologica nella quasi totale assenza di accesso ad inputs esterni e può, per questa ragione,
sostenere le scienze agrarie nel cammino verso l’identificazione di quelle combinazioni di
biodiversità vegetale che assicurino la funzionalità del controllo biologico, rimanendo
agronomicamente accettabili ed economicamente valide (Altieri, 1984).
Sono partito dalla lunghissima e variegata storia dell’agroecosistema vigneto per meglio
avvalermi degli strumenti teorici dei quali l’ecologia dispone e trarre, infine, da una pluriennale fase
sperimentale, delle considerazioni che fornissero un contributo alla conoscenza del ruolo della
biodiversità negli ecosistemi agrari.
2.1. Un po’ di storia del vigneto
Verso al fine dell’era terziaria le piante appartenenti al genere Vitis si trovavano disseminate
in Giappone, Asia orientale, Nord America ed Europa (Billiard, 1913). Durante le ondate di caldo e
di freddo del Quaternario quell’ampia distribuzione si ridusse per tutte le sue specie alla fascia fra i
50° ed i 30° di latitudine Nord (Amerine & Wagner, 1984). Al tempo stesso sembra che l’antenato
della maggior parte dei vitigni delle viti da vino moderne si sia evoluto gradualmente a partire dalle
viti selvatiche sotto l’influenza della selezione umana. I primi documenti della sua esistenza sono
stati rintracciati in varie parti della Francia meridionale, dell’Italia, delle Grecia e del Mediterraneo
orientale (Billiard, 1913; Younger, 1966; Nuñez & Walker, 1989). E’ però molto difficile
identificare il luogo o i luoghi, all’interno di quell’ampia diffusione naturale, in cui si cominciò a
coltivare la Vite per la produzione del vino. Negrul (1938, 1960) ha suggerito che il centro di
domesticazione della Vite da vino siano state, con tutta probabilità, l’Asia Minore e la
Transcaucasia, dove a partire dall’8000 a.C. si verificò la selezione graduale delle viti con frutti
piccoli e succosi.
Lo sviluppo della viticoltura in Eurasia ed il fatto che nessuna delle altre specie di Vitis
(all’infuori della vinifera) sia stata impiegata diffusamente per la produzione del vino, fa pensare
che la coltivazione della Vite e la produzione del vino non siano state unicamente il risultato della
distribuzione naturale di questo particolare genere. E’ invece molto più probabile che siano state
collegate alle strutture sociali, ideologiche ed economiche emerse in epoca preistorica nelle regioni
del Caucaso e della Mesopotamia settentrionale. E’ notevole che, nonostante l’ampia distribuzione
generale delle specie appartenenti al genere Vitis, la loro utilizzazione sia stata così limitata fino
all’inizio dell’epoca moderna. Così per esempio non sembra che nelle Americhe la Vite sia stata
utilizzata per produrre bevande alcoliche prima dell’arrivo degli Europei nel XVI secolo, anche se
in quei territori erano presenti molte specie del genere Vitis (Unwin, 1993).
Ad esempio i vigneti della California, siti in una delle principali regioni viticole del Nuovo
Mondo, sono in gran parte figli degli ultimi cinquant’anni (Unwin, 1993). Nel XVII secolo i monaci
francescani avevano portato la Vite della Missione in New Mexico e nel XVIII secolo la maggior
parte delle missioni della California produceva vino. Unwin (1993) prosegue affermando che,
comunque, l’impulso maggiore a questa industria vinicola iniziale si registrò negli anni cinquanta
del secolo scorso, quando un certo numero di immigrati cominciò a sperimentare le varietà europee
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della Vite nella Sonoma Valley (Schoenman, 1979). L’espansione del XIX secolo fu interrotta
bruscamente dal collasso della corsa all’oro, dall’arrivo della fillossera e poi nel 1920
dall’approvazione della legge proibizionista (Hutchinson, 1969). Fu solo nel 1933, con
l’abrogazione di quella legge, che l’industria del vino californiano cominciò ad emergere nella sua
forma attuale (Blue, 1988).
La coltivazione della Vite volta alla produzione del vino si situa intorno al 4000 a.C.,
risalendo forse addirittura al 6000 a.C., nelle regioni montuose del Mar Nero e del Mar Caspio, in
una zona delimitata dagli stati odierni della Turchia, Siria, Iraq, Iran, e Russia (Billiard, 1913; Lutz,
1922; Levadoux, 1956; Negrul, 1960; Younger, 1966; Ramishvili, 1983; Hyams, 1987; Johnson,
1989).
La Bibbia è una delle fonti letterarie più preziose per quanto riguarda le origini della
viticoltura (Unwin, 1993).Il racconto dell’origine della viticoltura nel Libro della Genesi coincide
nelle grandi linee con quanto sappiamo dalla paleobotanica. Così Noè, dopo che la sua arca si era
arenata sul monte Ararat (Genesi 8, 4), essendo “coltivatore della terra, cominciò a piantare una
vigna” (Genesi 9, 20). Se assumiamo che il monte Ararat sia la montagna nota anche come Buyuk
Agri Dagi nella Turchia orientale e se questo accenno al vigneto nella Bibbia indica l’origine della
viticoltura, ecco allora un’ulteriore testimonianza a favore dell’identificazione in quella zona
dell’origine della viticoltura.
Un documento molto più vecchio della Genesi ci è giunto da Babilonia: è l’epopea di
Giglamesh, che in parte racconta anch’esso la storia di un diluvio universale. E’ l’opera letteraria
più antica che si conosca, risalente forse al 1800 a.C., ma come tutte le epopee parla di un tempo
degli eroi molto più antico. L’undicesima tavoletta di Giglamesh racconta la storia di Upnapishtim,
che sembra essere una versione babilonese di Noè. La storia di Upnapishtim, però, non fa accenni al
vino. Il vino è il tema della decima tavoletta, in cui l’eroe, Giglamesh, parte alla ricerca
dell’immortalità ed entra nel regno del Sole, dove trova una vigna incantata il cui vino, se gli fosse
permesso di berlo, gli darebbe l’immortalità alla quale aspira (Johnson, 1991)
La viticoltura arrivò tutta d’un colpo dalla Grecia all’Italia meridionale, dove le prime tracce
certe di questa attività risalgono all’incirca all’800 a.C. (Johnson, 1991). La viticoltura in Italia,
però, esisteva già prima della colonizzazione greca. Gli Etruschi producevano vino con metodi
molto simili a quelli dei Greci e lo usavano allo stesso modo; inoltre lo esportavano al di là delle
Alpi verso la Gallia (Johnson, 1991). Mi preme a questo punto rimarcare come l’Etruria, la terra
degli Etruschi, coincida in gran parte con l’attuale Umbria.
La viticoltura si diffuse dall’Italia all’Europa continentale portata dai Romani. I vigneti della
Côte d’or, in Borgogna, furono inizialmente impiantati dai Romani fra il 50 ed il 150 d.C.
(Thevenot, 1952).
I Greci chiamarono la penisola italiana Terra del Vino (Johnson, 1991). Non c’è una sola
regione dove la Vite non si sente a suo agio. André Jullien (1816), cronista imparziale per
definizione, parlando dei vini italiani all’inizio del XIX secolo, si esprimeva in questi termini: “Il
suolo dell’Italia è famoso per la sua fertilità. Il suo clima e la lunga catena di montagne che si
estendono dalle Alpi alla Calabria, offrendo per tutta la lunghezza tutte le varietà di suolo e di
posizione che sono favorevoli alla Vite, sembrano giustificare il nome di Enotria che le diedero gli
antichi. Si potrebbe credere che questo paese produca i migliori vini d’Europa; ma” egli aggiunge,
stemperando un elogio altrimenti stranamente incondizionato, “mentre i popoli di terre meno
fortunate si ingegnano di scegliere le viti che meglio si adattano alle loro stagioni intemperanti, gli
Italiani, abituati a vedere la Vite crescere quasi spontaneamente e a dare frutti maturi dappertutto,
non tentano nemmeno di sfruttare al massimo i loro vantaggi. Sicuri del raccolto sufficiente,
tralasciano la cura delle loro piante”. Quasi tutte le viti italiane”, prosegue Jullien, “sono sostenute
da alberi, formando alte cortine di fogliame sotto le quali il contadino pianta il suo grano ed i suoi
fagioli”. Per usare le parole di Guyot (1860), filosofo-scienziato dei vini francesi: “Una libertà,
uguaglianza e fraternità vegetale che distruggeva tre quarti del loro vigore e della loro fecondità”.