Introduzione
3
Le prime delle quali si aprono secondo l’impostazione classica dell’argomento ossia
cogliendo come la problematicità della traduzione si innesti su una ambivalenza originaria
che disegnerà per noi i limiti matematici del discorso: dottrina della verità da una parte e
problematicità dell’atto di idealizzazione, a partire dalla percezione, dall’altra.
“Cerca nel dizionario!”. Così s’insegna ed ordina allo scolaro quando si trova alle prese
con una parola “nuova”, che non conosce, di cui non è sicuro se esista veramente
3
, se sia in
uso, se sarà, anche a lui, permesso di usarla o di cui vorrebbe, solamente, coglierne una
sfumatura più precisa. Ecco che, una volta fuggito il pericolo di sterilità d’analisi, la
diligenza dello scolaro porta alla raccolta di quel frutto, riscontro del nuovo statuto
filosofico del termine immaginazione, che mi ha impegnato nella sua definizione per tutto
il lavoro.
Nello studio delle dinamiche della mente prima e nell’associazionismo, in particolare, poi,
il luogo per capire come si attiva la conoscenza umana e quanta parte di questa conoscenza
sia dovuta a quella facoltà che presiede al fenomeno dell’associarsi delle idee tra loro:
un’unica vis che si orienta per permettere la comunicazione. «Di per se stessa,
l’immaginazione non è una natura, ma una fantasia»
4
: l’immaginazione deve orientarsi per
plasmare la natura della mente, per farla sistema.
«L’empirismo – di Hume, tuttavia - non pone come essenziale il problema di un’origine
della mente, ma quello di una costituzione del soggetto. Non solo, ma considera questa
come l’effetto di principi trascendenti nella mente, non come il prodotto di una genesi».
5
Un altro timore, il timore del “se avessi letto prima” si è avverato. Se avessi letto prima le
parole di Deleuze forse non avrei peccato di ingenuità di fronte alle mute risposte alla
domanda sulla genesi della conoscenza. Un errore che non mi ha permesso di sottolineare a
sufficienza come la psicologia di Hume divenga una psicologia delle affezioni di un
soggetto costituito
6
, una scienza dell’uomo che non fa che illuminare la continuità e la
correlazione tra Natura e natura umana. Una correlazione basata su un artificio, su una
finzione necessaria che non ho avuto il coraggio di caratterizzarla come trascendente la
sregolatezza della fantasia.
3
Devo ammettere che ho personalmente usato Johnson, Chambers e D’Alembert quasi fossero autori dei
moderni Who�s who?. Trovare nelle loro opere i termini mi ha permesso di creare anche un ipotetico indice
della loro “popolarità” e della loro importanza, nonché del loro ruolo.
4
G. Deleuze, Empirismo e soggettivismo, saggio sulla natura umana secondo Hume, traduzione di M.
Cavazza, Napoli, Cronopio, 2000, p. 24. Corsivo mio.
5
Ibidem, p. 14.
6
La definizione è di Deleuze.
CAPITOLO 1
Capitolo 1
5
«Non sono così presuntuoso da credere che
chiunque possa tentare una riforma perfetta delle lingue
del mondo […] senza rendersi ridicolo. Chiedere che gli
uomini usino costantemente le parole nello stesso senso
e solo per idee ben precise e uniformi, significherebbe
pensare che tutti gli uomini abbiano le stesse nozioni e
dovessero soltanto parlare di ciò di cui abbiano idee
chiare e distinte. Nessuno può aspettarsi una cosa simile
a meno che egli non così vanitoso da immaginare di
poter indurre gli uomini a essere molto saggi o molto
silenziosi»
Locke, Saggio sull�intelletto umano, libro III, cap. XI,
par. 2.
1.1 In difesa di una traduzione.
Nell’affrontare un problema più che lessicografico, un breve cenno alla storia filologica dei
termini imagination e fancy può rivelarsi sin dall’inizio terreno fertile per toccare il
nocciolo della questione.
Non penso sia utile limitare la questione al passaggio di un termine da una lingua ad
un’altra; l’opera di traduzione è sempre difficile ed imperfetta. E fu forse proprio per
cercare di ovviare allo scarto da una lingua all’altra che il greco φαντασ ία venne reso
nella lingua latina in tre diversi modi. I termini latini che cercano di riprodurre il
significato di φαντασ ία sono il più antico visio che in seguito scomparirà a favore della
traduzione imaginatio, e la traslitterazione phantasia.
Nella lingue neolatine, progressivamente, i due termini acquistano una certa autonomia;
imaginatio tende, generalmente, a definire la facoltà che ritiene le forme del senso comune,
quasi un calco della koin� aisthesis aristotelica, mentre phantasia indica quella facoltà che
con maggiore libertà rispetto all’immaginazione compone le forme del senso comune. Fin
d’ora, quindi, è possibile notare come il ”valore differenziale”
1
tra i due termini sia
relativamente banale e comprensibile ai più. La fantasia è ciò che gioca e produce chimere,
ciò che crea l’universo del fantastico, mentre l’immaginazione lotta per ritagliarsi uno
statuto autonomo tra le facoltà regine dell’anima: sensazione, memoria ed intelletto.
1
M. Ferraris, L�immaginazione, cit., p. 11. Cito per intero: «è probabile che, come spesso accade nel
linguaggio, ciò che conta sia il valore differenziale, e non ciò che positivamente può essere indicato dalla
differenza».
Capitolo 1
6
Le cose però non sono così lineari perché appena si pronuncia la regola affiorano delle
eccezioni
2
che ne inficiano l’uso e che fanno sorgere alcune domande; per quale motivo
rimane sfuggente la loro differenza? Perché non si è cercata una codificazione o
semplicemente non si è imposto un uso?
La traduzione nel latino si limita a rendere esplicita l’ambigua valenza originariamente
contenuta nel termine greco senza riuscire a fissarla costantemente e coerentemente in due
termini separati.
Quindi, prima di additare come responsabile la traduzione, sarà opportuno mostrare su
quale ambiguità o su quale ambivalenza originaria essa si inneschi.
«Il verbo phantazesthai (apparire), e i sostantivi phantasis, “visione”, e phantasma, non
sono primariamente connessi con l’inganno, ma sono solo la condizione di verità ed errore,
visto che phantasma non è propriamente “immagine” ma “ciò che appare”, il che importa
la legittimità di renderlo con “presentazione” prima che con “rappresentazione”, tanto più
che, sino all’età ellenistica , non sono attestate forme attive di phantazesthai, ma solo
medie o passive (quanto dire che il verbo non tanto designa primariamente l’atto del
presentare intenzionalmente un’immagine, ma piuttosto l’apparizione che ci visita nel
sonno o nella veglia)».
3
Lette le parole di Ferraris se ne evince chiaramente come per lui la semantica
dell’immaginazione sia connessa con una dottrina della verità e come tutto faccia, poi,
parte di una problematica più ampia, ma più raffinata: tutto consta nel riuscire a capire
come l’idealizzazione intervenga all’atto della percezione. Per il momento, cercherò di non
appiattire una domanda sull’altra e comincerò con l’analizzare il modo in cui sia possibile
distinguere tra una sensazione ed un phantasma.
2
Faccio riferimento ai capitoli iniziali de L�immaginazione di Ferraris e al seguente studio: Lessico
intellettuale europeo: Phantasia-Imaginatio atti a cura di M. Fattori e M. Bianchi, Roma,Edizioni
dell’Ateneo, 1986.
3
M. Ferraris, L�immaginazione, cit., pp. 7-8.
Capitolo 1
7
1.2 Un castello pieno di fantasmi.
Bussiamo alla porta di Aristotele
4
e, come forse ci si poteva aspettare, colei che ci
introduce in casa è una difficoltà a definire positivamente il termine φαντασ ία ..
«L’immaginazione - si dice - è infatti diversa sia dalla sensazione sia dal pensiero, però
non esiste senza sensazione, e senza di essa non c’è apprensione intellettiva».
5
Ed ancora,
«inoltre c’è la facoltà immaginativa, che da un lato è essenzialmente diversa da tutte, e
dall’altro è molto difficile dire a quale di queste parti sia identica e da quale sia diversa, se
si ammettono parti separate dell’anima».
6
Sembra che si riesca a definire φαντασ ία solo in
relazione a ciò che è diverso, come se non avesse un compito o un ruolo specifico, ma si
occupasse, principalmente, di riempire i vuoti tra le diverse facoltà dell’anima e di
garantire la continuità e la coerenza nel passaggio dall’una all’altra (sui manuali di storia
della filosofia antica, infatti, troviamo spesso scritto che la phantasia aristotelica è quella
facoltà che fornisce le forme sensibili all’intelletto passivo, che fa da tramite tra l’anima
sensitiva e quella intellettiva).
Aristotele tenta anche di definire φαντασ ία in relazione ai suoi oggetti specifici: così
come oggetto della sensazione sono i sensibili propri o comuni, della φαντασ ία sono i
phantasmata che verranno poi usati dall’intelletto per ricavarne le forme intelligibili.
Vediamo allora di capire che differenza c’è tra una percezione degli organi di senso ed un
phantasma. Aristotele ci dice che «in effetti la percezione dei sensibili propri è sempre
vera […] mentre si può pensare anche falsamente»
7
ed ancora, «l’immaginazione è ciò
4
Ho riflettuto a lungo se giustificare questa scelta - la scelta di analizzare la differenza tra sensazione e
phantasma nel pensiero di Aristotele - ed alla fine mi sono decisa a racchiudere la “giustificazione” in una
nota esplicativa in modo tale da non aprire troppe parentesi all’interno del testo principale. Qualcuno
potrebbe obbiettare: «Platone è stato scartato a priori?» Certamente no; occorre però notare come la maggior
parte degli studiosi concordi sul fatto che i riferimenti platonici all’immaginazione siano solamente
inicidentali e che, soprattutto, non si riesca a trovare in Platone un’intenzione esplicativa di questa facoltà. Di
per sé questa osservazione potrebbe bastare per giustificare la mia decisione; tenendo inoltre presente che
andrò ad occuparmi di autori come Hobbes, Locke e Hume, ritengo che la mia scelta diventi ovvia ai più e
banale a pochi.
Ho deciso, anche, di non addentrarmi in dispute interpretative sui testi dello Stagirita, pur correndo il rischio
di sembrare superficiale. Volerò ora vicino a Schofield (che evidenzia il carattere passivo della phantasia e la
riempie di tutto ciò che può essere definito non-paradigmatic experiences: percezioni indistinte, illusioni
sensorie, allucinazioni, attività oniriche,… ) ed ora vicino a Frede (che, dall’altro lato, sottolinea il ruolo
cognitivo di connessione necessaria tra intelletto ed oggetti sensibili) senza nominarli.
5
Aristotele, L�anima, traduzione di Giancarlo Movia, Napoli, Luigi Loffredo Editore, 1979, Γ 3 427b 15-18
6
Ibidem, Γ 3 432b 1-3.
7
Ibidem, Γ 3 427b 12-14.
Capitolo 1
8
mediante cui diciamo che si produce in noi un’apparenza»
8
, ma «la maggior parte delle
immagini risultano false».
9
In prima battuta possiamo quindi affermare che la sensazione è sempre vera, mentre i
fantasmi-apparenze-presentazioni, ossia il materiale proprio della phantasia, contengono in
sé la condizione di verità così come la condizione di errore (per errore s’intenda una
deviazione della verità o una vera e propria finzione).
Tuttavia, sappiamo già che la φαντασ ία non può fare a meno della sensazione e che i
phantasmata si originano dalle sensazioni; dove nasce, allora, la possibilità dell’errore?
Forse rispondendo a questa domanda si scoprirà, anche, quale sia la genesi delle immagini
della φαντασ ία , il processo da cui hanno origine. Aristotele tenta di spiegare la possibilità
dell’errore scomponendo la percezione in tre momenti o tipi; egli distingue la percezione
dei sensibili propri che si dimostra essere sempre vera e infallibile, la percezione dei
sensibili per accidente in cui l’errore è possibile e, da ultimo, la percezione dei sensibili
comuni (koinā) in cui l’errore è frequente.
10
Esiste, quindi, un senso, un senso non
specifico, un senso comune che si inganna al massimo; quel senso che ha per oggetto i
sensibili comuni (proprietà pertinenti a tutti i sensi, quali possono essere il movimento, la
quiete, il numero, la figura, la grandezza). Possiamo quindi affermare che, se la possibilità
dell’inganno è insita nella koin� aisthesis, essa coincide con la φαντασ ία ? La domanda è
più che legittima e sorge soprattutto perché non si riesce a fornire una spiegazione della
genesi delle immagini mentali o se, si preferisce, delle forme del sensibile.
Chiedo al lettore di seguirmi in un ultimo passo prima di abbandonare la phantasia
aristotelica. Una soluzione, forse, può arrivarci dal leggere qualche pagina del libro The
Language of Imagination, scritto da Alan R. White. Egli, infatti, stilò un elenco delle
occorrenze dei phantasmata aristotelici: ben quindici tipi di occorrenze. Parafrasando
abbiamo i seguenti fantasmi :
1) percezione ordinaria (in cui è all’opera anche il senso comune);
8
Ibidem, Γ 3 428a 2-3.
9
Ibidem, Γ 3 428a 12-13.
10
«La percezione dei sensibili propri è vera, oppure comporta il minimo possibile di errore. Segue, in
secondo luogo, la percezione dell’oggetto cui ineriscono accidentalmente queste qualità sensibili: allora è già
possibile ingannarsi, dato che non ci si inganna sul fatto che il sensibile è bianco ma ci si inganna nel
distinguere se il bianco è questo ente oppure un altro ente. Segue, in terzo luogo, la percezione dei sensibili
comuni […]; su di essi è già possibile al senso ingannarsi al massimo». Aristotele, L�anima, cit., Γ 3 428b
18-25.
Capitolo 1
9
2) illusioni ottiche; per esempio la falsa immagine della grandezza del sole
accompagnata dalla concezione della reale grandezza della stella (Aristotele scalza
la definizione platonica della phantasia intesa come mescolanza di opinione e
sensazione);
3) fantasmi provocati da uno stato di malattia;
4) fantasmi suscitati da un’intensa emozione;
5) after-images (es.: la luce brillante o le macchie di colore che persistono dopo
esserci soffermati per qualche secondo a guardare il sole);
6) ciò che la psicologia moderna chiama hypnogogic images, ossia quelle immagini
che ci accompagnano prima di entrare nello stato di sonno profondo oppure appena
dopo esserne usciti;
7) i fantasmi che occorrono alla memoria;
8) le immagini che ci pervengono grazie ad una reminiscenza;
9) le immagini che ci fanno agire come se fossimo svegli durante il sonno;
10) il materiale onirico comune;
11) le presentazioni degli oggetti del nostro desiderio che ci spingono all’azione (nel
De motu animalium Aristotele afferma che la φαντασ ία è condizione necessaria
del desiderio);
12) i fantasmi dell’oggetto temuto o desiderato che accompagnano sempre gli stati
d’animo della speranza e della paura;
13) le immagini allegate ai piaceri dell’onore, dell’amicizia, della vendetta quando a
questi si pensa;
14) le immagini evocate e disegnate sapientemente dai drammaturghi;
15) i fantasmi come prodotto peculiare delle metafore poetiche.
Concluso finalmente l’elenco, ci rimane la sensazione di essere, a nostra volta, in grado di
aggiungere altre occorrenze di presentazioni e rappresentazioni dell’immaginazione (tutte
quelle che, magari, Aristotele non ha avuto il tempo di inserire): un lavoro inutile, ma che
fa riflettere sull’ampiezza di ciò cui ci troviamo di fronte. Se proprio volessimo una
definizione positiva della natura della phantasia, allora, essa sarebbe da intendersi come
«capacità di formare le immagini, che sono le forme sensibili degli oggetti presenti
nell’anima anche quando l’oggetto non è più in contatto con l’organo di senso».
11
11
Enrico Berti, Profilo di Aristotele, Roma, Edizioni Studium, 1993, p. 183. Corsivo mio.
Capitolo 1
10
White conclude, invece, dicendo che «il principio fondamentale della psicologia
aristotelica è che non sia possibile il pensiero senza l’uso delle presentazioni
(phantasmata)»
12
, così come è difficile immaginare un castello senza fantasmi.
1.3 Ricerca a campione.
Dopo esserci immersi nel pensiero dello Stagirita penso sia opportuno spostare l’orologio
del tempo in avanti, fino a raggiungere il Settecento. Il secolo dei Lumi non rappresenta
solamente il periodo in cui visse David Hume, ma ritengo sia il luogo in cui il concetto di
immaginazione acquisti un particolare statuto all’interno di molti sistemi filosofici.
Certamente non si può non sottolineare come il Settecento veda la nascita di una riflessione
estetica, di una critica dell’arte, ma non è questa, a mio parere, la sola ragione per cui il
concetto di immaginazione ottenga una maggiore importanza. Il Criticism (termine usato
da Hume per definire la riflessione estetica legata all’arte) è, forse, solo il luogo in cui si
scorge meglio la diversità e complessità delle funzioni a cui l’immaginazione può e deve
adempiere. Per questo motivo distingueremo, quando sarà il momento, tra
un’immaginazione dello spettatore, fruitore di qualsiasi opera d’arte come della natura, ed
un’immaginazione del genio artistico che verrà glorificata nel secolo successivo.
Prima di immergermi nelle pagine di David Hume ho svolto una ricerca a campione per
vedere come i termini imagination e fancy si presentano in quei luoghi che potrebbero
rispecchiare il sentire comune, di una nazione, di una nazione di intellettuali. Tali luoghi
sono il Dizionario della Lingua Inglese di Samuel Johnson, la Cycolpaedia di Ephraim
Chambers e la voce “immaginazione” scritta da Voltaire per l’Enciclopedia .
1.4 A dictionary of the English Language.
Nel 1755 viene data alla stampa la prima edizione del Dizionario della Lingua Inglese in
due grandi volumi; esso rappresenta il frutto di nove anni di lavoro di una sola persona,
Samuel Johnson, già conosciuto dal pubblico londinese per gli scritti satirici London
(1738) e The vanity of human whishes (1749). Il dizionario di Johnson è popolarmente
accreditato per essere il primo dizionario della lingua inglese, ma ciò non corrisponde a
verità. Prima del 1755, infatti, videro la luce lavori come il Lexicum Technicum di John
12
Alan R. White, The language of Imagination, London, Basil Blakwell, 1990, p. 9.
Capitolo 1
11
Harris e The Builder�s Dictionary. In cosa consistette la novità del dizionario di Johnson e
il perché si costituì la sua leggenda letteraria può essere letto nelle parole di H. B.
Wheatley: «il primo dizionario della lingua inglese che può essere considerato un modello,
tutti quelli che lo precedettero furono poco più che elenchi di termini. Per un centinaio
d’anni almeno fu preso a modello poiché Johnson fece ciò di cui Dryden, Waller, Pope,
Swift ed altri avevano solo parlato».
13
L’intento di Johnson fu proprio quello di supplire
alla mancanza di un buon dizionario, mancanza che, sin dall’inizio del Settecento, fu fonte
di imbarazzo per il regno inglese in generale e soprattutto per i suoi intellettuali. Il
dizionario di Johnson poteva essere finalmente paragonato ai dizionari-modello delle due
grandi Accademie continentali: il Vocabulario degli Accademici della Crusca del 1612 e
Le Dictionaire de l�Academie francaise del 1694.
14
Come si legge nel frontespizio l’opera è, propriamente, un dizionario della lingua inglese
nel quale i termini sono dedotti dai loro originali ed illustrati nei loro differenti significati
grazie ad esempi tratti dai migliori scrittori. Correttezza ortografica, etimologia,
spiegazione del significato ed esemplificazione sono i principi che guidano il lavoro di
questo abile lessicografo per il quale «il linguaggio è solo uno strumento della scienza e le
parole non sono altro che segni delle idee».
15
Apriamo il dizionario e, tenendo conto di tutti i limiti che possiede e che verranno esposti
sotto, cerchiamo i nostri due termini. Ecco cosa troviamo;
FANCY. n. s. [forma contratta di phantasy, phantasia, Latino; γαντασια ]
1. Imagination; il potere grazie al quale la mente forma da sé le immagini e le
rappresentazioni di cose, persone e situazioni.
[…]
13
Citato in Allen Reddick, The Making of Johnson�s Dictionary, Cambridge, Cambridge University Press,
1990, p. 13.
14
Riporto in questa nota un simpatico e sintomatico aneddoto a riguardo dell’orgoglio inglese. L’aneddoto è
raccontato da James Boswell, nel suo The life of Johnson, ed è datato 1748.
«Il seguente dialogo ebbe inizio quando, un giorno, il Dottor Adams lo trovò intento al lavoro del suo
Dizionario. “ADAMS. Signore, questo è un grande lavoro. Come riuscirete a rintracciare tutte le etimologie?
JOHNSON. Signore, perché? Ho qui uno scaffale con Junius, Skinner ed altri; e c’è un gentiluomo gallese
che ha pubblicato una raccolta di proverbi gallesi che mi sarà certamente d’aiuto. ADAMS. Ma, signore,
come farete a fare tutto ciò in soli tre anni? JOHNSON. Signore, non nutro alcun dubbio di potercela fare in
tre anni. ADAMS. Ma l’Accademia francese, che è costituita di 40 membri, impiegò 40 anni per compilare il
Dizionario. JOHNSON. Sì, lo so. Sono queste le proporzioni. Fatemi pensare; 40 volte 40 sono 1600. Così 3
sta a 1600 come un francese sta ad un inglese.”» L’aspettativa e la fiducia sulle proprie forze andò delusa,
egli impiegò circa una decina d’anni prima di poter dare alla stampa il suo lavoro.
15
Samuel Johnson, Preface to a Dictionary, London, W. Strahan, 1755.
Capitolo 1
12
TO FANCY. v. n. [dal sostantivo] To imagine, credere senza essere capaci di
addurre prove.
[…]
Se la nostra ricerca non raggiunge altro che similitudini e metafore allora noi stiamo
immaginando (fancy) piuttosto che conoscendo e non siamo ancora penetrati all’interno e
nella realtà delle cose; ma ci stiamo accontentando di ciò che ci fornisce la nostra
immaginazione (imagination). Locke.
Vediamo il secondo termine;
IMAGINATION. n. s. [imaginatio, Latino; imagination, Francese, da imagine]
1. Fancy; il potere di formare figure ideali; il potere di rappresentare cose assenti.
Io concepisco l’immaginazione (imagination) come la rappresentazione di un pensiero
individuale. L’immaginazione è di tre tipi; legata alla credenza di ciò che deve venire;
legata alla memoria di ciò che è passato; e delle cose presenti o pensate come fossero
presenti: io comprendo in questo l’immaginazione finta, richiamata a piacere, come se uno
dovesse immaginare un uomo qualsiasi nelle vesti di un papa o possedere un paio di ali.
Bacon.
[…]
TO IMAGINE. v. a. [imaginer, Francese, imaginor, Latino.]
1.To fancy; dipingere nella mente.
[…]
I termini si equivalgono, l’uno definisce l’altro creando una perfetta sinonimia. Lo stesso
Johnson ci aveva avvertito nella sua introduzione dicendoci come idee della stessa razza
(idee, non parole), anche se non identiche, abbiano a volte così poca diversità che nessuna
parola è in grado di esprimerla; solo la mente potrà coglierla quando i due termini le si
presenteranno assieme. Questo è uno dei limiti del dizionario, di qualsiasi dizionario.
Un altro limite si insidia all’interno delle esemplificazioni dei termini tratte dai migliori
scrittori, in questo caso Bacon e Locke; esse sono estrapolate dal contesto, un contesto che
è anche un sistema di conoscenza, il solo all’interno del quale riescano a prendere un senso
in funzione del tutto.
Capitolo 1
13
Prima di concludere questa prima ricerca vorrei riportare qui di seguito un’altra voce:
FANCYFULLY. Adv. [da fanciful] In accordo alla sfrenatezza dell’immaginazione
(imagination).
Essa è l’unica voce che apre il termine fancy ad un orizzonte di libertà sregolata, selvaggia
e sfrenata dell’immaginazione, dove quindi il termine immaginazione non può far altro che
contrapporsi alla sana ragione.
1.5 Words are the next matter of knowledge.
Se ciò è tutto quello che possiamo ricavare dopo la consultazione di un dizionario,
vediamo, allora, di cambiare genere e cercare in un’enciclopedia. La differenza tra un
dizionario ed un’enciclopedia, o dizionario enciclopedico, non è trascurabile;
l’enciclopedia presuppone un albero della conoscenza, il dizionario no; l’enciclopedia è un
sistema articolato, più o meno complesso, il dizionario no.
Mi sembra di poter individuare almeno due motivi per cui potrebbe esserci d’aiuto la
consultazione delle voci enciclopediche. Come prima cosa è doveroso notare uno degli
scopi dell’enciclopedia: metter ordine, grazie ad una sistemazione teorica, alla
provvisorietà empirica delle conoscenze acquisite dall’uomo, per facilitare la
comprensione all’uomo stesso. Il lavoro dell’enciclopedista potrebbe essere interpretato
come una forzatura (la stabile sistemazione teorica si scontra con la provvisorietà
empirica), tuttavia una forzatura necessaria in nome della chiarezza e non del dogmatismo.
Come secondo motivo si rilevi il fatto che è possibile prendere l’enciclopedia come
esempio del sentire comune di un dato popolo, o classe sociale, di una data nazione in una
determinata epoca (breve o lungo periodo) e non, solamente, come sentire personale del
compilatore o dell’editore.
Nel 1727 giunse a termine la prima edizione della Cyclopaedia, un’opera in due grossi
volumi in folio composta, almeno nella prima edizione, dalle sole mani dell’inglese
Ephraim Chambers, dapprima apprendista libraio presso John Senex e poi avventuriero
della penna. «L’enciclopedia di Chambers, almeno virtualmente, offre al “filosofo” - come
una storia sperimentale, come dato fenomeno esperimento - tutto ciò che l’umanità ha
Capitolo 1
14
pensato e costruito nel tempo e nello spazio affinché la dimensione della mente possa
coestendersi alla dimensione di tutte le menti».
16
Non è possibile consultare un’enciclopedia come se si volesse consultare un dizionario.
Poiché il lavoro enciclopedico presuppone un sistema, devo, prima di ogni altra cosa,
familiarizzare con tale sistema, apprenderlo nella maniera più semplice, ossia attraverso le
parole del compilatore stesso. Chambers antepose al corpo del proprio lavoro una lunga
prefazione a cui dedicò tempo e passione critica. «La prefazione di Chambers è il primo
manifesto del sapere enciclopedico moderno. La sua struttura composita, in cui si
intrecciano principalmente elementi del pensiero lockiano con gli esiti teorici della scienza
newtoniana, diviene veicolo di un complesso background di pensiero che, unitamente
all’azione divulgatrice dei giornali eruditi di area francese e olandese, confluisce nel
pensiero illuministico europeo».
17
Un manifesto orgogliosamente pretenzioso che si svela,
a fine lettura, essere una bellissima divagazione tra spunti filosofici, letterari, teologici e
linguistici. Forse, dopo esserci immersi in questa divagazione ci accorgeremo di aver
ricevuto da essa informazioni ed elementi più interessanti che non dalla consultazione delle
singole voci enciclopediche.
Chambers mette subito in risalto come lavorare ad un’opera di tal fatta sia generalmente
uno sforzo sproporzionato per una singola persona, tuttavia egli, come tutti potenzialmente,
fu aiutato dal sentirsi «erede di un vasto patrimonio di conoscenze, conquistato
gradualmente grazie all’impegno e agli sforzi di una lunga stirpe di antenati».
18
Chambers
riconobbe di aver attinto da fonti a lui precedenti - «ciò che gli Accademici di Francia, i
Gesuiti di Trevoux, Daviller, Chomel, Savary, Chauvin, Harris, Wolfius e molti altri hanno
fatto è stato subordinato ai miei scopi»
19
: proprio come l’ape industriosa attinge da mille
fiori, allo scopo di fornire il miele del sapere al suo lettore. Tuttavia, esiste un enorme
scarto tra il suo lavoro e quello dei lessicografi che lo precedettero; questi, infatti,
parafrasando Chambers, non si cimentarono nell’offrire una struttura ai loro lavori.
Chambers, invece, volle, intenzionalmente, creare un sistema in cui considerare i diversi
materiali non solo in ciò che essi sono assolutamente e indipendentemente per se stessi ma,
16
Maurizio Mamiani, La mappa del sapere. La classificazione delle scienze nella Cyclopaedia di E.
Chambers, Milano, Angeli, 1983, p. 39.
17
Ibidem, p. 26.
18
Ephraim Chambers, Cyclopaedia, ed. by Terence M. Russell in The Enciclopedic Dictionary in the
Eighteen Century, Cambridge, Ashgate, 1997, p. 39.
19
Ibidem, p. 39. Sono solo alcuni dei nomi di coloro che hanno contribuito alla diffusione del modulo
enciclopedico.
Capitolo 1
15
ugualmente, come parti in relazione l’una con l’altra. L’avventuriero della penna è
consapevole della possibilità di trattare il materiale raccolto sia come intero sia come parte
componente un intero più grande; questo duplice trattamento è ciò che permette la
comunicabilità e i vantaggi di un discorso continuato tra i vari segmenti o anelli del sapere
(l’immagine leibniziana-shaftesburiana “della grande catena dell’essere” sarà una costante
dell’orizzonte metaforico settecentesco).
A questo punto, e stiamo ancora leggendo la prima parte della Preface, Chambers ci dice:
«l’immaginazione, estesa ed amplificata in modo tale da poter afferrare una così larga
struttura, non può avere se non una generale ed indistinta percezione di tutte le parti.
Mentre le parti rimangono materiale della conoscenza sia concepite separatamente sia
prese insieme. Per l’esattezza, come le nostre idee sono tutte singolari o individuali, e
come ogni cosa che esiste è una, sembra più naturale considerare la nostra conoscenza
nelle parti che la compongono, per esempio divisa in differenti articoli denotati da
differenti termini, che non prenderla per un unico insieme nella sua ultima composizione:
cosa meramente artificiale ed immaginaria».
20
Oltre a sottolineare gli echi lockiani, da ciò
possiamo dedurne che l’immaginazione è quella facoltà che permette a Chambers di
strutturare ed organizzare il materiale della conoscenza come un tutto, a dispetto della
natura singolare ed individuale di ogni parte e come scrive esplicitamente poco dopo:
«tutto ciò che si scrive è per sua natura artificiale; e l’immaginazione è la facoltà che
immediatamente entra in gioco».
21
Immaginazione, quindi, come facoltà produttrice di
artifici, poiché in grado di creare nessi e comunicazione tra individui singolari; facoltà che
porta al superamento del piano naturale delle cose.
Una volta conquistate queste generali premesse ed aver fornito al lettore il piano
dell’opera, Chambers, spogliandosi dalla semplice veste di lessicografo, si avvia a
giustificare, per circa una ventina di facciate, la ripartizione che egli fece del sapere
umano. Egli divise l’albero della conoscenza in due grandi rami, il ramo dell’Arte ed il
ramo della Scienza
22
, in base all’attività, agency, o non attività della mente umana.
Tuttavia, Chambers sembra non accontentarsi di partire da questo livello di discussione:
20
Ibidem, p. 41.
21
Ibidem, p. 41.
22
Come si riempiono le categorie Arte e Scienza nella Cyclopaedia; Arte:Chimica, Ottica, Pittura, Musica
fonica, idraulica, idrostatica; Meccanica; Pirotecnica, Astronomia, Idrografia, Geografia, Anatomia,
Allevamento, Retorica. Scienza: Fisiologia o Storia Naturale, Fisica o Filosofia naturale, Metafisica,
Matematica, Religione.
Capitolo 1
16
vorrebbe salire di un gradino per spiegare la ragione di simile divisione, per considerare la
conoscenza nei suoi stessi principi. Questo il suo desideratum: scoprire le basi generali
dell’apprendimento, learning, anteriormente a ogni intervento dell’uomo.
Le parole sono la materia prossima alla conoscenza, ad un particolare tipo di conoscenza:
comunicabile, capace di trasmettersi da una persona ad un’altra. In quest’ottica il
linguaggio è ciò che permette alle esperienze individuali di passare da una mente all’altra
in modo tale da estendere, amplificare la mente dell’uomo ed inaugurare un canale di
percezione differente dal canale del Senso. Se Chambers ribadisce, parafrasando Locke,
che tutta la nostra conoscenza non deriva se non dal sentire, allora il linguaggio diviene, in
questo luogo, una specie di secondo (o se si preferisce, sesto) senso. L’artificio del
linguaggio è ciò che permette di osservare il mondo attraverso gli occhi di tutta la specie
umana (il linguaggio diviene infatti criterio di distinzione tra essere umano ed animale).
Possedere il linguaggio significa avere accesso ad una moltitudine di idee, alla memoria
collettiva della specie umana; tuttavia, questo accesso al magazzino della memoria
collettiva si rivelerebbe inutile o forse inutilizzabile se fosse privo di ordine. Per questo
motivo abbiamo un assoluto bisogno di quella facoltà capace di ordinare, comparare,
creare relazioni, aggregare, astrarre, quella facoltà che, in poche parole, ci permetta di
costruire un discorso.
Il linguaggio è anche ciò che, di conseguenza, permette la nascita della Scienza e dell’Arte.
Ovviamente, Chambers non può esimersi dal tentare di definire questi due termini. Alla
Scienza vanno attribuite le scoperte dell’uomo ottenute attraverso l’uso della Ragione e dei
Sensi nel loro stato naturale, ossia non modificato da nessuna circostanza particolare, sia
essa un’idea precedente, degli oggetti, una passione, una conversazione. La Scienza
sembra, così, risolversi in nient’altro che una serie di deduzioni compiute in uno spazio,
mentale e fisico, asettico. L’Arte, invece, è il risultato di una ragione personale, una
ragione modificata dallo humour, dall’indole o dal modo di pensare proprio di una persona.