II
frammenti qui presi in considerazione, immagine e musica si nobilitano a vicenda e le canzoni
non possono essere liquidate come strizzatine d’occhio a particolari fasce di pubblico.
Certo pensare ad un rapporto così specifico tra il pop, il rock, il jazz e il cinema significa
anche escludere automaticamente un determinato genere di film.
Quando si pensa al cinema e alle canzoni vengono in mente Ich bin ein von Kopf bis Fuss auf
Liebe eingestellt in Der Blaue Engel (Gemania, 1930) di Von Sternberg, Singing in the Rain
nel film omonimo (USA, 1952) di Stanley Donen, Born to be Wild in Easy Rider (USA,
1969) di Dennis Hopper.
Questo vuol dire sostanzialmente che la canzone da una parte è considerata come la “canzone
del film”
2
, nel caso in cui i “brani si “distaccano” dall’aneddoto per aderire al film, da cui
diventano inseparabili nella memoria collettiva.”
3
.
Dall’altra la canzone sembra essere un ingrediente obbligatorio per film generazionali, ribelli
o nostalgici che siano.
A mio modo di vedere queste sono entrambe categorie in qualche modo restrittive: la prima
riguarda più il culto del film che il film stesso e sarebbe di utile applicazione in un ipotetico
saggio sulle edizioni in cd delle colonne sonore
4
; la seconda, se vale per film come American
Graffiti (USA, 1973) di George Lucas o The Big Chill (USA, 1984) di Lawrence Kasdan, mi
pare in larga parte inadeguata per i film che prenderò in esame.
Per un motivo simile ho preferito escludere dal discorso anche alcuni generi cinematografici
2
Metz C., L’enunciazione impersonale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1995, p.172.
3
Ibid., p.173.
4
La colonna sonora su cd è diventata una forma forte di riverberazione del film: un modo per riviverlo senza rivederlo. Forse
questa è una delle tante conseguenze della disponibilità dei film su videocassetta. La possibilità di potere rivedere un film
in qualsiasi momento paradossalmente spinge ad altre forme di consumo, che si staccano dalla visione per riscivolare nel
ricordo.
III
la cui presenza sembrerebbe invece scontata, come la biografia filmata del cantante
5
o il
documentario rock
6
.
La scelta è in parte dovuta alla convinzione che “la vera novità è l’uso di canzoni in film non
prettamente musicali”
7
, dall’altra allo scarso interesse di chi scrive per questo tipo di film:
credo francamente che la messa in scena della figura del musicista, e in genere dell’artista,
serva spesso solo a produrre un altro po’ di kitsch cinematografico
8
.
Anche i film in cui l’uso delle canzoni è prevalentemente nostalgico, sono il più delle volte di
scarso interesse per quanto riguarda l’argomento di questo lavoro, perché sfruttano soprattutto
la funzione più banale e gratuita del brano musicale, cioè arredare una storia con i successi da
classifica di determinati anni o determinati ambienti.
5
Vedi su questo punto Romney J. (A cura di), Celluloid jukebox, British Film Institute, London, 1995, pp.20-31.
6
Ibid., pp.82-93.
7
Castaldo G., Cinema e canzoni, in Sapore di sala, La casa Usher, Firenze, 1990, p.85.
8
Sull’argomento vedi Eisner L.H., Il kitsch cinematografico, in Dorfles G., Il Kitsch, Mazzotta, Milano, [5° edizione] 1990,
pp.197-215.
IV
2. L’Anno dello Scorpione: (Quasi) un Film all’Anno.
Il rapporto tra cinema e canzone in altri casi, può essere molto meno scontato: le colonne
sonore di Casino (USA, 1995) e Natural Born Killers (USA, 1994), film emblematici per
quel che riguarda l’idea di fondo di questa tesi, ad esempio rivelano una costruzione
elaborata che si integra produttivamente e coerentemente con il progetto generale del film.
Le opere di Stone e Scorsese sono quelle che più di altre prefigurano un nuovo modello di
cinema audiovisivo, influenzato anche a livello macrostrutturale dall’onnipresenza delle
canzoni e della musica.
Sono inoltre le più “resistenti” a qualsiasi tentativo d’interpretazione stabile: è già un
problema individuare, collocare e dare un nome ai vari interventi musicali (alcuni dei quali
durano solo pochi secondi).
Casino e Natural Born Killers sono dunque, a livello operativo, i film-guida di questo
lavoro (anche se lo spazio ad essi dedicato è diseguale): la loro analisi è stata una vera e
propria “palestra” che ha indicato il percorso d’indagine anche degli altri film protagonisti
di questa tesi, tutti prodotti negli USA tra il 1986 e il 1996: Blue Velvet, Wild at Heart e
Lost Highway di David Lynch, The Bad Lieutenant di Abel Ferrara, Reservoir Dogs di
Quentin Tarantino, Heat di Michael Mann. Ad altri film mi riferisco sporadicamente (Pulp
Fiction di Quentin Tarantino, Goodfellas di Martin Scorsese) ma sulla scorta delle
riflessioni ricavate dall’analisi di questo gruppo principale.
Oltre ad una sensibilità talvolta sorprendente per le canzoni, questi film hanno altri punti in
comune che ne fanno un corpus compatto.
Tutti tendono a rivisitare e a mischiare i generi cinematografici (noir, roadmovie, gangster
movie, ecc.) in varie modalità; due di questi (Wild at Heart e NBK) rinverdiscono il mito
V
on the road della coppia fuorilegge di film come Bonnie & Clyde, Honeymoon killers e
Badlands
9
; i film dei due italo-americani, Ferrara e Scorsese, hanno in più in comune un
discorso etico-religioso che sia nell’uno che nell’altro si concretizza spesso in una sorta di
discesa all’inferno dei personaggi messi in scena.
Altri punti di contatto tra i film citati potrebbero essere ricercati nel cast (Robert DeNiro,
Dennis Hopper e Harvey Keitel sono ad esempio presenti in due film ciascuno) o nella troupe
(Tony Richardson, il direttore della fotografia di NBK, lo è anche di Casino), ma almeno per
adesso conviene non insistere troppo su una omogeneità che potrà emergere in seguito, dati
alla mano.
Non mi rimane che impaginare la copertina ideale di questa tesi, il film che meriterebbe di
essere incluso come capolista: Scorpio Rising (USA, 1963).
Il film di Kenneth Anger è stato il primo di cui non si è potuto parlare senza prendere in
considerazione le canzoni di accompagnamento
10
, inoltre è probabilmente molto amato dalla
generazione di autori
11
da me presi in esame.
Non deve sorprendere il paragone tra un film underground e una serie di film dopotutto di
cassetta: il cinema mainstream (e questa definizione non è del tutto esatta per i titoli qui presi
in esame) spesso si rinnova inglobando al suo interno le intuizioni del cinema d’avanguardia.
9
Vedi Kinder M., Il ritorno della coppia fuorilegge in Hollywood Cinema 1969-1979: cinema, cultura, società, Mostra
internazionale del nuovo cinema di Pesaro, Marsilio, Bologna, 1979, pp.150-165.
10
Cfr. con Wees C., Light Moving in Time, Studies in the Visual Aesthetics of Avant-Garde Film, University of California
Press, Berkeley, Los Angeles, Oxford, 1992, pp.111-113; Vedi anche Romney (A cura di), Celluloid jukebox, British Film
Institute, London, 1995, pp.44-52.
11
Ad esempio Martin Scorsese ha più volte ricordato questa influenza. Vedi: Sans la musique, je serais perdu, “Cahiérs du
Cinéma”, numero special musique, n.404, p.15.
VI
Nel nostro caso Scorsese, Lynch, Ferrara sono dei novelli Kenneth Anger, che associano
canzoni dal suono familiare a situazioni del tutto impreviste.
L’interesse di questa tesi consiste nel capire perché film come Casino, Natural Born Killers o
Lost Highway devono parte del loro fascino a questo attrito semantico.
Il percorso d’indagine, dopo una breve premessa sul metodo d’analisi, si occupa del rapporto
tra canzone e struttura drammatica del film, da due punti di vista quasi opposti: nella prima
parte del capitolo è presa in considerazione l’articolazione emotiva della sequenza tramite il
montaggio delle canzoni, mentre nella seconda parte è esaminato l’uso dei brani musicali
come frammenti informativi e discorsivi della narrazione.
Nel terzo e nel quarto capitolo si parla di due funzioni quasi classiche della musica da film: la
funzione di commento e l’uso della musica per esprimere l’interiorità del personaggio.
Nell’ultimo capitolo infine, prima di concludere, si indicano altri percorsi d’indagine sulla
canzone e la musica da film.
Prima di iniziare la discussione, premetto ancora due cose.
La prima premessa è di tipo operativo e riguarda la visione dei film in lingua originale: in
questo lavoro è stata utile non tanto per esigenze “filologiche” (vista anche l’attualità dei film
trattati) quanto per non sfalsare la percezione uditiva dei vari equilibri sonori. Nelle versioni
doppiate infatti, la naturale attrazione verso la lingua madre (e quindi verso dialoghi e voci
over dei personaggi) altera ingiustamente l’importanza delle voci cantanti.
La seconda premessa riguarda la “posta in gioco”: il rapporto tra film e canzone è una
interazione ad alto rischio: il rischio di fidarsi troppo del brano musicale e poco delle
immagini
12
; il rischio di compilare antologie da edicola o al massimo da classifica (vedi film
12
Si pensi ad esempio all’uso scriteriato che in troppi film si fa di una canzone stupenda come What a Wonderful World.
VII
come Forrest Gump o Batman Forever); il rischio di rivolgersi a target di pubblico troppo
ristretti
13
; senza dimenticare il rischio che le canzoni possono semplicemente essere
deprimenti e che un loro utilizzo in contrasto con le immagini o parodico non sempre è
sufficiente a riscattarle. Da parte mia posso solo sperare di imbattermi il meno possibile in
casi del genere.
13
Un film fondamentale per l’avvento della canzone al cinema, Easy Rider di Dennis Hopper aveva sicuramente anche
questo intento.
UNA VOCE CHE NON VEDE
2
1. Orecchie Tagliate.
Una banda di criminali ha in parte fallito una rapina: forse tra loro c’è un traditore. I sei componenti,
ognuno dei quali ha come nome in codice un colore, si sono rifugiati in un magazzino. Con loro
hanno un poliziotto come ostaggio.
Mr. Blonde, rimasto solo nel rifugio, comincia a torturarlo (non senza aver prima sintonizzato la
radio sul suo programma musicale preferito). Con un rasoio gli taglia un orecchio che usa come un
telefono cellulare
1
e mormora nell’improvvisata trasmittente: “Pronto, pronto, mi senti...Per te è
stato bello come per me ?”, dopodiché getta via l’orecchio.
Il giovane Jeffrey Beaumont passeggia su di un prato, vede qualcosa, lo prende in mano: è un
orecchio umano mozzato, in decomposizione, già invaso da una colonia di formiche.
I due frammenti, tratti rispettivamente da Reservoir Dogs (Usa, 1994) e Blue Velvet (USA,
1986), così giustapposti sembrano mettere in scena una citazione deviante di Un chien
andalou (Francia, 1926).
Se in Buñuel era la vista ad essere profanata, in Lynch e Tarantino è invece l’udito ad essere
aggredito.
Le intenzioni certo sono diverse: il secondo ricerca un effetto di humour nero in una stasi
narrativa e non sembra inseguire un senso programmatico o metacinematografico.
Il ritrovamento dell’orecchio in Blue Velvet invece senza avere la stessa forza
scandalistica e rivoluzionaria del gesto irripetibile di Buñuel — esprime una vera e propria
poetica lynchana del sonoro.
Il regista americano ha spesso affermato di sentirsi più fonico che regista
2
e a proposito del
film in questione ha dichiarato che all’inizio doveva esserci un orecchio «perché è
1
La metafora è di U.Mosca, Prima ballo poi ti ammazzo, “Garage”, N.6, febbraio 1996, p.119.
2
“People call me a director but I really think of myself as a soundman”. Frase riportata da Chion, David Lynch,
Lindau, Torino, 1995, p.212. Affermazione quasi paradossale per un regista che ha iniziato la sua carriera artistica
come pittore. D’altra parte da Kandinski in poi la storia delle immagini abbonda di riferimenti alla musica come
ispirazione primaria.
3
un’apertura. Un orecchio è ampio e ci si può scivolare dentro»
3
. L’orecchio come ingresso e
inabissamento nella finzione dunque, ma non solo.
In questo caso l’orecchio è anche «un luogo di passaggio, il simbolo della comunicazione
tra i mondi. Con esso viene trasmesso il dono di passare attraverso la superficie e di
viaggiare tra i mondi»
4
.
L’udito è cioè lo strumento d’iniziazione a realtà parallele, tema come si sa molto caro a
Lynch.
L’orecchio per il regista americano sembra un orifizio erotico e accogliente, quasi un
contraltare dell’occhio buñueliano, tanto occluso e cieco alla morbosa verità del desiderio,
da giustificare l’aggressione rivelatrice da parte del cineasta.
È vero, anche all’inizio di Velluto Blu c’è un taglio: qualcun altro ha compiuto il gesto
violento al posto di Jeffrey. Nonostante questo il destino simbolico dell’orecchio rimane
diverso dal carattere di rivelazione insito nell’apertura forzata dell’occhio: «l’orecchio non
ha palpebre. Quando andiamo a dormire, la percezione del suono è l’ultima porta a
chiudersi ed è la prima ad aprirsi al nostro risveglio»
5
.
In virtù di questa permanente disponibilità, non si dovrebbe essere timorosi nell’indagare
l’ascolto, davanti a noi si spalanca una nuova avventura del senso.
Stranamente questa soglia così attraente ha attirato poco gli studiosi di cinema: come ha
giustamente osservato Michel Chion, il cinema è sonoro da più di sessant’anni eppure si
stenta ad attribuire all’ascolto lo stesso valore della visione.
Questa mancanza appare ancor più grave se si pensa a quanto sia diversa l’esperienza
effettiva in sala: l’ascolto è già sullo stesso livello della visione perché i due sensi si
integrano naturalmente: «non si “vede” la stessa cosa quando si sente; non si “sente” la
3
Rodley C., Lynch su Lynch, Baldini & Castoldi, Milano, 1998, p.195.
4
Chion M., David Lynch, cit., 212.
5
Schafer R.M., Il paesaggio sonoro, Unicopli-Ricordi, Milano, 1985, p.24.
4
stessa cosa quando si vede»
6
; «gli elementi sonori del film (...) non sono presi in un blocco
autonomo; tali elementi sonori vengono immediatamente analizzati e ripartiti nella
percezione dello spettatore in base al rapporto che stabiliscono con le immagini viste via via
dallo spettatore»
7
.
Quest’assunto rappresenta il presupposto essenziale per la riuscita di questo lavoro che è
dedicato ad una componente ben specifica che però, vedremo, tende ad annullare i confini
con gli altri elementi sonori: la canzone, che è allo stesso tempo musica, parola e rumore.
2.A Singer Must Die.
I thank you , I thank you / For doing your duty / You keepers of truth
/ You guardians of beauty / Your vision is right / My vision is wrong /
I’m sorry for smudging / the air with my song
8
Quando alla conferenza stampa di un festival alcuni critici mi chiesero di
che si trattasse in realtà il film, risposi: “è sulla canzone All along the
watchtower, e il film è su ciò che succede o che cambia a seconda che la
canzone sia cantata da Bob Dylan o da Jimi Hendrix.”
9
Nonostante il buon numero di studi dedicati alla musica da film, poco o nulla si è parlato
6
Chion M., L’audiovision, Nathan, Paris, 1994. [trad. it. L’audiovisione, Lindau, Torino, 1997, p.7].
7
Chion M., La voix au cinéma, Cahiérs du Cinéma, Editions de l’Etoile, Paris, 1981. [trad.it. La voce al cinema,
Pratiche, Parma, 1991,.p.13].
8
Versi tratti da A Singer Must Die di Leonard Cohen: Vi ringrazio \ perché fate il vostro dovere \ voi, depositari della
verità \ voi, guardiani della bellezza \ voi la vedete alla giusta maniera \ io in quella sbagliata \ mi dispiace solo di
imbrattare \ l’aria con la mia canzone.
9
Wenders W., L’Idea di partenza, scritti di cinema e musica, Liberoscambio, Firenze, 1983, p.124.
5
delle canzoni
10
.
Questa disattenzione verso le canzoni al cinema ha una motivazione doppia e paradossale:
per anni la stessa musica da film è stata guardata con sospetto dai musicologi, poi quando
finalmente qualcuno competente in materia ha cominciato ad occuparsene, ha accordato
solo un ruolo secondario (o addirittura nullo) alla canzone
11
, assumendo in definitiva lo
stesso atteggiamento dei suoi stessi detrattori. Da una parte la musica, dall’altra la popular
music. Prima di approfondire i motivi di questo paradosso, conviene però precisare il senso
di questi termini che possono sembrare vaghi.
Cosa intendo per canzone, cosa intendo per popular music?
La canzone è la forma canonica di una musica che con etichette ormai imbarazzanti si
definisce “leggera”, “popolare”, “di consumo”; tutti questi termini hanno connotazioni
dispregiative che non le rendono giustizia.
A mio parere il rock e il jazz (anch’esso in origine liquidato come popolare dai benpensanti
musicali) ha contribuito a colmare un vuoto evidente lasciato dalla musica colta nel
dopoguerra: da Darmstadt
12
in poi ha osservato Guy Scarpetta «le invenzioni di Schönberg
o di Webern furono accentuate più sotto il profilo di quello che potevano proibire che di
quello che suggerivano. Ma l’aspetto più inquietante (...) risiede nel fatto che la fuoriuscita
da questo avanguardismo sembra suscitare (...) più un tentativo regressivo (il tentativo di
dimenticare i viennesi, di “tornare a prima” o di “passare accanto”) che una ripresa
dell’innovazione»
13
. Uno degli indizi più evidenti di questa crisi dell’invenzione musicale è
10
Vedi la bibliografia alla voce apposita.
11
Vedi la bibliografia alla voce apposita.
12
Si intende qui riferirsi alla scuola che fa capo a Boulez, Stockhausen e Nono, carartterizzata (soprattutto per
quanto riguarda Boulez) dall’applicazione del principio dodecafonico anche a timbro, ritmo e durata.
13
Scarpetta G., L’impuro, il Saggiatore, Milano, 1985, pp.53-58.
6
dato dal fatto che il dibattito più “rovente” che oggi agita l’ambiente musicale «verte più
sull’interpretazione...che sulla creazione»
14
: si dedica più spazio alla filologia dello spartito
che alla composizione di nuove opere.
Certo la posizione di Scarpetta e di chi scrive è volutamente esagerata; non sono certo
mancati i grandi maestri nella musica contemporanea: Berio, Penderecki, Ligeti e altri non
sono certo artisti che si possono liquidare con quanto detto finora. Resta il fatto però che il
pubblico e la critica tendono a frequentare più i compositori del periodo classico-romantico
che le ricerche più attuali e vicine alla sensibilità artistica del ‘900: la maggior parte dei saggi
e dei concerti sono operazioni “archeologiche” che sparirebbero senza il supporto
economico dello stato, mentre i suoni che l’ascoltatore “vive” quotidianamente sono
ingiustamente ignorati.
Come avviene da tempo negli studi sul cinema, bisognerebbe anche nella musica, usare più
cautela prima di decretare cos’è “autoriale” e cos’è invece un prodotto “di consumo”.
Esiste un critico o un docente di cinema che si sognerebbe mai di fare due storie separate,
una per i registi che hanno studiato cinema e una per chi semplicemente l’ha fatto? Bene
nella storia e nella critica musicale questa è la prassi.
A questa paralisi della musica colta (che, come ho precisato, è dovuta più agli studiosi che ai
compositori, i quali al contrario sono spesso interessati alla popular music
15
) ha risposto la
dinamicità e la semplicità compositiva della musica popolare. Il blues e tutte le sue filiazioni
hanno saputo rinnovarsi miracolosamente a partire sempre dalla stesse semplici strutture
melodiche e ritmiche.
14
Ibid., p.56.
15
Famosa ad esempio l’adozione da parte di Stravinskji di alcuni moduli della musica jazz.
7
La rivalutazione di queste forme d’espressione come tutte le rivalutazioni passa prima di
tutto attraverso l’adozione di una nuova etichetta che faccia piazza pulita delle connotazioni
di etnicità, oralità, semplicità che inficiano le definizioni correnti.
A questo proposito la soluzione più sbrigativa è cambiare lingua. Nell’area anglosassone per
POPULAR MUSIC si intende il rock, il pop, le sigle televisive, le colonne sonore, «dal punk e
dalla musica leggera alle sonorità weberniane della musica degli assassini nei gialli
televisivi»
16
.
Philipp Tagg ha proposto uno schema (riportato a p.12) per delimitarne il campo
socioculturale
17
. La popular music per lo studioso svedese è dunque un prodotto di massa,
tipico delle società industriali, fatta principalmente da professionisti
18
, il cui oggetto di
distribuzione è costituito da un supporto registrato.
Quest’ultimo tratto costitutivo è il più importante: nella popular music il momento
fondante della composizione è l’esecuzione, intendendo con questo termine non il semplice
suonare ma un complesso di passaggi operativi.
La copia originale non è uno spartito scritto da un compositore da solo al pianoforte ma
una registrazione effettuata in studio, chiamata in gergo master, che è il risultato del
confronto tra due personalità sonore: da una parte uno o più strumentisti e\o cantanti,
dall’altra il produttore.
Entrambi i soggetti in gioco sono alla ricerca del cosiddetto SOUND, «l’impatto sonoro di
un brano, di un musicista, di uno stile (...) di solito riconoscibile immediatamente, (...) è il
risultato di un processo manipolatorio sviluppato principalmente in sala di registrazione»
19
.
16
Tagg P., Da Kojak al rave, CLUEB, Bologna, 1994, p.55.
17
Ibid., p.48.
18
Io avrei aggiunto che la popular music il più delle volte è suonata da band di pochi componenti, mentre la musica
classica nella sua massima espressione è eseguita da orchestre di decine di elementi.
19
Tagg P., cit., p.49 (nota).
8
Questa ed altre dimensioni importanti della popular music non possono essere espresse
dalla notazione tradizionale.
Il testo della popular music deve essere considerato qualcosa che sta perennemente a metà
tra l’esecuzione e la registrazione, gli LP live stanno lì a dimostrarlo: nonostante siano
registrati durante uno o più concerti dal vivo, sono album che comunque assumono la
forma definitiva in studio attraverso raffinate cernite e rimasterizzazioni delle versioni di un
brano (nonché accurati dosaggi del volume del pubblico).
Nella popular music, in pratica, il supporto registrato è l’originale e il concerto è la copia: in
definitiva, il secondo serve a promuovere le vendite del primo.
L’anima commerciale della popular music fa si che sia disprezzata per l’eccessiva
recepibilità: visto che la maggior parte delle canzoni si rifà a schemi collaudati si
presuppone che tutta la musica leggera sia una melodica banalità in 4\4 e che chiunque
venga dalla vera musica sarebbe in grado di comporre Like a Rolling Stone in cinque minuti.
Non voglio semplicemente affermare il contrario; chi disprezza il pop, il rock non il jazz
che nata come musica popolare da club è ormai materia di studio universitaria potrebbe
aver ragione: la sua percezione della popular music è probabilmente affollata da
eserciti di Take That, Hanson e Backstreet Boys, Shirley Temple musicali con una carriera
lunga quanto la vita dei moscerini.
Ma aldilà di questa sorta di pedofilia da hit parade c’è tutto un universo eterogeneo e
frammentato in generi e sottogeneri in cui è difficile orientarsi anche per un esperto.
Questo per dire che la sottovalutazione della popular music dipende più spesso da cecità
preventiva che da sordità dogmatica: se i benpensanti musicali aprissero gli occhi, oltre alle
orecchie, scoprirebbero che Philip Glass, Michael Nyman, Meredith Monk, Laurie
Anderson, Ute Lemper (e l’elenco di artisti, di solito considerati tutt’altro che popolari
potrebbe continuare per pagine) fanno parte della popular music. Non vorremo per caso
negarne le qualità solo perché nei negozi i loro cd stanno affianco di quelli di Madonna?