III
L’ingerenza pubblica dello Stato nelle attività economiche ha assunto,
dall’unità nazionale fino ad oggi, forme sempre più estese e penetranti,
manifestandosi in una vasta gamma di strumenti normativi e
amministrativi idonei ad incidere variamente nei processi produttivi.
2
Infatti, larga parte delle regole rilevanti per il processo economico,
vengono formalizzate in norme giuridiche e, tra queste, alcune assumono
inevitabilmente il rilievo di “costituzione economica” della società,
argomento che dopo riprenderemo.
Più precisamente, vorremmo porre l’attenzione su tutta una serie
norme che permettono la realizzazione di determinati princìpi scaturenti
dalla “costituzione politica”, poiché l’evoluzione del sistema economico
risulta, inevitabilmente, condizionato dal quadro istituzionale.
Appare evidente, pertanto, la necessaria presenza di un “soggetto”, di
un apparato istituzionale, che abbia il potere, benché delimitato, di
interpretare i “valori costituzionali” secondo lo spirito dei tempi e, se del
caso, di introdurre le modificazioni e le integrazioni ritenute necessarie.
2
Cfr. G. Pellegrini, “Diritto pubblico dell’economia”, a cura di M. Giusti, CEDAM, Padova, 1997.
IV
La coerenza dell’assetto istituzionale, vigente in un determinato
momento, dipende quindi dalla natura delle esigenze emergenti e dalla
capacità del “soggetto politico” di interpretarle.
In particolare, la stabilità dell’assetto istituzionale deriva proprio dalla
possibilità che i rischi derivanti dallo “sviluppo dell’economia” possano
essere assorbiti all’interno delle regole esistenti.
Infatti, generalmente, il quadro chiamato ad identificare le
“innovazioni” presenta un intreccio tra le politiche simboliche che
perseguono solo l’obiettivo di far evidenziare la volontà dello Stato di
“prendere a cuore il problema”, le politiche costitutive che mirano alla
trasformazione dell’organizzazione e/o delle procedure e le politiche
innovative nelle quali l’innovazione avviene attraverso un programma.
3
L’implementazione di tali politiche, avviene in un ambiente che le
condiziona pesantemente.
Infatti, una politica innovativa come potrebbe essere, ad esempio,
quella del commercio elettronico, nel momento in cui cerca di
realizzarsi deve necessariamente confrontarsi con problemi e strategie
3
Cfr. “Governi ed Economia”, a cura di V.Atripaldi, G.Garofalo, C.Gnesutta, P.F.Lotito, CEDAM,
Padova, 1998.
Vpreesistenti che, alla fine, potrebbero costituire un impedimento per
l’innovazione stessa.
La pratica da evitare, in processi del genere, dovrebbe essere quella di
non incentrare tali processi su politiche del “giorno per giorno”.
Infatti, con questi tipi di politiche, l’innovazione si svilupperebbe
attraverso una successione convulsa di decisioni che potrebbe non
portare a buoni risultati.
La linea da portare avanti con innovazioni del genere, dovrebbe essere
quella della pianificazione delle azioni da intraprendere, congiuntamente
ad una politica di programmazione a medio – lungo termine.
Importante, in tali casi, è il raggiungimento di una buona dose di
integrazione tra il complesso di norme al cui interno si attua il processo
economico ed il work in progress del processo economico stesso.
Lo studio dei rapporti tra diritto ed economia ha subito, nel corso degli
anni, un accelerazione, soprattutto sotto la spinta dei problemi posti dal
processo di integrazione economica europea.
Ci sono stati alcuni interventi sul tema dei rapporti tra diritto ed
economia che hanno offerto contributi significativi.
VI
E’ il caso di chi cerca di dimostrare come pensiero economico,
giuridico e politico procedano coordinatamente, cosicché al mutamento
proprio della scienza economica corrisponda un mutamento nello stesso
concetto di diritto.
Il diritto non è un fenomeno semplice ma è un fenomeno intellettuale
complesso; una sua precisa conoscenza è possibile solo se si riesce a
porlo in relazione col “tutto” e a collocarlo nella rete delle
interdipendenze nella quale è intessuto.
Ne consegue che non è corretto considerare diritto ed economia come
due entità contrapposte, in quanto il rapporto tra diritto ed economia vive
in un contesto storicamente e materialmente determinato, che
ineluttabilmente lo circoscrive.
4
E’ importante tenere presente ciò ai fini dello svolgimento di questo
lavoro, in quanto ricorrerà sempre in esso una marcata interazione e
correlazione tra norme giuridiche e problematiche economiche.
Sempre a livello di metodo, alcune riflessioni vanno fatte circa la già
citata “costituzione economica”, sulla cui corretta utilizzazione sono
state mosse alcune perplessità nel corso degli anni.
4
Cfr. G. Di Plinio, “Diritto pubblico dell’economia”, Giuffrè Editore, Milano, 1998.
VII
Cosa si intende per costituzione economica?
Si vuole indicare quel nucleo di norme e princìpi che opera una scelta
dei modelli economici, i quali consentono la realizzazione dei “valori”
determinati dalla “costituzione politica”.
Con la nozione di costituzione economica non si vuole, quindi,
riconoscere autonomia ad un settore di norme dello Stato, ma solo
individuare quali sono i possibili strumenti economici scelti dal potere
politico per soddisfare la gerarchia degli obiettivi da perseguire.
Il progresso della tecnologia e lo straordinario sviluppo che ha
caratterizzato, negli ultimi anni, il settore delle telecomunicazioni e
dell’informatica hanno influenzato in modo significativo ogni aspetto
della vita quotidiana, modificando abitudini ed usi ormai consolidati.
In particolare, il connubio tra tecnologie informatiche e
telecomunicazioni ha offerto soluzioni e possibilità tecniche in grado di
soddisfare ampiamente le mutate esigenze della realtà socio – economica
quali la rapidità e l’automatismo delle operazioni, la riduzione dei costi,
l’abbattimento delle distanze geografiche e la comunicazione tra un
numero crescente di soggetti, solo per ricordare alcuni vantaggi forniti.
VIII
Questa “rivoluzione”, che, come è noto, interessa anche la teoria della
scienza giuridica ed il comportamento concreto degli operatori del
diritto, ha determinato, tra l’altro, sensibili trasformazioni dei rapporti di
natura commerciale e cambiamenti fondamentali nei modi di concludere
ed eseguire transazioni.
5
Si è aperta, così, la strada al fenomeno del commercio
elettronico (e-commerce), cui è possibile ricondurre, anzitutto, lo
scambio di dati e di informazioni commerciali tra persone fisiche per
mezzo di computer (come nel caso della c.d. posta elettronica o e-mail),
nonché il trasferimento automatico di messaggi strutturati tra computer,
senza la necessità di un intervento umano per l’esecuzione delle singole
operazioni di trasmissione.
6
Le nuove tecnologie informatiche, ultimamente, hanno trovato
grande applicazione nei numerosi ambiti che contraddistinguono la
nostra realtà socio – economica.
5
Cfr. E. Giannantonio, “Manuale di informatica giuridica”, CEDAM, Padova, 1997.
6
Cfr. Rivista “Diritto del commercio internazionale, Pratica internazionale e diritto interno”, Giuffrè
Editore, aprile – giugno, 2000.
IX
Si pensi, ad esempio, all’applicazione delle tecnologie e degli
strumenti di Internet al rapporto tra cittadino e Governo, con l’obiettivo
di creare un canale diretto tra cittadino ed istituzioni (e-government).
Oppure ai recenti modelli di approvvigionamento di beni e servizi,
attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie informatiche, adottati dalle
imprese private e dalla Pubblica Amministrazione (e-procurement).
Partendo da una vasta panoramica economico – legislativa sul
commercio in generale, questa tesi si vuole proporre di apportare un
valido contributo, sia a livello nazionale che comunitario, circa la
regolamentazione di questo sconfinato mondo in evoluzione.
Capitolo I
Disciplina del commercio
2
1.1 Dalla Legge 426/71 al D.lgs. 114/98
L’attività commerciale, oltre che costituire oggetto di una
preponderante regolamentazione a livello privatistico, presenta rilevanza
giuridica sotto molti punti di vista che toccano direttamente il diritto
pubblico dell’economia.
Si pensi, in proposito, all’apertura di un punto di vendita al dettaglio
in una via centrale di una città ed agli effetti che la nuova attività
potrebbe produrre, non soltanto sulla preesistente rete distributiva, ma
pure in altri particolari settori, funzionalmente connessi con quello
commerciale, come il settore urbanistico – edilizio o come quello
relativo alla viabilità: la valutazione dell’impatto di tale iniziativa sul
territorio spetta, nel vigente sistema normativo italiano, all’autorità
amministrativa.
1
La disciplina del commercio, dall’800 fino ad oggi, ha subito una
continua evoluzione, sia sul piano privatistico che su quello
pubblicistico.
Il primo codice di commercio italiano risale al 1865 (Legge 25 giugno
1865), poi sostituito da quello del 1882.
1
Cfr. A. Calabrese,”La disciplina del commercio”, in “Appunti per un manuale di diritto pubblico
dell’economia”, a cura di P. Jaricci, Edizioni Kappa, Roma, 1996.
3
Gravi lacune di questi testi, erano la completa carenza di definizioni
circa fattispecie importanti come “attività commerciale” e “atto di
commercio”.
Vediamo, brevemente, più da vicino questi due antichi codici.
Il codice del 1865, abbandonava l’originaria impostazione soggettiva
(il diritto dei mercanti) ed iniziava a delineare un diritto speciale,
fortemente riferito non più ad una determinata categoria di soggetti,
bensì ad una specifica categoria di atti: gli atti di commercio.
Il diritto commerciale diveniva, così, il diritto degli atti di commercio
(cosiddetto sistema oggettivo) e l’acquisto della qualità di commerciante
era conseguenza del compimento abituale di atti di commercio.
2
Il codice del 1882, invece, era fondato, oltre che sull’art. 1 delineante
il sistema autonomo delle fonti, su tre altre norme in esso contenute: gli
art. 3 e 4 disciplinanti gli atti di commercio e l’art. 8 contenente la
definizione di commerciante.
In ogni modo, all’indomani della pubblicazione del codice del 1882, si
aprì forte il dibattito circa l’autonomia del diritto commerciale rispetto al
diritto civile e sull’opportunità o meno di eliminare la diarchia
2
Cfr. G.F. Campobasso, “Diritto commerciale”, UTET, Torino, 1997.
4
codicistica, attraverso la confluenza della materia commerciale nel
codice civile.
Ai primi del Novecento, si pose il problema se si dovesse conservare
un’autonoma disciplina dei rapporti commerciali.
Questo problema fu, inizialmente, risolto nel senso di conservare una
disciplina separata, come era già avvenuto nei progetti di codice di
commercio del 1923 (progetto Vivante) e del 1925 (progetto della
Commissione Reale).
La “svolta” si ebbe con la pubblicazione, nel 1942, del codice civile,
attualmente in vigore, nel quale confluì l’intera materia commerciale.
Al di là dei motivi che consigliarono l’unificazione dei codici, va
sottolineato che la svolta decisiva tra il codice di commercio del 1882 e
il codice civile del 1942 si compendiò:
a) nel passaggio dal sistema dell’atto di commercio al sistema
dell’attività d’impresa;
b) nel passaggio dalla figura del commerciante a quella
dell’imprenditore.
3
3
Cfr. “Manuale di Diritto commerciale”, a cura di V. Buonocore, Giappichelli Editore, Torino, 1999.
5
E’ soltanto con il RDL 2174/1926 che il Legislatore si immette, per la
prima volta, in una prospettiva di attenzione nei confronti dei complessi
problemi che pone il settore commerciale, realizzando un tentativo di
presenza, di controllo e di razionalizzazione.
4
Il RDL del 1926, infatti, attraverso l’attribuzione di una specifica
responsabilità amministrativa ai comuni chiamati a rilasciare
l’autorizzazione all’esercizio del commercio, ha segnato il passaggio
dall’originario sistema distributivo c.d. libero a quello c.d. vincolato, che
ha resistito in Italia per quasi un cinquantennio, fino all’entrata in vigore
della Legge n. 426 del 1971.
Il modello introdotto dal RDL del 1926 veniva, però, a scontrarsi, da
un lato con i principi sanciti dalla Carta Costituzionale, e dall’altro con i
profondi mutamenti politici, economici e sociali che interessavano
l’Italia a partire dal dopoguerra.
L’entrata in vigore della Costituzione sollevò, invero, il problema
della persistente validità del sistema delle autorizzazioni al commercio, a
fronte dell’espresso riconoscimento, previsto nell’art. 41, della libertà di
iniziativa economica privata.
4
Cfr. “Dizionario di Diritto pubblico dell’economia”, a cura di E. Picozza, Maggioli, Rimini, 1998.
6
La giurisprudenza amministrativa, comunque, ha sempre condiviso
un’interpretazione sostanzialmente liberistica della norma costituzionale,
ritenendo che il rilascio della licenza dovesse costituire in ogni caso la
“regola generale” ed il diniego, opportunamente motivato, “l’eccezione”.
Con la L. 426/71 si è tentato essenzialmente di apportare dei correttivi
a quel sistema distributivo che, specie con la crisi economica della fine
degli anni sessanta, aveva manifestato in modo chiaro i propri limiti.
Infatti, il commercio, alla fine degli anni ’60 ed all’inizio del decennio
successivo, si trovava nella difficile condizione di una struttura pletorica,
entro la quale gli stessi operatori cominciavano ad intuire che
un’ulteriore espansione dell’offerta di servizi distributivi, il diffondersi
delle forme moderne di distribuzione e l’aumento dei prezzi all’ingrosso
avrebbero deteriorato le proprie condizioni.
5
Gli obiettivi fondamentali che la L. 426/71 si poneva erano
essenzialmente due: a) una riduzione dell’eccesso di offerta di servizi
commerciali tradizionali b) un graduale avvio del processo di
sostituzione del tradizionale con il moderno; principi che, perlomeno nel
primo decennio di vita, non ebbero una grande realizzazione.
5
Cfr. G. Cuomo, “La disciplina del commercio in Italia e i suoi effetti reali”, in “Imprese commerciali
e sistema distributivo”, a cura di C. Baccarani, Giappichelli Editore, Torino, 1997.
7
La normativa del 1971, individuava nella pianificazione la sede più
opportuna per l’effettuazione di quelle scelte prima demandate
all’amministrazione locale.
Il rilascio della licenza veniva, in tal modo, definitivamente a perdere
quel carattere di episodicità che fino ad allora l’aveva contraddistinto,
per divenire momento di attuazione delle stessa programmazione
commerciale.
Una ferma presa di posizione contro il sostanziale fallimento della
riforma introdotta dalla L. 426/71, la troviamo nel Rapporto presentato
nel 1993 al Governo dall’Autorità garante della concorrenza e del
mercato, dove venivano analizzate e denunciate le incisive restrizioni
subite dalla concorrenza nel settore della distribuzione commerciale.
Questo documento contribuì a far avanzare sempre più un
orientamento favorevole all’avvio di una politica di liberalizzazione
graduale, volta ad accrescere la competitività tra gli operatori; in
sostanza una riconsiderazione del ruolo dell’intervento pubblico limitato
a regolare l’ordinato funzionamento del mercato, anziché sostituirsi alle
libere scelte del medesimo.
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6
G. Pellegrini, “Diritto pubblico dell’economia”, a cura di M. Giusti, CEDAM, Padova, 1997.