Questo lavoro si propone pertanto di esaminare come si è precisato
ed articolato, nel pensiero di Newman, l’àmbito della fede in
rapporto a quello della conoscenza razionale, tenendo presente che
lo scopo che egli si è posto non era d’ordine teoretico ma morale,
avendo voluto affrontare e risolvere i problemi del suo tempo
incombenti sulla fede religiosa.
Se la fede dimostrava apparentemente una natura contraddittoria ciò
dipendeva, secondo Newman, dalla parzialità interpretativa che
veniva data della sua essenza e delle sue modalità, sia all’esterno e
sia anche all’interno degli ambienti religiosi cristiani.
Infatti, se nel cattolicesimo si ribadiva, con la conferma del
tomismo, la centralità della peculiare differenza ontologica fra
l’umano ed il divino e conseguentemente si sollecitava,
nell’indagine teologica, un uso dell’intelletto a ciò adeguato ed in
accordo con la fede, nelle aree ad influenza protestante si procedeva
elevando invece la sola fede ad organo mediante cui approssimarsi
al mistero divino, non altrimenti percepibile dagli strumenti della
ragione.
In questa prospettiva, qualora si osservino gli esiti cui conducevano
le due istanze – quella razionalistica e quella protestante – le quali
postulavano il disaccordo tra fede e ragione, ci troviamo di fronte a
ciò che possiamo definire il «paradosso» della modernità. Da un
lato un intelletto ideologizzato dal razionalismo probatorio che
tende a svalutare la fede e gli aspetti mitologici di essa come fase
conclusa o comunque del tutto incerta dello spirito umano;
dall’altro una fede consapevole dell’improponibilità dell’analogia
fra Dio e natura, dell’inanità del deismo cui tende il razionalismo, e
quindi volta a proporsi come organo religioso assoluto.
«Paradossale» però è anche il termine con cui a prima vista si
potrebbe definire la conclusione raggiunta da Newman. Infatti, egli,
discostandosi da quelle soluzioni che pur si spingono a proporre
una coesistenza superficiale tra fede e ragione, ha affermato molto
chiaramente che la fede «è» ragione, o meglio, che la fede si
esercita in quanto «modalità» della ragione; da cui consegue il
corollario secondo cui la ragione «è» fede in quanto la ragione si
esercita sui dati forniti dalla fede e ad essa congruenti.
La presente tesi si propone perciò di illustrare come Newman
affronti e porti a compimento tale problematica, nel tentativo di
mettere in evidenza come una delle caratteristiche importanti del
suo modo di procedere è che egli non s’interroga in modo
sistematico, ma si situa come uomo di fede in un orizzonte di
pensiero già dato, nei confronti del quale percepisce l’urgenza
pratica, prima ancora che l’opportunità accademica, di trovare delle
soluzioni per la sua e per l’altrui religiosità. Possiamo paragonarlo,
sotto quest’aspetto, a Wittgenstein, il quale si è diretto, a partire da
una sorta di purezza mentale scevra da pregiudizi, con la sola
potenza del pensiero, a far chiarezza sui problemi ritenuti
intellettualmente vitali ed urgenti.
1
1
A tale proposito è significativo notare che lo stesso Wittgenstein ha
presente l’opera di Newman quando lo cita nella sua opera postuma On
Certainty, Basil Blackwell, Oxford 1969, trad.it. di M. Trinchero, Della
certezza. L’analisi filosofica del senso comune, Einaudi, Torino 1978, p. 3: “I.
Se sai che qui c’è una mano allora ti concediamo tutto il resto. (Il dire che
questa proposizione così e così non si può provare non significa, naturalmente,
che non la si può derivare da altre proposizioni; ogni proposizione si può
derivare da altre. Ma può darsi che queste non siano più sicure della
proposizione stessa). (A questo proposito c’è una curiosa osservazione di H.
Newman).” Nota del curatore: “La tesi che l’inferenza, considerata come
derivazione di proposizioni da altre proposizioni, ha carattere ipotetico e quindi
non può mai raggiungere lo stato di prova, nel senso rigoroso del termine, è
sostenuta dal cardinale J.H. Newman nella sua Grammar of Assent. (...)”
développement, Boivin et C. Editeurs – Paris 1933, p. XXXIV: “Così come
Socrate, Newman fu un eroe del pensiero, più che un pensatore sistematico; di
qui la sua grandezza ed i suoi limiti. È a lui che, secondo Froude, il mondo deve
il «ritorno del cattolicesimo romano nei suoi diritti intellettuali.». Primo
Parimenti, leggendo Newman se ne percepisce il tormento della
ricerca, quella ricerca concreta intorno alle condizioni di certezza
del sapere, l’esito della quale gli consentì un atto pratico d’estremo
coraggio morale ed intellettuale per chi, come lui, era giunto ai
vertici della propria Chiesa: la conversione, tenacemente desiderata
e portata a compimento grazie alla lunga e sofferta meditazione che
gli consentì di reagire contro l’isolamento e le critiche dei
contemporanei che non comprendevano pienamente il drammatico
cammino.
2
L’impegno del lettore di Newman è quindi anche quello di
rintracciare, in questo materiale complesso, motivato
dall’occasionalità eppure chiaramente unitario nelle finalità, le
direttrici sotterranee dell’evoluzione di un pensiero vivo. Ed è
proprio l’analisi del rapporto di fede e ragione che, rappresentando
una delle costanti nella sua riflessione, rappresenta un efficace
punto di riferimento per comprendere quest’autore.
È uno spirito fortemente individuale e pragmatico quello di
Newman. Se ne consideriamo il percorso religioso ed intellettuale,
2
Cfr. J. Guitton, La Philosophie de Newman. Essai sur l’idée de
développement, Boivin et C. Editeurs – Paris 1933, p. XXXIV: “Così come
Socrate, Newman fu un eroe del pensiero, più che un pensatore sistematico; di
qui la sua grandezza ed i suoi limiti. È a lui che, secondo Froude, il mondo deve
il «ritorno del cattolicesimo romano nei suoi diritti intellettuali.». Primo
riformatore della Riforma, ha compiuto all’inverso il cammino seguito da
Lutero.”
ben si evidenzia quello che egli stesso chiama il suo «egotismo» e
da qui, come conseguenza, un’esigenza che oggi definiremmo
«esistenziale» della conoscenza.
Ne consegue, sotto questo particolare aspetto, l’originalità del
pensiero gnoseologico di Newman in quanto, da una parte, egli
ritiene che la verità sia prima di tutto una conquista personale
3
che
l’individuo ha la possibilità ed il dovere di raggiungere attraverso il
colloquio interiore con la propria coscienza; anzi, è precisamente
adeguando le proprie caratteristiche personali alla legge morale
interiore che è possibile esprimerle in pienezza e libertà poiché,
sotto questo aspetto, la coscienza è sì costrittiva ma anche
costitutiva della libertà individuale. Da un’altra parte ed in
reciproca implicazione con la precedente, è la stessa coscienza che,
al di là dei limiti individuali di cui è interprete, consente di formarci
3
Cfr. M. Nédoncelle, Préface à les «Œuvres Philosophiques de
Newman», Aubier, Paris 1945, pp. 194-195: “Il personalismo morale e la teoria
delle idee sono i due aspetti essenziali del pensiero di Newman. È nel loro
contesto che il problema della credenza dev’essere finalmente esaminato e
risolto. Esso comporta una forma d’intenzionalità della coscienza che è originale
e non si confonde con quella del ragionamento. Esso presuppone non soltanto
una psicologia dell’impegno ma anche la nozione d’un indice individuale
dell’intelligenza. E così esso costringe a riformulare i quadri di una logica
eccessivamente stretta che s’applicherebbe unicamente agli oggetti impersonali.
È questo che fa l’interesse dell’«illative sense» ed il problema non si riduce ad
un appello al dovere, anche se lo implica. Infine, la credenza è legata al
problema della comunicazione delle sostanze, in quanto essa presuppone
un’assenza o un’attenuazione del contatto fra i soggetti. Così come i soggetti
sono votati all’esistenza temporale e non possono attendere ai loro oggetti che
attraverso delle idee in divenire, la dialettica che rinserra delle entità immutabili
non è loro sufficiente: ancora una volta, è mediante l’allargamento d’una certa
logica ciò a cui bisogna applicarsi per giustificare l’assenso; l’esperienza e
l’induzione si sostituiscono al metodo della dimostrazione pura.”
criteri di valutazione morale oggettivamente validi e che quindi
trascendono la limitatezza del nostro punto di vista.
Per intendere i motivi che articolano il ragionamento sulla
coscienza individuale, bisogna tenere presente, a questo riguardo,
l’anti-nominalismo di Newman; egli nega esistenza ai concetti
universali ed enfatizza l’individualità di ogni uomo: la legge di Dio
si rivolge singolarmente ad ognuno di noi ed il comportamento
sociale è regolato da una sola e fondamentale possibilità, quella del
valore in pari tempo soggettivo ed oggettivo di questa legge.
4
Complessivamente, tutta la sua opera produce nel lettore una forte
impressione di rigore intellettuale per il fatto che ogni sua
riflessione appare come profondamente partecipata e sofferta. Egli
non propone analisi teoriche avendo come scopo la loro
compiutezza formale: non è uno scienziato del pensiero, non si dà
4
A.J. Boekraad, The Personal Conquest of Truth according to J.H.
Newman, Nauwelaerts, Louvain 1955, p. 9-11: “Di tutti i problemi che si
pongono intorno alla considerazione dell’anima umana e che da questa sono
implicati, uno di quelli più importanti e che nel contempo lascia più perplessi, è
il fatto che la verità e la sua accettazione sia dipendente, ed insieme relativa, allo
spirito individuale. (...) un tale principio, o insieme di principî, in questa sfera di
realtà che salvaguardi la verità universale e, allo stesso momento, consenta di
esprimere le proprie caratteristiche personali riguardo al metodo di acquisirla e
di possederla.” Cfr. la citazione di Boekraad tratta da J.H. Newman, Parochial
and Plain Sermons, IV (1839), London 1882, Sermone VI: L’individualità
dell’anima, pp. 80-83: “Niente è più difficile da comprendere del fatto che ogni
uomo ha un’anima distinta, che ognuno fra i milioni di persone che vivono e che
hanno vissuto sia un’unità ed un essere indipendente in se stesso, come se non ci
fosse nessun altro come lui al mondo (...) [ed è a causa di questa difficoltà] che
non comprendiamo la dottrina dell’individualità distinta dell’anima umana.
Definiamo gli uomini in quanto massa, così come faremmo coi mattoni di un
edificio... Generalizziamo, poniamo una legge sull’altra, e quindi contempliamo
queste creazioni della nostra mente, agendo in base e di fronte a queste, come se
fossero oggetti reali, abbandonando ciò che invece è più autentico. (...) poiché
ogni essere, in questa grande partecipazione, rappresenta il centro di se stesso e
tutte le cose che lo attorniano non sono che ombre.”
compiti tecnici, ma si incarica piuttosto di chiarire e di definirne un
uso naturale riguardo ai problemi pratici e vitali che inevitabilmente
coinvolgono gli uomini.
5
Uno dei problemi che caratterizza e definisce il rapporto fra questi
concetti, è così formulabile: può esistere la condizione di certezza
riguardo all’atto di fede generalmente inteso?
Il concetto di certezza è effettivamente uno di quelli che
contribuiscono a caratterizzare il problema dello statuto della
soggettività nel pensiero moderno inaugurato, sotto questo specifico
aspetto, dal dubbio razionale di Cartesio.
Anche in Newman è presente e fondante l’introspezione
metodologica; in lui, più specificamente, questa presenta risonanze
mistiche che non possono non ricordare Agostino quando afferma
che, da sempre, gli unici dati certi al suo spirito erano “...due, e solo
due, esseri assoluti, di un’intrinseca e luminosa evidenza: me stesso
e il mio Creatore” (A, 22). Questa impostazione indica come in
Newman il problema della fede fosse chiaramente connesso a
motivi gnoseologici.
5
Cfr. G. Velocci, Newman. Il problema della conoscenza, Ed. Studium,
Roma1985, pp. 7-8: “Newman è filosofo non nel senso che abbia considerato la
filosofia come sua missione o abbia visto nel filosofare lo scopo principale della
sua attività. Egli fu anzitutto un uomo di fede, che pose l’impegno religioso al
centro della vita (...) Newman seguì un orientamento «logico, etico, pratico», e
se toccò argomenti metafisici lo fece sempre in riferimento al problema della
conoscenza: il punto capitale e lo scopo della sua riflessione fu la ricerca della
verità e della certezza. (...) La filosofia di Newman è essenzialmente
un’epistemologia.”
Il problema della certezza dell’atto di fede doveva comunque
misurarsi col presupposto teologico della debolezza della natura
umana; era data per necessaria la conseguenza che la fede dovesse
alimentarsi sia di certezza che di dubbio e ciò appariva del tutto
congruente, se si teneva conto dell’inadeguatezza della ragione
riguardo alla conoscibilità di Dio.
L’operazione di Newman fu quella di verificare non tanto la
capacità della mente di raggiungere intellettivamente Dio, quanto di
analizzare il funzionamento dello spirito umano nei suoi esiti
pratici.
La possibilità d’istituire il rapporto con Dio era già stata acquisita
attraverso la coscienza; il passo successivo era quello di rendere
stabile la fede raggiunta col verificare l’ipotesi che essa fosse parte
costituente riguardo l’esercizio della ragione.
Ma a che tipo di certezza si riferiva Newman? Si trattava di certezza
morale, o meglio, certezza del moralmente vero. Egli argomentava,
valendosi degli studi di Locke e di Joseph Butler, in disaccordo col
primo ed in accordo con il secondo, che in campo morale la
certezza è ottenibile, schematicamente, in due fasi; in un primo
momento si giunge all’accumulo di un numero sufficiente di
probabilità e, successivamente, si è in grado di ottenere una nuova
condizione spirituale mediante un giudizio d’assenso riguardo
all’insieme di probabilità; l’operazione che ne risulta è anche
qualitativamente diversa dal semplice incremento in percentuale di
probabilità: si può così ottenere la certezza definitiva.
La condizione di certezza non è, per Newman, una percezione
passiva che riflette semplicemente una variabile quantità di dati
occasionalmente reperiti; essa, invece, consegue ad un’azione dello
spirito morale, proviene da un giudizio qualitativo che, in quanto
tale e non quantitativamente graduato, è assoluto in relazione a quel
determinato caso particolare su cui è esercitato. Scrive perciò
Newman, riferendosi alle parole dell’amico Keble riguardo alla
dottrina religiosa, che bisogna attribuire “...la saldezza dell’assenso
... non alle probabilità che le sono servite d’introduzione, ma alla
forza viva della fede e dell’amore che l’hanno accettata ... non è la
probabilità sola a darci una certezza intellettuale, ma la
probabilità in quanto è considerata con fede ed amore. Sono la fede
e l’amore a dare alla probabilità una forza che di per sé non
avrebbe” (A, 44-45).
La fede dimostra allora se stessa? Possiamo meglio affermare che la
fede, se osservata senza pregiudizi, mostra se stessa nella sua
razionalità, nel suo essere adeguata, coerente e funzionale alle
esigenze spirituali e pratiche dell’uomo.
Inoltre, Newman, compie un ulteriore e decisivo passo quando
estende quest’argomentazione, sostenendo che non è solo la vita
religiosa che si fonda sulla fede, ma che questa è inoltre l’abito
mentale usuale e generico del comportamento conoscitivo umano.
Se poniamo da un lato quella condizione mentale pratica sorretta da
un atto di fede - cioè da un giudizio d’assenso esercitato in quanto
valutazione di un cumulo sufficiente di probabilità – e dall’altro lato
la conclusione di un ragionamento logico basato sull’analisi dei dati
che abbiamo di fronte, quale circostanza ci consente non solo di
agire, ma di far progredire la nostra conoscenza morale? È
quell’atto di retto pensiero riflesso che conclude in base
all’acquisizione di conoscenza formata da atti irriflessi di fede.
In questo modo Newman può affermare che la razionalità d’un atto
non è costituita dall’adeguamento di esso alle leggi logiche del
ragionamento deduttivo – questo essendo in ogni caso regionale ed
avulso dalla struttura complessiva della realtà - bensì dal suo retto
inserirsi nei nessi della moralità che costituiscono la struttura
spirituale del mondo degli uomini.
Se dunque l’atto di fede è originato da due fonti: sentimento e
ragione, l’impegno di Newman fu quello di dimostrare
l’inscindibilità di tali concetti di fronte a quelle filosofie della
religione che davano per scontato che il proprio compito fosse
quello di perorare per l’una, a detrimento dell’altra, di queste
facoltà.
La sua intuizione lo ha condotto a separare operativamente il
momento del rapporto della fede in Dio limitandosi ad osservare la
fenomenologia degli atti di fede costitutivi della natura umana. Ha
così potuto, od almeno ha tentato facendo luce sul problema,
dimostrare che se si ammette la razionalità finalistica nel
comportamento esistenziale dell’uomo e se si considera che questo
ha sostanzialmente la stessa struttura degli atti di fede religiosa,
allora anche questa è razionale.
Capitolo I
FEDE, RAGIONE E SVILUPPO
1. L’Apologia pro vita sua e lo sviluppo dello spirito
individuale.
L’Apologia pro vita sua (1864) è l’opera che maggiormente ha
contribuito a far conoscere la figura ed il pensiero di Newman.
1
Nacque come risposta pubblica ad una polemica suscitata da una
citazione estemporanea di un noto personaggio della cultura del suo
tempo, Charles Kingsley, in una poco meditata recensione sul
Macmillan’s Magazine, nel corso dell’anno 1864, che lo chiamava
provocatoriamente in causa tacciandolo quale esempio di
spregiudicatezza dei cattolici nei confronti della verità: “La verità
di per sé non è mai stata considerata una virtù dal clero romano.
Padre Newman ci informa che non è necessario, anzi, in genere non
si dovrebbe considerarla tale; che l’astuzia è l’arma data dal cielo
ai santi per resistere alla maschia forza di questo mondo malvagio
che si sposa ed è dato in matrimonio. Non so se la sua idea sia
1
Cfr. J. Morales Marín, Newman (1801/1890), Ediciones Rialp S.A.,
Madrid 1990 – Ed. italiana a cura di L. Obertello, John Henry Newman. La vita
(1801-1890), Editoriale Jaca Book S.p.A., Milano 1998, p. 353: “Il libro fu letto
nell’Inghilterra anglicana, protestante e cattolica. Aveva una trama convincente,
rigorosa ed allo stesso tempo commovente. L’autore raccontava il percorso
spirituale della sua vita e spiegava le sue opzioni religiose. Era un convertito
che dava conto dell’onestà delle sue intenzioni e, implicitamente, sosteneva la
validità del Credo cattolico, ma lo faceva in modo rispettoso verso
l’Anglicanesimo della sua gioventù e soprattutto verso i suoi vecchi amici.
Newman raccontava in modo ineguagliabile. Si percepiva maggior forza nelle
sue ardenti parole che mostravano l’energia e la tensione della sua vita intima
che nei ragionamenti e nelle possenti argomentazioni disseminati nei suoi
numerosi scritti.”
giusta o no sul piano dottrinale, ma lo è certamente su quello
storico”. (A, 2)
Questo avvenimento fece immediatamente reagire Newman il quale,
sentendosi ingiustamente colpito, prese spunto da ciò per una
riconsiderazione complessiva della sua vita e per la stesura della
difesa delle proprie opinioni religiose, come recita il sottotitolo
dell’opera. I criteri che ne informarono la stesura, sono rinvenibili
nella frase che chiude la prefazione: “Voglio inoltre limitarmi alla
mia storia personale; qui non espongo la dottrina cattolica; voglio
soltanto spiegare me stesso, le mie opinioni e le mie azioni”. (A,
15)
L’Apologia consta di cinque capitoli con un’aggiunta finale di Note
dell’Autore. Ogni capitolo prende in considerazione un periodo
storico della vita di Newman, descritto sulla base
delle impressioni elaborate dal ricordo.
2
Si può subito fare un’osservazione di massima circa
l’inquadramento che è possibile assegnare a questo lavoro in
relazione alle altre opere di Newman. Tenendo presente la
concezione newmaniana dello sviluppo, vediamo che se il libro
specificamente dedicato allo Sviluppo della Dottrina cristiana
riflette l’esposizione di quel principio dal punto di vista
filogenetico, in quanto in esso è esposta la teoria secondo cui tutti i
grandi sistemi spirituali della storia osservano quella legge,
2
Cfr. A. Bosi, «Introduzione» a Opere di John Henry Newman, Torino
1988, pp.36-37, infatti ritiene che “la specificità del genio religioso
newmaniano, il centro verso il quale gravitano e nel quale si collegano i suoi
molteplici talenti, vada cercata nel campo dell’apologetica, intesa come opera di
ripensamento, traduzione e difesa del messaggio rivelato nel linguaggio che è
proprio del tempo in cui ci si rivolge (...) Il suo genio è quello della persuasione
nel senso della Retorica aristotelica a lui ben nota, la quale non a caso lega
strettamente la persuasione (a differenza della dimostrazione logica) alla
personalità di chi parla e di chi ascolta”. Bosi fa inoltre notare che le condizioni
della riflessione religiosa nell’Ottocento subiscono un significativo mutamento
in quanto “Se i «secoli della fede» si sono espressi attraverso la scolastica,
l’Ottocento, nuovamente pluralistico ed agitato da intensi dibattiti filosofici e
religiosi, presenta una fisionomia più simile sotto questo aspetto ai primi secoli
della storia del cristianesimo, ed esprime quella che si potrebbe chiamare una
sua peculiare patristica. Si tratta di una nuova apologetica, non a caso spesso
rappresentata da laici (da Chateaubriand a Montalembert, da De Maistre a
Veuillot) o da persone al margine rispetto agli ambienti teologici ufficiali, come
lo stesso Newman. (...) Newman si guarda bene dall’opporre, come sembrano
fare certi apologisti romantici, la retorica dei sentimenti, la motio affectuum, le
lacrime (od il contagio emotivo degli evangelicals) all’intellettualismo dei suoi
maestri di Oxford. Semplicemente, ricorda che la ragione umana ha dei limiti,
solo rispettando i quali può portare a risultati validi (è questo tra l’altro il succo
dell’insegnamento dell’empirismo); e d’altra parte che la fede, in quanto fede,
non si risolve nell’accettazione d’un teorema, e che nel determinare
l’accettazione od il rifiuto non sono tanto importanti le più o meno forti prove
di tipo formale, quanto le disposizioni antecedenti, i principî coscienti o più
spesso inconsapevoli, in una parola l’atteggiamento globale della persona,
insieme intellettuale ed emotivo.”
l’Apologia espone lo stesso principio dal punto di vista
ontogenetico, vale a dire riflesso in un individuo.
Newman ovviamente non esplicita questa osservazione, ma la sua
visione delle cose è così compenetrata da questa prospettiva al
punto che l’autobiografia appare impostata non tanto in base ad un
indeterminato susseguirsi d’avvenimenti, ma strettamente coerente
con la sua teoria dello sviluppo, definita dalla ricerca dei nessi
causali che articolano gli eventi umani.
Considerando l’opera dal punto d’osservazione di questo criterio ne
esporremo il contenuto seguendo, come filo conduttore, la
prospettiva della conversione di Newman alla fede cattolica,
rimandando l’analisi d’altre tematiche presenti nell’opera, ma non
strettamente rientranti in questo scorcio, ad altri luoghi della
presente esposizione.
Questa conversione dimostra che la consapevolezza nell’attuare
determinate scelte coraggiose, da parte dell’individuo, ha anche il
significato di agevolare un processo di sviluppo spirituale
riscontrabile in base a criteri etici e religiosi. Come vedremo, la non
facile decisione alla conversione appare sorretta da questa profonda
convinzione.
Come abbiamo accennato, le premesse alla sua conversione sono,
seguendo il suo concetto di sviluppo, rappresentate da tutta la sua
vita precedente in tutta la sua complessità, riguardo al versante della
fede, della coscienza, della ragione e della storia. Guardando
retrospettivamente, notiamo che le premesse al suo passaggio alla