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campagna di Russia e sulla prigionia dei soldati italiani catturati
dall’Esercito Rosso, apparsa soprattutto nell’immediato dopoguerra, in
piena “guerra fredda”, ma pubblicata talvolta anche in anni più recenti.
Esiste infatti un considerevole numero di memorie, scritte dai reduci per lo
più nel clima infuocato che precedette in Italia le elezioni politiche
dell’aprile 1948. Si tratta di testimonianze caratterizzate da uno spiccato
tono polemico e contraddistinte da un violento anticomunismo,
conseguente al trattamento “politico” usato dai sovietici nei confronti dei
prigionieri. Nello specifico, questo livore antisovietico, che altera una
serena esposizione dei fatti, si manifesta in una forma più evidente nelle
opere di quel ristretto numero di prigionieri che furono trattenuti in Unione
Sovietica, per infondati crimini di guerra, fino al 1954. Lo stesso discorso
risulta valido anche per le testimonianze della maggior parte dei cappellani
militari, spesso caratterizzate da una preconcetta intransigenza
anticomunista. Solamente un numero esiguo di ex prigionieri è riuscito a
mantenere un relativo distacco dagli eventi vissuti, evitando di cadere in
una facile strumentalizzazione politica durante la stesura delle proprie
memorie. A questa categoria appartengono i libri di Carlo Vicentini, Noi
soli vivi, di Diego Cadeddu, La storia non si ferma: incontro storico-
autobiografico, di Franco Serio, La steppa accusa, di Carlo Silva, Vengo
dalla Siberia, di Ernesto Barbieri, La mia guerra in Russia e quello del
tenente medico Donato Guglielmi, forse l’unico diario scritto a caldo sulla
prigionia in Russia, Attendimi. Diario di un medico prigioniero in Russia.
1942- 1946. Infine, di grande valore storico per il delicato argomento
trattato, “l’agganciamento” dello stesso autore durante la prigionia ad opera
del Servizio Informazioni sovietico, è il libro rimasto inedito fino al 1996
di Gino Beraudi, Vajnà kaputt. Guerra e prigionia in Russia (1942- 1945).
Di indiscutibile valore per comprendere le drammatiche condizioni della
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prigionia in Russia risulta essere la voce dei soldati semplici, che
costituirono tra l’altro la maggioranza della popolazione dei lager. Una
delle testimonianze più veritiere ed autentiche è quella scritta nel 1950, ma
pubblicata solo nel 1976, dal soldato Settimo Malisardi, Presente alle
bandiere. Nell’introduzione a tale libro, Mario Rigoni Stern così scriveva:
Chi scrive non è questa volta un generale memorialista o uno storico (…) è
uno che porta ancora il peso di tutti gli orrori e di tutte le ingiustizie
accumulate sulle spalle dei contadini poveri e vuole rendere testimonianza
a noi.
Accanto a questo libretto, è opportuno citare un’altra opera scritta da un
soldato semplice: il libro di Ruggero Quintavalle, Un soldato racconta,
Diario di un reduce dalla prigionia sovietica. Infine sono state pubblicate
due straordinarie raccolte che riuniscono le testimonianze degli strati
sociali più popolari, quella curata da Nuto Revelli, La strada del “davaj” e
quella curata da Giulio Bedeschi, Prigionia: c’ero anch’io.
Citando queste opere, da cui ho attinto molti stralci significativi, non
intendo affermare che le altre memorie siano inattendibili o frutto di
invenzioni dei reduci, ma solamente che difettano di quel margine di
obiettività e distacco dalla tragica esperienza personale, indispensabile per
condurre una ricerca storica adeguata. Esse vanno lette con attento spirito
critico, elemento imprescindibile per ricostruire i fatti tralasciandone la
costante tendenziosità.
Di numero gran lunga inferiore rispetto alla memorialistica dei reduci ed
ampiamente deficitarie nei contenuti risultano essere le testimonianze
rilasciate dagli istruttori politici italiani e dai commissari politici sovietici.
Tra queste, ho potuto documentarmi su due opere di Paolo Robotti, Scelto
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dalla vita e La prova, sugli appunti del fuoriuscito Antonio Marchisio,
conservati presso l’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo e sul libro
L’uomo che “torturò” i prigionieri di guerra italiani del maggiore
sovietico Nikolaj Tereščenko.
Per quanto riguarda studi storici sul tema della prigionia, oltre all’ottimo
Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia, curato da Carlo
Vicentini e Paolo Resta, reduci dalla Russia e ricercatori presso la sezione
dell’UNIRR di Roma, ho potuto documentarmi su tre raccolte di saggi,
frutto di altrettanti convegni.
Il primo e più specifico sull’argomento da me preso in esame è il libro Gli
italiani sul fronte russo, curato da Michele Calandri e Piermario Bologna,
tratto dall’omonimo convegno organizzato dall’Istituto Storico della
Resistenza in Cuneo e provincia il 19-20-21 ottobre 1979. In esso si
ritrovano alcuni dei pochissimi saggi storici scritti finora sul giornale
“L’Alba”: Valore storico e documentale de “L’Alba- Per un’Italia libera
ed indipendente” di Diego Cadeddu, L’importanza del giornale “L’Alba”
per l’evoluzione democratica dei prigionieri italiani in URSS a seguito del
secondo conflitto mondiale di Giuseppe Lamberti e “L’Alba”. Giornale dei
prigionieri di guerra italiani in URSS di Fidia Gambetti.
Una seconda raccolta da cui ho potuto trarre ulteriori informazioni,
soprattutto attraverso il saggio di Aldo Mola, I prigionieri italiani
nell’URSS attraverso “L’Alba”. Evoluzione dalla “guerra del duce” alla
nuova Italia, è quella curata dallo storico Romain Rainero, I prigionieri
militari italiani durante la seconda guerra mondiale: aspetti e problemi
storici.
Di notevole interesse sono poi risultati due saggi: Quali scelte dei
prigionieri italiani in Russia (1943-1946)? di Michele Calandri e Primi
documenti di propaganda sovietica verso i militari italiani di Marina Rossi,
7
tratti da Le diverse prigionie dei militari italiani nella seconda guerra
mondiale, a cura di Luigi Tomassini.
Per concludere, di primario valore perché trattano di vicende ed esperienze
vissute in prima persona dall’autore, ma rivisitate con attento spirito
obiettivo, sono da considerare due saggi scritti dallo storico Valdo Zilli,
Fascisti e antifascisti in Russia. Il trattamento politico dei prigionieri di
guerra nell’URSS e Gli italiani prigionieri di guerra in URSS: vicende,
esperienze, testimonianze.
Un’analisi più approfondita sul tema dell’opera di propaganda e
rieducazione politica svolta sui prigionieri di guerra italiani in Unione
Sovietica avrebbe richiesto la consultazione dei preziosi documenti relativi
all’ARMIR, conservati presso l’ex Archivio centrale del PCUS, già
RCHIDNI ed oggi chiamato RGASPI
2
(Archivio russo statale di storia
socio- politica), a Mosca. Purtroppo, dopo pochi anni di pubblico accesso
seguiti al 1992, l’archivio è diventato nuovamente inaccessibile senza
speciali autorizzazioni rilasciate dalle autorità russe competenti. Le mie
ricerche si sono pertanto dovute basare sui documenti sovietici raccolti da
alcuni storici e ricercatori quali Viktor Zaslavsky ed Elena Aga Rossi nel
loro libro Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli
archivi di Mosca, Giordano Marchiani e Gianfranco Stella nel libro
Prigionieri italiani nei campi di Stalin, Vladimir Galicki nel libro Il
Tragico Don: l’odissea dei prigionieri italiani nei documenti russi, Marina
Rossi nel saggio già citato Primi documenti di propaganda sovietica verso i
militari italiani e Maria Teresa Giusti nel saggio La propaganda
antifascista tra i prigionieri di guerra italiani nell’URSS.
Si tratta di autori che hanno avuto la possibilità di accedere direttamente
alle fonti sovietiche dalle quali hanno tratto materiale di straordinaria
8
importanza, testimoniante l’attivissima opera di propaganda politica
praticata sistematicamente all’interno dei campi.
Essendomi precluso l’accesso agli archivi ex sovietici, ho dedicato
notevole attenzione ai documenti conservati presso l’archivio dell’Ufficio
Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (USSME), a Roma. In esso sono
raccolti tutti i documenti relativi all’8ª Armata italiana in Russia e di
particolare interesse sono risultate le relazioni, compilate soprattutto dagli
ufficiali all’atto del rimpatrio, solo fino a pochi anni fa strettamente segrete
ed inaccessibili al pubblico. Per il gran numero di materiale analizzato,
tutto di eccezionale valore storico e documentale per non essere ancora
stato debitamente studiato, sono stato costretto ad operare una necessaria ed
inevitabile selezione, nell’impossibilità di approfondire ogni aspetto in
questa sede di analisi.
Un altra fonte cui ho assegnato un valore rilevante, tanto da dedicarle un
intero capitolo, è “L’Alba”, il giornale dei prigionieri di guerra italiani in
Unione Sovietica, stampato a Mosca dal 1943 al 1946 per iniziativa di un
gruppo di fuoriusciti italiani e ora reperibile in un reprint dell’Istituto
Storico della Resistenza in Cuneo e Provincia dell’aprile 1975. Gli
argomenti contenuti nei suoi articoli, scritti non solo dai fuoriusciti
comunisti membri del comitato di redazione, ma anche dagli stessi
prigionieri, pur nella loro univocità e parzialità di vedute, mostrano una
chiara immagine del dibattito politico che si svolgeva all’interno dei campi.
In aggiunta alle fonti già citate, un contributo notevole per comprendere le
condizioni di vita all’interno dei lager e soprattutto il problema relativo alla
propaganda politica, mi è stato offerto dalla lettura degli Atti del processo
D’Onofrio. Attraverso l’esame delle deposizioni dei testi, ho potuto
2
RGASPI (Rossiskij Gosudarstvennyj Archiv Social’no- Političeskoj Istorii).
9
appurare, meglio che in qualsiasi altro documento da me consultato, il vero
clima esistente all’interno dei campi di prigionia sovietici.
Ho suddiviso il mio lavoro in quattro capitoli, preceduti da una breve
introduzione storica sulle origini e le motivazioni della “campagna
antibolscevica” voluta da Hitler e Mussolini e completati da un’appendice
capace di integrare ed approfondire le diverse tematiche prese in esame.
La ricerca si apre con la trattazione della tragica odissea vissuta dai
prigionieri di guerra italiani dalla cattura fino alla vita di tutti i giorni
all’interno dei campi di concentramento. In particolare mi sono soffermato
ad analizzare gli aspetti della loro struttura ed organizzazione, del lavoro,
dell’assistenza sanitaria, dell’assistenza morale e religiosa e quello del
diritto negato alla corrispondenza con le famiglie. Ritengo tale analisi di
fondamentale importanza nell’ottica generale della tesi, perché attraverso la
conoscenza delle pessime condizioni di vita all’interno dei lager, si
potranno comprendere meglio le reazioni dei prigionieri sottoposti ad una
sempre più pressante propaganda politica.
La tematica principale su cui è basato il mio lavoro, l’opera di propaganda
e rieducazione politica svolta all’interno dei campi, viene trattata
all’interno dei due capitoli centrali. In essi, dopo avere introdotto
brevemente la storia dell’insediamento dei fuoriusciti comunisti italiani in
Unione Sovietica, passo ad analizzare il loro ruolo attivo all’interno dei
lager nell’opera di “conversione democratica” dei prigionieri. Vengono
presi in considerazione i tre canali di diffusione attraverso i quali si svolse
l’opera di rieducazione politica: l’attività dei commissari politici sovietici e
degli istruttori politici italiani, le scuole di antifascismo e il giornale per i
prigionieri di guerra “L’Alba”. Ampio spazio viene dedicato alla
descrizione della lotta politica all’interno dei campi tra gli appartenenti ai
gruppi antifascisti ed il dissenso a tali gruppi. Tra l’una e l’altra schiera era
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inserita la maggioranza degli internati che si mantenne neutrale, in una
posizione di equidistanza tra i due schieramenti in lotta, preferendo non
prendere posizione fino al termine della prigionia.
Un intero capitolo si occupa invece del terzo canale di diffusione: il
giornale per i prigionieri di guerra italiani, “L’Alba”. In esso, dopo aver
esaminato la struttura e l’organizzazione del giornale, passo ad analizzare
come gli articoli apparsi sul foglio abbiano contribuito a rivelare la
maturazione antifascista dei prigionieri, a rappresentare la vita nei campi ed
infine a creare l’immagine dell’Unione Sovietica. La copiosità degli articoli
apparsi sui 144 numeri del giornale mi ha permesso di tracciare un quadro
più che mai esauriente sull’orientamento politico raggiunto da quei
prigionieri che in esso esprimevano le proprie opinioni e, soprattutto, sullo
spirito che li animava nel progetto di ricostruzione morale e materiale
dell’Italia una volta rimpatriati.
In ultima analisi ho focalizzato l’attenzione sulle ripercussioni che la
prigionia in Unione Sovietica ebbe sia sui reduci dalla stessa sia
sull’opinione pubblica italiana in generale, con un interesse particolare
dedicato alla sorte dei trattenuti. L’analisi delle tappe che costituirono il
travagliato rimpatrio dei militari italiani è stata condotta principalmente
sulle fonti provenienti dall’Ambasciata italiana a Mosca e dal Ministero
degli Affari esteri italiano, conservate presso l’archivio dell’Ufficio Storico
dello Stato Maggiore dell’Esercito, nonché sul libro di Roberto Morozzo
della Rocca, La politica estera italiana e l’Unione Sovietica (1944- 1948).
Viene inoltre preso in esame il crollo del mito sovietico conseguente al
rimpatrio. L’analisi di tale aspetto è stata sviluppata attraverso il ruolo
avuto dalla stampa di ogni tendenza politica nell’affrontare l’argomento dei
reduci dalla prigionia e culminato nel famoso processo D’Onofrio, che può
11
essere considerato una rappresentazione in chiave processuale di quella che
era stata la tragica prigionia nei lager sovietici.
La complessità e la delicatezza della tematica centrale del mio lavoro, per
le diverse strumentalizzazioni politiche che della prigionia dei soldati
italiani in Unione Sovietica sono state fatte nel corso degli anni, mi ha
indotto ad affrontare l’argomento cercando di mantenermi il più possibile
neutrale e distaccato dal materiale analizzato. L’essermi trovato a contatto
con documenti d’archivio riservati o strettamente segreti e solo fino a pochi
anni fa chiusi alla consultazione, mi ha suggerito di limitarmi a riportare
fatti, situazioni e messaggi in essi contenuti, senza giudicare l’argomento
degli stessi. Dopo i mesi di ricerca ed il gran numero di documenti
consultati, per la maggior parte dei casi inediti, sono giunto alla
conclusione che la prigionia dei soldati italiani in Unione Sovietica si può
caratterizzare attraverso un singolo fattore: l’unicità. Uniche sono state
infatti le condizioni in cui è avvenuta la cattura: in pieno inverno russo
(dicembre- gennaio 1942- 1943), in una situazione di assoluta incertezza
sullo sviluppo successivo della guerra e con tutti i soldati dell’Esercito
Rosso impegnati al fronte. Va inoltre considerato che l’Unione Sovietica,
almeno nel periodo iniziale, era quasi completamente sprovvista di lager
capaci di ospitare le migliaia di prigionieri italiani, tedeschi, rumeni,
ungheresi che vi affluivano in continuazione. In una tale situazione, il
“martirio” che dovettero subire i prigionieri italiani fino all’internamento
nei lager, nonchè le pessime condizioni di vita nei lager stessi per tutto il
primo periodo della prigionia, fu tragicamente obbligato per i prigionieri ed
impossibile da evitare da parte dei comandi sovietici. Nella seconda parte
della prigionia, la situazione dal punto di vista materiale all’interno dei
campi non fu dissimile da quella dei lager delle altre potenze belligeranti.
Tuttavia, è proprio in questa fase che intervenne il secondo fattore di
12
unicità che più contraddistinse la prigionia in Unione Sovietica: l’opera di
propaganda e rieducazione politica svolta dai vincitori sui vinti. Si è trattata
di un’operazione fortemente voluta e sostenuta con ogni mezzo da parte
delle autorità sovietiche, ma rivelatasi alla lunga controproducente. La
stragrande maggioranza dei reduci è infatti rimpatriata dalla prigionia con
sentimenti violentemente anticomunisti ed antisovietici, frutto non tanto
delle privazioni e sofferenze fisiche quanto della “pedagogia” politica
adottata all’interno dei lager. Vorrei concludere riportando le parole di un
reduce dalla drammatica prigionia in Unione Sovietica che meglio di ogni
altra spiegazione sono in grado di riassumere questa indelebile esperienza:
La violenza- e non tanto la violenza fisica quanto una raffinata e sottile
costrizione morale- può certo portare gli uomini ad agire e a parlare
diversamente dalle loro intenzioni, ma non potrà certo persuaderli e
convincerli, susciterà anzi nel loro intimo un costante senso di ribellione
che, prima o poi, troverà una manifestazione esteriore. Questo metodo
potrà assicurare un successo immediato, e apparirà quindi tatticamente
esatto, ma in un domani più o meno lontano porterà inevitabilmente ad un
risultato opposto da quello desiderato: non si calpesta impunemente quel
profondo senso di libertà- nel suo significato più intimo e spirituale- che è
proprio di ogni uomo.
3
Mi sento in dovere di ringraziare sentitamente tutte le persone che mi
hanno aiutato con preziosi consigli ed indicazioni nel condurre a
compimento questo lavoro di ricerca. Il mio ringraziamento si rivolge in
particolare alla sezione dell’UNIRR di Milano, ai dott. Melchiorre Piazza e
3
Zilli Valdo, Fascisti e antifascisti in Russia. Il trattamento politico dei prigionieri di guerra nell’URSS,
in “Il Ponte”, anno 6, n. 11, Novembre 1950, p. 1375.
13
Marco Razzini; alla sezione dell’UNIRR di Roma, ai dott. Carlo Vicentini
e Paolo Resta; all’Istituto Storico della Resistenza in Cuneo e Provincia, al
dott. Michele Calandri; all’Istituto lombardo per la storia della Resistenza e
dell’età contemporanea, al prof. Giorgio Rochat; all’Istituto regionale per la
storia del movimento di liberazione nel Friuli e Venezia- Giulia, alla
prof.ssa Marina Rossi; all’Associazione Italia- Russia di Milano ed al suo
ex presidente Corrado Crippa; all’Associazione Nazionale Reduci dalla
Prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione (ANRP) di
Roma; all’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (USSME).
14
INTRODUZIONE
Il governo italiano di tanto in tanto ci invia delle note in cui ci chiede di
sapere dove si siano cacciati i soldati italiani che hanno combattuto contro
di noi, che hanno invaso il nostro paese e che non sono tornati in Italia.
Forse non si sa cos’è la guerra? La guerra è come il fuoco; è facile
saltarci dentro, ma è difficile saltarne fuori, ti bruci. E così si sono bruciati
in questa guerra i soldati italiani.
1
La mancata firma di un patto di mutua assistenza e di triplice alleanza tra
Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica nel 1938 fu all’origine
dell’avvicinamento di quest’ultima alla Germania nazista, sfociato nella
stipula del patto Molotov- Ribbentrop di non aggressione dell’agosto 1939.
L’indifferenza e la leggerezza con le quali le potenze occidentali accolsero
tale accordo furono determinate dall’opinione diffusa che la Russia
bolscevica fosse particolarmente debole, dotata di forze armate
disorganizzate e prive di valide concezioni strategiche. Con queste parole,
il generale Grigorenko illustrava la debolezza sovietica in campo militare:
Impreparazione politica, strategica, psicologica dell’URSS alla guerra.
(…) Grandi purghe effettuate tra gli ufficiali nel 1937 che avevano
decapitato, decimato, disorganizzato l’esercito e la produzione, riducendo
a nulla lo sviluppo militare ed economico. (…) La tregua seguita al patto
Molotov- Ribbentrop del 1939 aveva permesso di procedere oltre nella
1
AUSSME, L’Italia nella relazione ufficiale sovietica, p. 159, dal resoconto del discorso di Nikita
Chruščev a Tirana, in “Pravda”, 27 maggio 1959, citato in Istorija Velikoj Otečestvennoj Voiny
Sovetskogo Sojuza 1941- 1945 (Storia della Grande Guerra Patriottica dell’URSS), vol. III, p. 151.
15
disorganizzazione dell’Armata Rossa e di alienarsi la simpatia di eventuali
alleati.
2
A distanza di soli due anni dal patto di non aggressione tra la Germania
nazista e l’Unione Sovietica, il 22 giugno 1941, Hitler decise di muovere
guerra al paese dei soviet, convinto che il regime bolscevico fosse odiato a
tal punto da crollare sotto i primi colpi della Wehrmacht, accompagnati
dall’insurrezione dell’intero popolo russo. Il dittatore nazista aveva infatti
previsto che in otto settimane la Russia di Stalin sarebbe stata cancellata
dalla carta geografica. I piani tedeschi contavano su due circostanze
favorevoli:
• L’instabilità del regime sovietico e l’odio represso del popolo russo;
• La convinzione che i russi non sarebbero stati attaccati in virtù
dell’accordo del 1939 tra i due stati.
3
Esistevano pertanto le premesse fondamentali per la vittoria della “crociata
antibolscevica” della coalizione hitleriana dal momento che:
Il morale dei nemici che fronteggiavano la Germania era splendidamente
basso, grazie alla grande crisi in occidente, ai processi di Mosca, mentre
la Gran Bretagna era del tutto impreparata alla guerra e l’esercito
americano era antiquato. (…) Via libera ad Hitler per estirpare il
bolscevismo dalla civiltà europea.
4
2
Cadeddu Diego, La storia non si ferma: incontro storico- autobiografico, IANUA, Roma, 1984, pp. 64-
65.
3
Ibidem, p. 65.
4
Ibidem.
16
Per Hitler, qualsiasi mezzo doveva ritenersi valido per il raggiungimento di
due obiettivi fondamentali:
• La conquista dei territori sovietici a scopo di colonizzazione.
• Lo sfruttamento delle materie prime e delle altre riserve economiche
nell’intento di servirsene per concludere la guerra ad ovest con
l’affermazione della sua egemonia su tutta l’Europa.
5
Con l’inizio dell’Operazione Barbarossa, nome in codice dell’attacco
tedesco all’Unione Sovietica, la Germania nazista iniziava una guerra
contraddistinta da uno speciale sviluppo di inumanità e crudeltà che passò
dalla spoliazione materiale esercitata nei paesi occupati, al saccheggio
pianificato, al lavoro coatto ed alla deportazione di lavoratori liberi. Un
ufficiale di stato maggiore tedesco, Wieder, riportava questa cruda
testimonianza:
All’inizio della campagna d’oriente due ordini disumani ci avevano
profondamente scossi: l’uno era l’ordine concernente i commissari
politici- di per sé contro la legge morale- che affermava la necessità di
annientare fisicamente tutti i rappresentanti del pensiero sovietico
dell’Armata Rossa; l’altro che revocava ogni azione penale per reati
commessi da appartenenti alla Wehrmacht ai danni di civili nei territori
occupati.
6
Ancora più agghiacciante appare questa descrizione che un testimone al
processo di Norimberga fece a proposito delle direttive emanate da Hitler:
5
Ibidem, p. 67.
6
Ibidem, p. 66.
17
La nostra guerra esclude qualsiasi atteggiamento cavalleresco; si tratta di
una lotta tra due ideologie, tra due concezioni razziali, si tratta di condurla
con rigore implacabile. (…) I sovietici debbono essere liquidati.
7
I militari italiani impegnati sul fronte russo al seguito della Wehrmacht non
furono favorevoli ad una caratterizzazione così inumana della guerra. Per
questo motivo, le relazioni con l’alleato nazista andarono via via
deteriorandosi al punto che i tedeschi non fecero mistero dei loro
sentimenti di ostilità, attraverso palesi manifestazioni di alterigia e di
disprezzo nei confronti di ufficiali e soldati italiani.
8
Secondo quanto
sosteneva il generale Messe, comandante dello CSIR
9
, nella sua Inchiesta
sui dispersi in Russia, il “massacro dell’avversario” era stato il motivo
chiave anche della propaganda sovietica:
Quasi subito, dopo lo scoppio delle ostilità sul fronte orientale, da parte
sovietica cominciò un’intensa propaganda sanguinaria che, rivolgendosi
alle truppe, ai partigiani ed alle popolazioni civili, si proponeva
d’installare l’odio implacabile fino a diventare bestiale, inumano contro il
nemico fascista. Un odio, come scrive efficacemente un nostro reduce,
“che non perdonerà al nemico nemmeno quando si arrende”. Non so se
questa direttiva fosse stata posta in relazione ai lamentati primi atti di
crudeltà compiuti dai tedeschi sui prigionieri e sulle popolazioni russe:
non credo sia facile stabilire mai quale dei contendenti abbia per primo
iniziato la nefasta ed orribile gara delle atrocità.
10
7
Ibidem, pp. 66-67.
8
Ibidem, p. 67.
9
CSIR (Corpo di Spedizione Italiano In Russia).