6
quello di membro della società civile. Quest’evoluzione, ha per soggetto un uomo
che è sempre membro di una società più o meno complessa, regolata da rapporti
gerarchici di vario tipo. La formazione dello Stato avviene così per forza di cose,
per effetto di cause naturali e sociali, come l’aumento della popolazione, la
necessità della difesa, ecc.
Il modello giusnaturalistico, che s’imporrà nella filosofia politica dell’età moderna,
ponendo fine alla supremazia dell’aristotelismo, presenta delle caratteristiche
completamente diverse. Innanzitutto, esso è costruito sulla grande dicotomia stato
di natura–società civile. Il punto di partenza dell’analisi dell’origine e del
fondamento dello Stato, è lo stato di natura, nel quale già vige il diritto naturale.
Lo stato di natura, che a volte non ha pretese di storicità, ma è una semplice ipotesi
razionale, rappresenta uno stato pre-politico, costituito da individui liberi ed uguali
tra loro. Esso, a prescindere dalle diverse caratterizzazioni presentate dai diversi
autori, è sempre uno stato imperfetto, che richiede dunque la costituzione dello
stato civile, che ne elimini i difetti. A questo punto possiamo facilmente delineare
le differenze tra i due modelli, che rappresentano una delle grandi dicotomie della
filosofia politica sino a Hegel.
Mentre il modello aristotelico dà una spiegazione
storico-sociologica dell’origine dello Stato, e vede quest’ultimo come il fine
naturale dell’uomo, il modello giusnaturalistico propone una concezione
razionalistica, che vede lo stato di natura come antitesi della società civile. Mentre
dunque Aristotele ha una concezione sociale ed organica della polis, e vede gli
uomini vivere sempre in uno stato di disuguaglianza, il giusnaturalismo ha una
concezione individualistica dello Stato, e teorizza uno stato di natura in cui gli
uomini sono tutti liberi e dotati di uguali diritti. Abbiamo dunque una teoria
naturalistica del fondamento del potere statale, contro una teoria contrattualistica, e
una teoria della legittimazione attraverso la forza degli eventi, contro una teoria
della legittimazione attraverso il consenso.
Prima di andare avanti, è necessario fare alcune osservazioni sul legame tra
modello giusnaturalistico e società borghese. Si tratta di uno dei temi fondamentali
7
della storiografia marxista
3
, che vede il giusnaturalismo come il referente
ideologico della società borghese. L’interpretazione che Hill dà della teoria di
Hobbes, e quella ormai classica di Macpherson, che tratteremo in seguito, sono
tipiche espressioni di questa corrente. Secondo queste teorie, esiste senza dubbio un
forte legame tra modello giusnaturalistico e società borghese
4
. Innanzitutto, la
scoperta di uno stato pre-politico, lo stato di natura appunto, come luogo dei
rapporti più semplici e immediati, come quelli economici, rappresenta la scoperta
di una sfera economica distinta da quella politica, in opposizione alla confusione tra
potere economico e potere politico tipica dell’età feudale
5
.
È questo un punto
importante ai fini del nostro discorso, in quanto l’individuazione di una sfera
economica pre-statale sembrerebbe dare per scontato che gli individui che vi fanno
parte sono già possessori di una serie di diritti, tra cui quello alla proprietà privata.
Si può dire, infatti, che, nel modello giusnaturalistico, lo Stato sorge per volontà dei
possessori di beni, per la protezione delle loro proprietà. Il discorso non è però così
semplice, poiché ogni autore utilizza questo modello in maniera differente, e
vedremo infatti, che quello che abbiamo appena detto, sembra non valere per
Hobbes. Parleremo poi in maniera più accurata del diritto di proprietà nello stato di
natura del filosofo di Malmesbury; per adesso è importante tenere presente
l’importanza del concetto di proprietà privata, e della figura del proprietario nella
teoria del diritto naturale. Gli ideali di libertà ed eguaglianza, e soprattutto l’idea
del contratto, sembrano così riflettere le rivendicazioni di una precisa classe
politica, la borghesia, che, già economicamente potente, lotta per conquistare anche
il potere politico. Detto questo, cerchiamo di capire qual è la posizione di Hobbes
all’interno di questa «scuola».
Quello che abbiamo descritto come giusnaturalismo, andrebbe in realtà definito in
maniera più precisa come giusnaturalismo moderno, distinto da quello classico e
3
Cfr. C. Hill, in Saggi sulla rivoluzione inglese del 1640, Milano 1957, e C. B. Macpherson,
Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, Milano 1973.
4
Cfr. C. Hill, op. cit., pp. 356 e sgg. , e C. B. Macpherson, op. cit. , p. 78.
5
Cfr. N. Bobbio, op. cit., pp. 12-13.
8
medievale. Ogni dottrina morale che presuppone l’esistenza di una legge naturale
precedente quella civile, sia cronologicamente, sia assiologicamente, è infatti una
dottrina giusnaturalistica. Da questo punto di vista, lo stesso Aristotele rientrerebbe
in questa categoria. Il giusnaturalismo che abbiamo descritto, seppur in maniera
sommaria, è invece il giusnaturalismo moderno. Ora, una tradizione che risale a
Pufendorf, che solo da poco è stata rimessa in discussione, vede in Ugo Grozio il
capostipite del giusnaturalismo moderno. Grozio sarebbe stato dunque il primo a
spezzare il dominio incontrastato dell’aristotelismo nella filosofia morale, e a
fondare così una nuova teoria del diritto naturale. Da alcuni anni, però, si è diffusa
la convinzione che il giusnaturalismo moderno cominci non da Grozio, ma da
Hobbes
6
. Nuovi studi hanno infatti posto in rilievo la portata innovatrice del
pensiero politico di Hobbes, che farebbe di lui il vero capostipite della filosofia
politica moderna. Egli è infatti il primo ad elaborare una serie di prescrizioni «more
geometrico». In questo modo, «il diritto naturale cessa di essere la via attraverso la
quale le comunità umane possono partecipare all’ordine cosmico o contribuire ad
esso, per diventare una tecnica razionale della coesistenza»
7
. Prendendo le mosse
non più dalla natura sociale dell’uomo, ma dalla sua natura egoistica, Hobbes sarà
il primo ad elaborare una compiuta teoria dello stato di natura, nel quale gli uomini
posseggono non già doveri, ma diritti naturali.
Abbiamo fatto questi brevi accenni al rapporto tra Hobbes e il giusnaturalismo, per
mettere in rilievo un aspetto importante ai fini del nostro discorso sulla proprietà: il
carattere innovativo del pensiero hobbesiano, che dunque rappresenta un punto di
svolta nell’ambito della filosofia politica, in linea con i profondi mutamenti
culturali, sociali, politici ed economici propri dell’inizio dell’evo moderno. Il
rapporto tra Hobbes e il giusnaturalismo, tra il pensiero liberale e autori come
Locke, è da alcuni anni divenuto il tema dominante di numerosi studi. Lo scopo di
questo lavoro è di analizzare il concetto di proprietà privata nelle opere di Hobbes e
6
Cfr. ibidem, p. 147.
7
N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino 1961, p. 245 b.
9
Locke, di conseguenza ci sembra indispensabile cercare di inquadrare le due teorie
nel contesto storico e storico-filosofico cui appartengono. Le due dottrine sono state
spesso considerate antitetiche, così come sono la teoria di uno Stato assoluto e
quella di uno Stato liberale. Nondimeno, la critica filosofica del secolo scorso ha
molto spesso posto in rilievo i punti in comune, arrivando addirittura a tesi
paradossali secondo cui non ci sarebbero divergenze sostanziali tra le due teorie
8
.
Ecco perché ci sembra indispensabile fare qualche breve accenno ai rapporti che i
due autori hanno con il modello giusnaturalistico, che entrambi utilizzano per
giungere poi a conclusioni opposte, e con il contesto storico che alcuni critici hanno
ritenuto determinante nell’elaborazione delle loro dottrine e nell’evoluzione del
loro pensiero.
In conclusione, possiamo dunque dire che Hobbes fu un giusnaturalista, o meglio, il
primo dei giusnaturalisti moderni. Gli elementi innovatori del suo modello
rappresentano una rivoluzione nell’ambito della filosofia politica, ed è dunque sotto
questo punto di vista che vanno analizzate le affinità con pensatori posteriori,
apparentemente molto diversi, come Locke. Entrambi si pongono su un piano
diverso rispetto a filosofi come Grozio, per certi aspetti ancora legati al pensiero
medievale.
8
Cfr. G. Bedeschi, Introduzione a W. Euchner, La filosofia politica di Locke, Roma-Bari 1976,
pp. VII e sgg.
10
1.2 LO STATO DI NATURA E LA PROPRIETÀ
PRIVATA: LO IUS IN OMNIA
Cercheremo adesso di esporre il pensiero di Hobbes in relazione allo stato di natura
e alla proprietà privata.
Possiamo innanzitutto dire che lo stato di natura ipotizzato da Hobbes è una pura
ipotesi della ragione. Il suo studio sulla nascita e sullo sviluppo dello Stato non è
una ricerca di cause storiche, ma di ipotetiche cause efficienti
9
. Lo stato di natura,
in realtà, si può verificare storicamente, in tre situazioni particolari: nelle società
primitive, nel caso della guerra civile, e nella società internazionale, cioè
rispettivamente in una situazione pre-statale, antistatale, e inter-statale
10
: «Infatti, in
molti luoghi d’America, i selvaggi, se si esclude il governo di piccole famiglie la
cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale, non hanno affatto un governo e
vivono attualmente in quella maniera animalesca di cui ho prima parlato. Ad ogni
modo, si può intuire quale genere di vita ci sarebbe se non ci fosse un potere
comune da temere, dal genere di vita in cui, durante una guerra civile, precipitano
abitualmente gli uomini che fino a quel momento sono vissuti sotto un governo
pacifico. Ma qualora non fosse mai esistito un tempo in cui gli uomini isolati
fossero in uno stato di guerra gli uni contro gli altri, tuttavia in tutti i tempi, i re e le
persone dotate di autorità sovrana sono, a causa della loro indipendenza, in una
situazione di continua rivalità e nella situazione e nella postura propria dei
gladiatori, le armi puntate e gli occhi fissi gli uni su gli altri: vale a dire fortezze,
9
Cfr. H. Warrender, Il pensiero politico di Hobbes,Roma-Bari 1995, p. 246.
10
Cfr. N. Bobbio, op. cit., p. 42.
11
guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e spie che controllano
incessantemente i Paesi vicini; questo è un atteggiamento di guerra»
11
.
Questi referenti storici però, hanno più lo scopo di rendere chiare le caratteristiche
di tale stato, che di convalidare la teoria. Hobbes tenta di stabilire i principi
razionali dalla filosofia politica, nell’ambito di una costruzione logica
12
. La sua
teoria nasce dall’obiettivo, tipico del razionalismo seicentesco, di elaborare un
sistema politico applicando il metodo matematico
13
. Il suo scopo era quello di porre
fine alle interminabili dispute dei filosofi sulla morale, cercando di raggiungere in
questa disciplina gli stessi risultati che l’uomo aveva già conseguito nelle scienze
matematiche: «Se infatti la ragione delle azioni umane fosse conosciuta con la
stessa certezza con cui conosciamo la ragione delle grandezze nelle figure,
l’ambizione e l’avidità, la cui potenza si sostiene sulle false opinioni del volgo circa
il diritto e il torto, sarebbero disarmate, e la gente umana godrebbe di una pace
tanto costante, che non sembra si dovrebbe più combattere»
14
. Occorre dunque
applicare il metodo geometrico alla filosofia morale, soprattutto perché le
conseguenze di questa mancanza sono più dannose che nelle altre discipline
15
. Per
superare il relativismo morale, egli tenta dunque di procedere ad un’elaborazione
della filosofia politica more geometrico. Secondo Hobbes dunque «la ragione non è
altro che il calcolo (cioè l’addizionare e il sottrarre) delle conseguenze dei nomi
generali che sono stati stabiliti di comune accordo, per notare e significare i nostri
pensieri»
16
. Ecco perché lo stato di natura non può essere considerato la base di
11
T. Hobbes, Leviatano, Roma-Bari 1989, I, cap. 13, pp. 102-3.
12
Cfr. H. Warrender, op. cit., p. 247.
13
Cfr. A. Negri, Introduzione a T. Hobbes, Elementi di filosofia, Torino 1972, p. 16: «il nostro
filosofo intende far cessare il litigio nella scienza. Perché il litigio cessi, perché la proposizione
abbia la sua universalità, perché la comunità scientifica sia fondata, è necessario istituire un
sapere razionale, un sapere matematico. Si pone una identità tra discorso razionale e discorso
matematico».
14
T. Hobbes, De cive, lettera dedicatoria, pp. 65-6.
15
Cfr. ibidem, p. 65.
16
T. Hobbes, Leviatano, V, p. 35.
12
un’analisi storico – politica, ma piuttosto il punto di partenza indispensabile per la
deduzione razionale dei principi morali che saranno la base della sua teoria politica.
Si tratta dunque di delineare lo stato degli uomini fuori della società civile, in
assenza di un potere sovrano che garantisca il rispetto delle leggi.
Analizzando sia le condizioni obiettive in cui gli uomini si verrebbero a trovare in
questo stato, sia le passioni e i sentimenti umani, Hobbes giunge alla conclusione
che lo stato di natura è una stato di guerra. La prima condizione obiettiva è che gli
uomini sono per natura uguali tra loro. Questa affermazione non è da prendersi alla
lettera: Hobbes sa benissimo che gli uomini sono molto diversi tra loro, sia per le
caratteristiche fisiche, che per quelle intellettuali. Nel De cive leggiamo: «Sono
uguali coloro che possono fare cose uguali l’uno contro l’altro. Ma coloro che
possono fare la cosa suprema, cioè uccidere, possono fare cose uguali».
17
L’uguaglianza degli uomini si fonda dunque sulla comune capacità di procurarsi
l’un l’altro il massimo dei mali: la morte. L’uguaglianza naturale di tutti gli uomini
è un elemento importante, anche perché da ciò deriva che tutti hanno lo stesso
interesse a voler uscire da questo stato. Le rinunce che gli individui decideranno di
fare tramite il patto che legittimerà il sovrano, saranno così uguali per tutti, poiché
tutti sono minacciati nella stessa misura.
La seconda condizione obiettiva che caratterizza lo stato di natura, la più
importante ai fini del nostro discorso, è il cosiddetto ius in omnia. Per il filosofo di
Malmesbury, fuori della società civile non esiste proprietà privata, ma al contrario
tutti hanno un uguale diritto a tutte le cose.
Egli opera innanzitutto una precisa distinzione tra diritto e legge. Per Hobbes «il
nome di diritto non significa altro che la libertà, che ciascuno ha, di usare delle
facoltà naturali secondo la retta ragione»
18
. Dunque, «il diritto consiste nella libertà
di fare o di astenersi dal fare, mentre la legge determina e obbliga a una delle due
cose. Perciò la legge e il diritto differiscono tra loro come l’obbligazione e la
17
T. Hobbes, De cive, I, 3, p. 83.
18
T. Hobbes, ibidem, I, 7, p. 84.
13
libertà, che sono incompatibili nella stessa situazione»
19
. L’esplicita distinzione tra
ius e lex rivela il carattere innovativo della teoria hobbesiana, che è la prima vera
teoria dei diritti naturali
20
.
Lo stato di natura, in quanto antitetico alla società civile, non è caratterizzato
dall’esistenza di doveri, come quest’ultima, ma di diritti.
Bobbio osserva giustamente che «Hobbes elabora per la prima volta una compiuta
teoria dello stato di natura, cioè di quello stato che diventerà il principale
espediente per fondare la teoria dei limiti della sovranità, non tanto sul dovere
imperfetto del principe, quanto sui diritti perfetti del cittadino»
21
. Ma quali sono i
diritti dell’uomo nello stato di natura? Per Hobbes la questione è molto semplice
poiché, essendo l’uomo per natura «portato a desiderare ciò che per lui è bene, e a
fuggire ciò che per lui è male»
22
, ne consegue che «il fondamento ultimo del diritto
naturale è che ciascuno difenda la sua vita e le sue membra per quanto è in suo
potere»
23
.
A questo punto è necessario fare alcune considerazioni sul diritto
all’autoconservazione. L’obiettivo di Hobbes era di rifondare la filosofia politica, di
porre fine alle dispute dei filosofi morali, attraverso la costruzione di una teoria
basata su principi logici, razionali. Al pari di Descartes, Galilei e Bacone, egli
credeva nell’infallibilità del metodo matematico, ed era convinto che la sua
applicazione alla filosofia morale avrebbe dato i risultati sperati. Il primo problema
da affrontare dunque, nella ricerca di principi morali universali su cui costruire la
vera scienza politica, era il confronto con lo scetticismo
24
. Si trattava di ricercare
l’esistenza di principi universali su cui fondare la filosofia morale, ed era dunque
necessario confrontarsi con la teoria secondo cui non esiste una norma etica
oggettiva. Al pari di Grozio, Hobbes doveva confutare gli argomenti scettici,
19
T. Hobbes, Leviatano, XIV, p. 105.
20
Cfr. N. Bobbio, op. cit., p. 152, e L. Strauss, Natural right and history, Chicago 1953, p. 182.
21
N. Bobbio, op. cit., pp. 152-3.
22
T. Hobbes, De cive, , I, 7, p. 84.
23
Ibidem.
24
Cfr. R. Tuck, Hobbes, Oxford 1989p. 52 (trad. it. Hobbes, Il Mulino, Bologna 2001).
14
ritornati in auge nel XVI secolo, che affermavano la relatività dei principi morali. Il
problema da risolvere nella terza sezione della sua opera, quella dedicata alla
morale, era il problema del diritto naturale, «the existence or non- existence of
common ethical standards by which men should live their lives»
25
. La soluzione era
nel diritto all’autoconservazione. Richard Tuck, dopo aver avere riassunto gli
argomenti principali dello scetticismo morale, afferma: «One universal principle of
human conduct remained intact after this skeptical onslaught, however. It was that
men both do and must seek their own self-preservation»
26
. La scoperta del diritto
all’autoconservazione è una delle innovazioni del giusnaturalismo moderno.
L’istinto di autoconservazione si presenta come l’unica realtà oggettiva ed
universale capace di regolare la condotta umana, a dispetto dell’eterogeneità delle
norme morali. Seppur popoli diversi hanno costumi e idee profondamente
differenti, la volontà di proteggere e favorire la propria esistenza il più a lungo
possibile è propria di qualsiasi essere umano. Solo su questo istinto si può sperare
di costruire un insieme di norme che possano in qualche modo ritenersi universali.
Il diritto alla conservazione della propria persona è dunque il fondamento del
diritto naturale.
Ma avere il diritto di conservare la propria vita e le proprie membra senza avere il
diritto ai mezzi necessari è inutile, dunque ciascuno ha diritto a tutte le cose.
Riassumendo, possiamo dire, come fa lo stesso Hobbes, che «nello stato di natura
la misura del diritto è l’utilità»
27
, e di conseguenza ognuno ha il diritto di
appropriarsi di tutto ciò che ritiene utile.
A questo punto lo ius in omnia sembrerebbe equivalere a quell’originaria comunità
di possessi che avrebbe caratterizzato l’età dell’oro del genere umano. Lungi
dall’essere una condizione negativa, una primitiva società comunistica sarebbe stata
una condizione ideale per gli uomini, che sarebbero vissuti in perfetta armonia,
25
Ibidem, p. 51.
26
Ibidem, p. 8.
27
T. Hobbes, De cive, I, 10, p. 85.
15
senza sapere cos’è la povertà. Ma per Hobbes, lo ius in omnia è una delle principali
cause di discordia, una delle principali motivazioni che spingono l’uomo ad uscire
dallo stato di natura. Occorre dunque cercare di capire bene cosa comporti in realtà
il diritto a tutte le cose. Per far ciò è necessario distinguere tra le due modalità
attraverso cui si può esprimere la comunità dei possessi. La comunità dei beni può
infatti essere negativa o positiva. Una comunità positiva non differisce dalla
normale proprietà privata se non per il numero dei soggetti che coinvolge
28
. Una
comunità intesa in termini positivi è una comunità in cui tutti sono proprietari.
Questo tipo di possesso comporta due importanti conseguenze. Innanzitutto una
comunità positiva non può essere modificata senza un accordo comune, e a
maggior ragione essere abbandonata senza il consenso di tutti
29
. In secondo luogo,
una comunità di questo tipo presuppone l’esclusione di tutti i non proprietari. In
definitiva, questo tipo di proprietà è un diritto condiviso da un gruppo di persone
che è solo una parte dell’intera popolazione. Perciò, una comunità positiva è per
forza di cose un tipo di possesso originatosi da una precedente comunità negativa
30
.
Quest’ultima può essere definita come lo stato in cui è lecito l’uso e
l’appropriazione di tutte le cose. Molti autori spiegano questa situazione con
l’esempio dei posti in un teatro, o del buffet durante un banchetto
31
.
In quest’ultima occasione il cibo è a disposizione di tutti gli invitati, ma di nessuno
in particolare. Il cibo è lì per essere preso: ogni invitato può prenderne, e può farlo
senza far torto a nessuno. In una comunità negativa non occorre perciò il consenso
esplicito per l’appropriazione. Riassumendo, possiamo dire che, mentre in una
comunità positiva esiste un proprietario (una molteplicità di individui), che ha un
28
Cfr. S. Buckle, Natural law and the theory of property, Oxford 1991, p. 93.
29
Cfr. ibidem.
30
Cfr. ibidem, p.94.
31
Cfr. J. Waldron, The right to private property,Oxford 1988, pp.154-5; J. Tully, A discourse on
property, Cambridge 1980, p. 71, e S. Buckle, op. cit. p.95. Secondo quest’ultimo, una probabile
origine dell’esempio del banchetto come comunità negativa, va ricercata nel Vangelo, in Luca 14,
16-24. L’esempio dei posti in un teatro è usato per la prima volta da Cicerone, in De finibus, lib
III, cap. XX.
16
diritto esclusivo, in una comunità negativa non esiste nessun proprietario, nessuno
che abbia un diritto esclusivo.
È chiaro dunque che lo ius in omnia di Hobbes caratterizza un tipo di comunità di
possessi in termini negativi, in cui nessuno è proprietario. Nel Leviatano leggiamo:
«A questa medesima condizione consegue anche che non esiste proprietà, né
dominio, né distinzione tra mio e tuo, ma appartiene ad ogni uomo tutto ciò che
riesce a prendersi e per tutto il tempo che riesce a tenerselo»
32
.
Su questo punto Hobbes anticipa gli sviluppi ulteriori delle teorie
giusnaturalistiche, interpretando la comunità di possessi originaria in termini
negativi. Per il filosofo inglese, quel che comunemente si dice: «la natura ha dato
tutto a tutti», non vuol dire altro se non la legittimità, nello stato di natura, di usare
e di appropriarsi di tutto ciò che si ritiene utile per se stessi
33
.
Alla fine però, possedere questo diritto non è affatto utile per gli uomini. Se tutti
hanno lo stesso diritto, infatti, è come se non ce l’avesse nessuno: «Sebbene infatti
ciascuno potesse dire di ogni cosa, questo è mio, non ne poteva godere a causa del
vicino, che con uguale diritto e uguale forza pretendeva che la stessa cosa fosse
sua»
34
. Hobbes esclude dunque che dalla comunità primitiva dei possessi possa
sorgere naturalmente la proprietà privata. Egli dà per scontato che gli uomini
abbiano la necessità di appropriarsi di ciò che è comune, ma esclude la possibilità
che ciò avvenga in maniera pacifica. Una comunità negativa rende indispensabile
l’appropriazione privata. Gli uomini infatti, non possono godere dei frutti della
terra, se prima non si sono appropriati di qualcosa che è sì a disposizione di tutti,
ma in realtà non è ancora di nessuno. La proprietà privata diventa così una
necessità. Possiamo dunque dire che «There is a minimal level of private property,
at least of a kind, in the state of nature»
35
. Si tratta di quei beni materiali che sono
32
T. Hobbes, op. cit., p.103.
33
Cfr. T. Hobbes, De cive, p.85.
34
Ibidem, pg.86.
35
R. Tuck, op. cit, p. 70.
17
indispensabili alla sopravvivenza
36
. Ma la possibilità di godere di questi beni non è
garantita da nessuna legge, di conseguenza non esiste una vera proprietà privata.
Nessuna appropriazione è sicura nello stato di natura.
Una comunità negativa dei beni sarà il punto di forza delle teorie giusnaturalistiche
che dovranno dimostrare come la proprietà privata possa sorgere già nello stato di
natura, come farà Locke. Come abbiamo visto, infatti, una comunità di questo tipo
non richiede un consenso esplicito da parte degli altri individui per
l’appropriazione. Nella prospettiva di Hobbes, invece, l’uguale diritto di tutti su
tutto non può non generare conflitto. L’uguaglianza di fatto e di diritto non può che
portare alla guerra.
Secondo Warrender, per capire il vero significato dello ius in omnia, occorre capire
cosa Hobbes intenda con la parola diritto. Nel senso corrente che il termine assume
in filosofia politica e morale indica qualcosa a cui un individuo può legittimamente
pretendere
37
. Hobbes usa il termine in questo senso quando discute dei diritti del
sovrano
38
. In questo senso il diritto di un uomo corrisponde ad una serie di doveri
da parte degli altri uomini: «Qualunque cosa possa venire espressa dalla formula
“diritti” può altrettanto e con maggiore precisione venire espressa dalla formula
“doveri” (altrui)»
39
. Da questo punto di vista, il diritto alla proprietà privata di un
individuo può essere espresso, o meglio, è espresso in maniera più precisa, in
termini di doveri che gli altri uomini devono rispettare. Avere il diritto al possesso
di un terreno per esempio, si traduce nel dovere che gli altri uomini hanno di non
occupare tale terreno, di indennizzare il proprietario in caso di danni, ecc.
Ma non è questo, secondo Warrender, il diritto che intende Hobbes quando parla di
ius in omnia. Hobbes dà un significato diverso a questo termine: il diritto
rappresenta ciò a cui un individuo non può essere costretto a rinunciare.
36
Cfr. ibidem.
37
Cfr. H. Warrender, op. cit. , p. 20.
38
Cfr. ibidem.
39
Ibidem.
18
Dunque: «Mentre nella prima accezione i diritti rappresentano l’ombra dei doveri,
ora vengono a rappresentarne l’antitesi: in questo senso, il diritto si identifica con la
libertà o con l’esenzione dall’obbligazione»
40
.
Così, il diritto all’autoconservazione di un individuo, non può essere tradotto in
una serie di doveri che obbligano gli altri uomini, ma significa semplicemente che
detto individuo non può essere costretto a rinunciare alla propria vita. Ecco perché
la proprietà privata non può sorgere nello stato di natura di Hobbes, perché al
diritto di uno non corrispondono doveri di altri. Ecco perché lo ius in omnia è una
delle principali cause di conflitto.
Sembrerebbe però una contraddizione il fatto che, da un diritto dedotto dall’istinto
di autoconservazione, derivi poi quello stato di guerra che rende precaria la vita
dell’uomo: a differenza di quanto avviene in Locke, dove da una comunità negativa
ha origine la proprietà privata, nello stato di natura di Hobbes non è possibile una
pacifica appropriazione e spartizione delle risorse.
Nel De cive leggiamo: «Ciascuno per diritto naturale giudica se i mezzi a cui
ricorre o le azioni che sta per compiere siano o no necessari alla conservazione
della sua vita e delle sue membra»
41
. A rigore dunque, gli uomini nello stato di
natura non cercano sempre le cose che possono condurre alla loro conservazione,
ma tutte le cose che possono «sembrare di condurvi»
42
. Se ognuno avesse un’idea
esatta di ciò che è necessario alla propria vita, avverrebbe infatti una spartizione
consenziente delle risorse, essendo lo stato di guerra il pericolo più grande da
scongiurare, poiché «nessuno pensa che sia il suo bene la guerra di tutti contro
tutti»
43
. Sembra dunque che il problema sia l’incapacità che gli uomini (o alcuni di
loro) hanno di giudicare in maniera razionale. Abbiamo visto infatti che lo ius in
omnia, inteso come comunità negativa delle risorse, non è una caratteristica
esclusiva della teoria hobbesiana. Anche per Locke il mondo è stato dato da Dio a
40
Ibidem, p. 21.
41
T. Hobbes, De cive, I, 9, p. 85.
42
Ibidem, I, 10, p. 85.
43
Ibidem, I, 13, p. 87.
19
tutti gli uomini, ed è lì per essere diviso. Per Locke, come vedremo,
l’appropriazione sarà possibile poiché naturalmente regolata e limitata dal proprio
lavoro e dal dovere di rispettare gli stessi diritti degli altri. Per Hobbes invece, non
esistono regole e limiti oggettivi all’appropriazione, poiché paradossalmente ogni
uomo potrebbe pretendere per sé tutta la terra del mondo, ritenendola necessaria
alla sua conservazione. Possiamo dire che il diritto di Hobbes non corrisponde ad
una serie di doveri poiché non esiste un metro oggettivo per giudicare la legittimità
di tale diritto. Giudicare ciò che è necessario alla propria conservazione vuol dire
giudicare a che cosa si ha diritto. Di conseguenza, nello stato di natura «uno con
diritto attacca, e l’altro con diritto gli tiene testa»
44
. I diritti opposti, nello stato di
natura, sono tutti legittimi, poiché la validità di ognuno è data da ognuno dei diversi
giudizi. Se esistesse una legge generale, ogni diritto potrebbe essere giudicato
giusto o meno confrontandolo con tale legge, ma nello stato di natura di Hobbes
non esiste una norma generale. Vi è certo la legge naturale, ma essa non è altro che
un «dettame della retta ragione riguardo ciò che si deve fare o non fare per
conservare, quanto più a lungo possibile, la vita e le membra»
45
. Agire con diritto
vuol dire semplicemente agire secondo la retta ragione, ma ogni uomo ha un
concetto diverso di retta ragione.
Riassumendo, possiamo dire che nello stato di natura di Hobbes non può sorgere la
proprietà privata poiché il diritto a tutte le cose non può essere trasformato in un
diritto particolare, che comporti una serie di doveri per gli altri. Questo perché non
esiste una legge generale, una norma oggettiva che regoli l’appropriazione. Se, per
esempio, tutti gli uomini fossero d’accordo sulla legittima appropriazione di un
terreno tramite l’occupazione o il lavoro, potrebbero naturalmente sorgere diritti
esclusivi alla proprietà.
44
Ibidem, I, 12, p. 86.
45
Ibidem, II, 1, p. 89.