4
Pertanto l’individuo necessita, oltre che di conoscenze specializzate, di una “forma
mentis”, di una competenza generale che gli permetta di affrontare efficacemente e
creativamente i problemi che da tale complessità derivano.
Il test sopra presentato evidenzia in maniera ironica le difficoltà in cui molti
“professionisti” incappano nel momento in cui si trovano a dover risolvere problemi in
situazioni nuove e permette di riassumere alcune regole essenziali per affrontare tali
situazioni.
Precisamente:
- Lo scopo della prima domanda è di valutare se si tende a fare le cose semplici in
maniera eccessivamente complessa. Ci ricorda che spesso ci si trova di fronte a
dei problemi soltanto perché si guarda la situazione da una prospettiva sbagliata
e la si vede più complessa di quanto essa sia in realtà
- Lo scopo della seconda domanda è di stimare la capacità degli individui di
pensare alle conseguenze delle proprie azioni. Ci esorta a procedere nella
soluzione di problemi tenendo sempre presenti le azioni compiute in precedenza
e pensando sempre alle conseguenze che ogni azione può provocare.
- La terza domanda ha il fine di determinare l’abilità dei soggetti di ricordare
situazioni analoghe a quella problematica per trovare la soluzione. Ci rammenta
l’importanza di ricordare le operazioni compiute in situazioni simili a quella
problematica e di saper utilizzare questo ricordo per raggiungere il proprio
scopo,
- Infine la quarta domanda vuole esaminare se si è in grado d’imparare dai propri
errori. Ci ricorda che l’errore non è qualcosa di cui vergognarsi ma un incentivo
per migliorare, quindi lo si deve sempre prendere in considerazione e da esso
imparare.
5
Sulla base di numerosi studi si può affermare che la competenza nella soluzione di
problemi può essere sviluppata negli individui insegnando loro ad utilizzare strategie
efficaci per raggiungere i propri obiettivi. Sono stati realizzati training incentrati ora su una
ora su un’altra o su più di una di tali strategie.
Il presente lavoro si propone proprio di progettare, realizzare e validare un training
che, sfruttando le risorse offerte dal computer, permetta d’insegnare strategie di problem-
solving. Il computer è stato scelto come medium principale del training soprattutto perché
permette una modalità d’insegnamento che non si limita a stimolare un apprendimento
passivo legato ai percorsi obbligati, ma incoraggia un apprendimento attivo e
personalizzato, permettendo agli utenti di seguire percorsi diversi in tempi diversi a
seconda del proprio stile cognitivo, delle proprie esigenze e dei propri interessi. In questa
maniera gli individui possono approfondire solo ciò che a loro effettivamente interessa e
possono collegare tra di loro i diversi argomenti e concetti creando una propria mappa
mentale dei temi affrontati, appropriandosene in maniera più approfondita così da riuscire
poi a ricordarli più facilmente. Inoltre, realizzando il training in linguaggio Html si è
sfruttata la possibilità di inserirlo in internet e pertanto di utilizzarlo come corso di
formazione a distanza.
Al training è stato dato il nome “Nous”, che in greco significa pensiero. In esso sono
presentate cinque strategie per migliorare l’abilità di problem-solving che s’incentrano
sullo sviluppo di: fluidità e flessibilità del pensiero; capacità di analisi critica della
situazione in cerca di elementi che conducano alla soluzione; sospensione dei pre-giudizi;
capacità di guardare da diverse prospettive i problemi; abilità di progettazione delle proprie
azioni e delle operazioni da compiere e capacità di utilizzare la propria conoscenza e
trasferirla a diverse situazioni.
La tesi è suddivisa in quattro parti.
6
Nella prima parte viene presentato un excursus delle teorie più note riguardo il
problem-solving, in modo che, tramite una riflessione su di esse, si possano stabilire le basi
ed i concetti generali su cui realizzare il training.
Quindi, poiché il mezzo principale del training è il computer, il secondo capitolo si
propone di analizzare le potenzialità del computer come strumento didattico presentando
una ricerca condotta dall’IRSAE Lombardia, in cui vengono evidenziati tredici fattori in
base ai quali si possono definire appunto le potenzialità formative del computer. Inoltre in
esso sono state esposte le risorse del computer che sono state sfruttate nel caso della
realizzazione di Nous relativamente agli obiettivi formativi che con questo si volevano
raggiungere.
Nel terzo capitolo invece viene illustrata una rassegna di studi che esemplifica diverse
metodologie e diversi mezzi utilizzati per realizzare programmi per l’addestramento di
abilità di problem-solving. Sono presentati alcuni tra i primi training realizzati, che
utilizzano semplicemente carta e matita. Quindi ne vengono esposti altri che come mezzi
d’addestramento utilizzano diversi programmi per computer ed infine ulteriori programmi
basati sull’utilizzo di tecnologie più complesse come la realtà virtuale ed Internet.
Infine nell’ultimo capitolo viene descritto Nous, il lavoro compiuto per progettarlo e
realizzarlo e la sperimentazione dello stesso su sei studentesse universitarie, effettuata per
comprendere in che aspetti possa essere migliorato e per valutarne l’effettiva efficacia.
Dall’indagine condotta si è potuto verificare che la fruizione del training ha richiesto in
media dodici ore e trenta minuti suddivise in sette sessioni di studio della durata media di
un’ora e quarantacinque minuti. Nous è stato considerato un training interessante utile e
divertente, è risultato chiaro e comprensibile nella quasi totalità delle sue sezioni, ha
aiutato i soggetti a riflettere maggiormente sui propri processi mentali, ha insegnato loro ad
analizzare con più attenzione e più approfonditamente le situazioni problematiche per
7
trovare spunti per la soluzione; questo è quanto è stato dichiarato da i soggetti che si sono
sottoposti al training.
Dall’analisi quantitativa relativa al confronto dei risultati ottenuti dai soggetti nel pre-
test e nel post-test è stato riscontrato un leggero miglioramento dei soggetti, sebbene non
statisticamente significativo, nella soluzione dei problemi, che pertanto non ha permesso di
confermare l’ipotesi dell’efficacia del training sulle abilità di problem-solving dei soggetti,
ma non ha neanche permesso di confermare l’ipotesi opposta, lasciando aperta la
possibilità di un’ulteriore verifica che si fondi su di una sperimentazione su un campione
più esteso ed eterogeneo e che permetta di ottenere dati statisticamente significativi e la
generalizzazione dei risultati. In ogni caso si può affermare che il training, sebbene sia
opportuno apportare delle modifiche ad alcune spiegazioni e quesiti per renderli più chiari,
è ormai completo, divulgabile ed utilizzabile, se non altro per aumentare negli individui la
consapevolezza metacognitiva dei processi mentali implicati nella soluzione di problemi e
stimolare una maggior riflessività ed una miglior capacità di analisi delle situazioni
problematiche.
8
1. PENSARE PER RISOLVERE SITUAZIONI COMPLESSE
Lo scopo del software Nous è quello d’insegnare strategie di problem-solving che
aiutino gl’individui a pensare in maniera efficace, ma cosa s’intende per “pensare”, e cosa
per “problem-solving”? A queste domande cercherò ora di rispondere.
1.1 COME PENSIAMO?
Essendo il problem-solving un’abilità di pensiero, prima di entrare in merito agli studi
su di esso è opportuno, definire che cosa s’intenda per pensiero. Quest’ultimo può essere
definito come il recupero e la manipolazione di informazioni codificate in precedenza, a
volte allo scopo di risolvere problemi, ma a volte senza alcun fine determinato. Ciò che il
pensiero manipola, elabora e recupera, ossia la materia prima su cui opera, sono le
rappresentazioni mentali. Queste possono avere diverse forme: nel caso in cui il pensare
assomigli ad un parlare tra sé e sé, la forma della rappresentazione è linguistica; altrimenti,
nel caso il pensiero assomigli ad una percezione (visiva, uditiva, fisica), la sua materia è
costituita da immagini. Pertanto, per risolvere i quesiti o i problemi di fronte ai quali ci si
trova, le immagini vengono manipolate mentalmente. In questi tipi di pensiero si è sempre
consapevoli dell’oggetto a cui si sta pensando. Esiste tuttavia, un tipo di pensiero chiamato
“pensiero senza immagini” che non è legato a immagini o parole; questo probabilmente è
quello utilizzato più frequentemente ed è caratterizzato dal fatto che non siamo in grado di
dire a cosa stiamo pensando esattamente; semplicemente cominciamo a lavorare su di un
problema ed improvvisamente troviamo un idea, un’intuizione che ci permette di
risolverlo. Il problema può essere semplice, come se venisse chiesto se la mela è un frutto,
9
oppure più complesso, come quando ci si trova a risolvere i cruciverba ed all’improvviso
viene in mente la parola richiesta per la soluzione.
Per risolvere le situazioni problematiche di fronte a cui ci troviamo quotidianamente,
noi pensiamo e, pertanto, utilizziamo tutte queste forme di pensiero. Secondo il tipo di
problema e delle nostre conoscenze, manipoliamo e lavoriamo su concetti o immagini e
spesso troviamo la soluzione grazie ad intuizioni che non riusciamo nemmeno a capire da
dove vengano.
1.2 IN CHE MODO CERCHIAMO DI RISOLVERE SITUAZIONI COMPLESSE?
Che cosa s’intende per problem-solving? Esistono numerose definizioni, dovute alla
costante attenzione che questo argomento ha avuto nella storia della psicologia, ma tutte
sono accomunate dal riferirsi sempre a situazioni pratiche o teoriche che attendono una
soluzione o in cui un individuo cerca un modo per raggiungere un obiettivo. Tra i primi a
studiare il problem-solving fu, nel 1945, Duncker. Egli sosteneva che si ha un problema
quando un individuo ha un obiettivo e non sa come raggiungerlo; si crea pertanto una
discrepanza tra uno stato ideale ed uno finale, che si cerca di colmare pensando ad azioni
intermedie. Duncker, dunque riteneva che il problem-solving si riducesse all’analisi della
situazione reale, di quella desiderata e delle differenze tra queste per cercare poi un modo
per eliminarle o aggirarle.
In quegli anni tuttavia non si possedevano gli strumenti necessari per studiare
approfonditamente fenomeni complessi il problem-solving; pertanto gli studiosi Gestaltisti,
tra i quali si situa lo stesso Duncker, non furono in grado di costruire una teoria generale e
verificabile delle capacità cognitive e quindi non riscossero lo stesso successo che in quegli
anni riceveva il comportamentismo. Secondo questo approccio l’apprendimento era visto
10
come un’ associazione tra uno stimolo ed un altro e soltanto ciò che poteva essere
osservato si poteva ritenere oggetto di studio. Pertanto non veniva neanche presa in
considerazione la possibilità di studiare i processi cognitivi che stanno dietro alla soluzione
dei problemi e si studiava soltanto il comportamento esteriore ed il metodo per indurre od
inibire determinati condotte fornendo precisi stimoli, quindi un problema era considerato
semplicemente << una questione che per il momento non ha risposta>> (Skinner, 1966) od
anche <<una situazione-stimolo che non ha una risposta pronta>> (Davis, 1973); soltanto
negli anni Sessanta, con la nascita del cognitivismo l’interesse per argomenti come il
problem-solving trovò nuovo vigore.
Fino agli anni Settanta domina, all’interno del cognitivismo, la concezione del
problem-solving come “ricerca” di un insieme di operatori che consenta di passare da uno
stato iniziale all’obiettivo desiderato. Dall’unione di questa prospettiva con gli studi
sull’intelligenza artificiale è nato l’approccio dell’information processing, che rimane la
teoria egemone sino agli anni Ottanta. L’opera che ne presenta la più completa
sistemazione è “Human Problem Solving” di A. Newell e H.A. Simon (1972).
1.2.1 Information processing: teoria egemone sul problem-solving
Il contributo fondamentale dell’information processing è il ritenere possibile formulare
una teoria descrittiva del problem-solving degli esseri umani tramite la costruzione di un
programma di soluzione dei problemi che simuli il comportamento umano. Le strategie che
vengono prese in considerazione per la soluzione di problemi sono essenzialmente quelle
legate ai processi mentali utilizzati per modificare la situazione iniziale problematica al
fine di raggiungere un obiettivo. L’idea su cui si basa l’intera teoria consiste nel
considerare il comportamento di soluzione come un’interazione tra: un sistema di
elaborazione dell’informazione, l’ambiente del compito e lo spazio del problema. Il
11
sistema di elaborazione è l’essere umano, che dispone di strutture di conoscenza e di un
insieme di strategie che lo aiutano ad interpretare il problema, a cercare nella memoria
algoritmi per la soluzione ed a mettere in relazione elementi di conoscenza immagazzinati
separatamente in modo da produrre una soluzione. L’ambiente del compito è costituito dal
problema in tutti i suoi elementi, mentre lo spazio del problema è la rappresentazione che
un individuo si crea sulla base delle strutture di conoscenza di cui dispone; tale
rappresentazione è costruita attraverso processi di comprensione del compito, determinati
da meccanismi generali e dalla conoscenza che il solutore possiede riguardo il settore cui
attiene il problema. Spesso è, tuttavia, fuorviata dagli elementi stessi della situazione, che
“suggeriscono” determinate strategie piuttosto che altre più efficaci. La stessa
comprensione interagisce con la ricerca della soluzione, poiché il tipo di ricerca dipende
dal grado di comprensione ma quest’ultima può migliorare grazie a nuove informazioni
venute alla luce grazie alla ricerca.
Le strategie di soluzione dipendo dalla tipologia di problemi di fronte a cui l’individuo
si trova, Questi possono essere distinti in tre tipi:
- ben definiti: sono formulati chiaramente; sia l’obiettivo che l’algoritmo per
raggiungerlo sono noti al solutore
- ben strutturati che richiedono il pensiero produttivo: in questo caso l’individuo
non dispone di un algoritmo ma deve produrlo
- mal definiti: in questo caso non sono chiari né la formulazione del problema, né
i criteri per valutare la correttezza della soluzione, né le procedure che
garantiscano una soluzione esatta.
La differenza tra i tipi di problemi non è determinata unicamente dal problema in sé,
ma anche dalle abilità e le conoscenze del solutore. Infatti uno stesso problema può
risultare ben definito per un esperto e mal definito per un inesperto. Come detto, spesso per
12
risolvere delle situazioni problematiche basta trovare l’algoritmo da seguire; ma che cos’è
un algoritmo? Con questo termine il cognitivismo è solito indicare piani o procedure
sistematiche in cui si applica uno schema noto di operazioni per trovare la soluzione, come
per esempio le regole per calcolare l’area di figure geometriche o la forza di gravità su
diversi pianeti. Spesso, tuttavia, non esistono algoritmi utili alla soluzione o la loro
applicazione risulta essere troppo dispendiosa; in questi casi si ricorre ad euristiche, ossia
procedure non sistematiche come un algoritmo, ma più generali e rischiose, poiché
possono condurre all’insuccesso; esse guidano la ricerca delle azioni da fare senza
specificare ogni singola operazione da compiere.
La simulazione del comportamento di problem-solving con il computer, ha portato alla
scoperta di alcune euristiche comunemente usate dai soggetti per organizzare e facilitare il
processo di ricerca, queste sono:
- analisi mezzi-fini, in cui l’individuo osserva la differenza tra la situazione
iniziale e l’obiettivo da raggiungere per poi individuare le operazioni che
possono ridurla
- una strategia simile è quella in cui si cerca di porre dei sotto-obiettivi da
raggiungere per avvicinarsi a piccoli passi allo stato finale
- un’altra strategia consiste nel formulare un progetto o piano semplificato e di
servirsene come guida per la soluzione
- altrimenti, nel caso in cui il numero delle possibili soluzioni sia ridotto , si
procede alla formulazione di ipotesi di soluzione per poi metterle alla prova.
L’assunto per cui esistono delle precise strategie che guidano gli individui alla
soluzione dei problemi presuppone anche che esse possano essere insegnate così da
permettere agli individui di affrontare con successo situazioni complesse in diversi campi
di esperienza. Forse proprio questa eccessiva fiducia nella applicabilità delle strategie a
13
tutti i campi di esperienza ha portato al declino della concezione dell’information
processing.
1.2.2 Expertise: strategie di problem-solving di soggetti esperti
Quando, negli anni Ottanta, incominciò il declino dell’HIP, iniziarono gli studi
sull’expertise, ossia sull’essere esperto in un settore della conoscenza o esperienza e si
cercava di comprendere in che modo un esperto in un determinato settore, agisca e pensi
quando viene a trovarsi di fronte ad un problema, così da capire quali siano le
caratteristiche che fanno del suo modo di pensare un pensare in maniera efficace. Queste
indagini hanno dato nuovo rilievo ai processi di problem-solving, considerandoli in
interazione con il grado di conoscenza dichiarativa e procedurale posseduta dal solutore,
relativa al settore in cui si colloca il problema.
Negli studi sull’expertise, la definizione di esperto è piuttosto approssimativa e non
univoca. Solitamente l’accento viene posto sul carattere altamente professionale della
prestazione (per esempio Richman, 1996) o sulla facilità con cui un individuo è stato in
grado di eseguire un compito in rapporto alla complessità dello stesso (Scardamalia,
Bereiter, 1991). Il metodo più spesso utilizzato per questi studi è di far pensare ad alta voce
durante la soluzione di un problema, sia individui esperti che inesperti, così che i loro
processi di ragionamento possano essere verbalizzati; in questo modo si è rilevato che
esperti ed inesperti usano strategie differenti, differiscono anche per il modo di
raggruppare le idee nella propria memoria e di organizzare le proprie conoscenze. Si
possono compiere alcune generalizzazioni sull’expertise in relazione agli studi condotti
finora (Glaser, 1992):
Innanzitutto sembra che l’expertise si disponga lungo un continuum che va dalla
routine all’adattività: gli esperti in routine eccellono per la rapidità, accuratezza ed
14
automaticità nella prestazione e costruiscono modelli mentali adeguati per compiti
standard, tuttavia sono poco adattivi nei confronti di compiti nuovi, L’expertise adattiva è,
invece, più flessibile ed applicata da soggetti che operano in situazioni in cui non conta
solo l’efficienza della prestazione, ma anche l’abilità di “comprendere” il problema e di
trasferire o generalizzare le soluzioni.
Riguardo alle abilità proprie di un soggetto esperto si è rilevato che:
- innanzitutto questi agisce con grande precisione in relazione alla conoscenza
specializzata di cui dispone, ma nel momento in cui si trovi a dover risolvere
problemi al di fuori del suo campo di conoscenza perde il vantaggio, costituito
dalla rapidità nella percezione e rappresentazione della situazione, e ricorre a
strategie generali di soluzione come fanno gli inesperti.
- Inoltre, come detto, gli esperti organizzano la conoscenza in maniera differente
dagli inesperti. Infatti, strutturano gli elementi della situazione in patterns ampi
e significativi, mentre gli inesperti li organizzano in maniera meno articolata,
più superficiale e svincolata da principi astratti e generali.
- Un altro vantaggio dell’esperto è che, avendo una conoscenza più strutturata,
risparmia più tempo nel recupero della memoria e nel riconoscimento dei
patterns.
- Ulteriori diversità tra esperti ed inesperti è che i primi possiedono una
conoscenza altamente proceduralizzata e rivolta all’obiettivo e fanno maggior
uso di processi di autoregolazione, ricercando feedback per affrontare meno
superficialmente il problema.
Diventare esperti significa, pertanto, imparare ad organizzare le proprie conoscenze ed
acquisire pratica, essere quindi in grado di connettere le procedure ai principi generali
sottesi a categorie di problemi; inoltre significa imparare ad osservare, valutare e
15
correggere la propria prestazione, essere in grado di gestire il tempo a disposizione, di
elaborare delle ipotesi, ponendo domande appropriate e considerando realisticamente le
possibilità ed i limiti.
Secondo questi studi, dunque, non è sufficiente che un individuo sia in grado di
utilizzare determinate strategie di problem-solving, ma l’abilità nella soluzione di un
problema dipende anche dalle sue conoscenze riguardo al settore in cui si presenta il
problema, dal modo in cui sono organizzate nella sua mente, e dalla sua capacità di
trasferire ed utilizzare quelle strategie in nuovi contesti.
1.2.3 Trasferire le strategie in diversi contesti
Con il termine transfer si indica l’effetto dell’apprendimento in generale sulla vita
quotidiana. Parlare di transfer del problem-solving, quindi, significa parlare della
trasferibilità, in diversi settori di esperienza, delle strategie di problem-solving apprese in
un contesto particolare.
Secondo la teoria associazionistica e soprattutto quella di Thorndike, un apprendimento
ne facilita uno successivo soltanto se il materiale appreso nelle due situazioni ha elementi
comuni ossia il discente è in grado di trasferire, ad altre situazioni, le abilità apprese in un
conteso, solo se riesce a trovare tra di esse delle similarità tra gli elementi. Questo
approccio, tuttavia, si focalizza sul transfer di comportamenti specifici, piuttosto che su
quello delle abilità di problem-solving. La connessione privilegiata tra queste ultime ed il
transfer è stata, invece, stabilita da un altro approccio, quello della psicologia della Gestalt.
Il concetto di pensiero produttivo, proprio di questa teoria, è infatti legato a quello della
trasferibilità dei principi strutturali appresi nella soluzione di un problema. Questo
approccio afferma che la trasferibilità delle abilità di problem-solving dipende non dalla
somiglianza tra gli elementi delle diverse situazioni, ma dalla comprensione della struttura
16
che regola i rapporti tra di essi e quindi dall’osservazione di similarità nell’organizzazione
degli elementi.
Una visione maggiormente metacognitiva del transfer è offerta dall’approccio
cognitivista. Per questo, infatti, il trasferimento di un apprendimento si verifica quando un
individuo è consapevole ed in grado di controllare i processi cognitivi della sua mente. Se
applicata alla soluzione di problemi, questa visione sottolinea la “sensibilità al problema”
del solutore, ossia la sua capacità di cogliere e rappresentarsi, in maniera consapevole il
problema e di monitorare la ricerca della soluzione e la verifica della sua applicabilità.
Pertanto, il transfer non è mai una conseguenza meccanica dell’apprendimento ma è il
risultato di un atteggiamento “vigile” di chi apprende.
L’idea di transfer analogico, che è stata concettualizzata negli anni Ottanta (Sternberg,
1977), riassume un po’ questa visione di atteggiamento “vigile” che si attua quando per
risolvere una situazione complessa, consapevolmente, si usa ciò che si sa di una situazione
ad essa simile e già risolta; alcuni studi hanno esaminato il procedimento analogico
mediante cui problemi simili, già risolti, aiutano a trovare la soluzione di un altro
problema, ed hanno distinto quattro fasi, che sono:
- Codifica dei termini dell’analogia
- Recupero, nella memoria una base analogica
- Applicare tale base al problema, adattando il principio o la regola di soluzione
al problema target
- Indurre uno schema, che ha origine dall’uso della base analogica
Su quest’ultima fase, tuttavia, non tutti gli studiosi si trovano d’accordo.
Il transfer analogico non avviene sempre spontaneamente poiché non è facile
cogliere lo schema strutturale che unifica le caratteristiche comuni a situazioni che si
presentano diverse; inoltre, anche quando si riesca ad avvertire un analogia, può risultare
17
difficoltoso applicarla. Pertanto, per aiutare gli individui ad accorgersi delle possibilità di
transfer, risulta utile invitarli in maniera più o meno generica a ricordare situazioni simili
ed a confrontarle con quella presente, oppure evidenziare i caratteri salienti, trasferibili da
una situazione all’altra, od anche presentare diverse analogie relative allo stesso problema
da risolvere.
Alla fine degli anni Ottanta nascono ulteriori prospettive sul concetto di transfer. Per
esempio Prawat (1989) considera il transfer come l’abilità di accedere alle risorse
intellettuali nelle situazioni in cui esse possono essere importanti e sottolinea l’importanza
di due fattori che ne influenzano l’accesso, utilizzo e la trasferibilità, l’organizzazione e la
consapevolezza. Greeno (1993) sostiene un approccio situato al transfer, incentrato cioè
sulla coerenza dei processi di partecipazione nelle diverse situazioni, poiché il transfer si
verifica sempre nell’interazione dell’individuo con la nuova situazione; pertanto,
cambiando la situazione, cambia l’interazione e, tanto più gli aspetti contestuali saranno
diversi, tanto meno facilmente avverrà il transfer.
Il concetto di transfer risulta particolarmente utile per la progettazione e costruzione
di Nous, poiché è importante che i soggetti che si sottopongono a questo training imparino
anche a trasferire, nella loro quotidianità, le strategie che hanno appreso nei laboratori,
affrontando problemi e quesiti non sempre vicini a situazioni reali di vita, è questa appunto
la funzione che viene svolta dalla sezione “Palestra”, in quanto offre la possibilità di
esercitarsi e riflettere sulle situazioni in cui le varie strategie sono maggiormente efficaci, e
dalla sezione “Tutor”, poiché offre esempi di soluzione di problemi quotidiani con
l’utilizzo delle strategie insegnate, e fornisce delle schede guida per applicare le strategie in
diversi contesi.