5
seconda; basti vedere in tal senso l’esperienza degli Stati Uniti, dove i
pubblici poteri hanno adottato prevalentemente politiche regolative, con la
creazione d’apposite autorità indipendenti, preposte al controllo sulle
attività imprenditoriali private a differenza dell’Europa dove è stato
preferito l’intervento pubblico diretto nell’economia. Ciò ha anche portato a
diverse situazioni: mentre negli Stati Uniti le attività di “deregulation”
hanno portato ad ottenere una maggiore efficienza economica del mercato
attraverso il mantenimento e la promozione della concorrenza e, quindi,
l’eliminazione di barriere che limitano la possibilità d’ingresso di nuove
imprese in un dato settore economico, in Europa si è avuta l’affermazione
di politiche di privatizzazione e quindi il trasferimento di imprese dalla
mano pubblica a quella privata. Comunque è importante annotare che una
politica di privatizzazione non può essere disgiunta da una di
liberalizzazione; per consentire l’ingresso nel mercato di nuovi soggetti e da
una d’interventi regolativi, per preservare e stimolare le condizioni di
competitività del mercato e per garantire il soddisfacimento di determinate
esigenze equitative.
C’è infine un ulteriore importante profilo di carattere generale da
considerare nella definizione del quadro concettuale di riferimento della
privatizzazione dell’impresa pubblica: è quello della posizione dell’impresa
rispetto al mercato. Questa consiste nella verifica del tipo d’assunzione
imprenditoriale da parte dello Stato, sia essa “singolare” o in “regime di
riserva”; le imprese in assunzione singolare si caratterizzano per il fatto di
svolgere un’attività economica in regime concorrenziale su di un piano di
parità con gli altri imprenditori privati mentre quella con riserva, originaria
o successiva, comporta comunque l’esclusione di altre imprese dal settore,
in particolare tale formula discrimina l’impresa S.p.A. di diritto comune,
postulando, al contempo, una corrispondenza tra impresa pubblica di diritto
speciale e assunzioni con riserva. Nell’esperienza italiana, storicamente, il
sistema delle partecipazioni statali ha presentato le caratteristiche essenziali
dell’assunzione singolare, per questo, tali imprese, detenute da holding di
6
settore, hanno operato in concorrenza col settore privato all’interno dei
mercati nazionale e comunitario.
Ponendo l’attenzione sulla privatizzazione formale, è utile ricordare
quali sono stati i primi passi normativi al riguardo: il 5 dicembre 1991, il
governo presieduto da Giuliano Amato emana un decreto legge, il numero
386, titolato “Trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione
delle partecipazioni statali ed alienazione di beni patrimoniali suscettibili di
gestione economica”, successivamente convertito nella legge 29 gennaio
1992, numero 35, nel quale va ravvisato il primo testo normativo dedicato
al problema nel nostro ordinamento.
Nell’articolo uno è fissato il principio della privatizzazione formale,
perché l’espressione usata (“Gli enti di gestione delle partecipazioni statali
e gli altri enti pubblici economici possono essere trasformati in società per
azioni”) non chiarisce sufficientemente se la trasformazione in questione sia
oggetto di una facoltà, e non necessariamente di un obbligo; e, scelta come
sembrava logico la seconda alternativa, su chi gravasse tale obbligo, e come
si dovesse intendere il principio della privatizzazione formale attuata
attraverso la “trasformazione”.
L’utilizzo di questo concetto è stato molto criticato in dottrina
adducendo a sostegno della tesi l’inammissibilità, in linea di principio, della
costituzione di società per azioni attraverso un atto unilaterale; e soprattutto
dell’illegittimità del ricorso all’istituto della trasformazione relativamente
ad atti che hanno la “struttura tipica delle fondazioni”, essendo quindi “privi
di soci”
1
.
L’osservazione è apparsa superabile in conformità a diversi
argomenti
2
, tra cui bisogna ricordare la sentenza della Corte Costituzionale
5 febbraio 1992, che osserva che: “La disciplina posta dall’art. 2247 c.c.
risulta significatamente modificata, nel senso di un’evoluzione del sistema
1
SCHLESINGER, P., “La legge sulla privatizzazione degli enti pubblici economici”, pg. 127 ss.,
1992;
2
JAEGER, P. G., “Problemi attuali delle privatizzazioni in Italia”, pg. 989 ss., in part. pg. 991,
1993;
7
verso il superamento del limite del socio unico, sia dall’adozione della
direttiva del Consiglio della Comunità Economica Europea 21 dicembre
1989, n. 89/667, sia dall’entrata in vigore della legge 30 luglio 1990, n. 218
e del d. leg. 20 novembre 1990, n. 356”. La direttiva cui la Corte allude è la
dodicesima in materia societaria, che consente la costituzione di società a
responsabilità limitata (ma gli Stati membri possono adottare la medesima
disciplina per le società per azioni) da parte di un unico socio. Si può anche
aggiungere che nell’istituto della scissione si assiste alla costituzione di
società di capitali per atto unilaterale e, volendo essere capziosi, è possibile
affermare che la “trasformazione” di cui si parla in questo contesto, non
coincide esattamente con la definizione dell’art. 2498 c.c., che riguarda solo
il cambiamento di tipo nell’ambito delle società (lucrative). Ma va aggiunto
che l’espressione non può essere considerata impropria, perché conserva il
carattere essenziale dell’istituto, che consiste nel mutamento della forma
giuridica di un istituto, senza che esso comporti il trasferimento di un
patrimonio da un soggetto all’altro.
Riguardo invece la privatizzazione sostanziale, questa prende avvio
con una delibera del Consiglio dei ministri del 30 dicembre 1992, nella
quale “si conferma la decisione di dimettere l’intera partecipazione detenuta
da IRI nel Credito Italiano e di quella Eni nel Nuovo Pignone, e si delibera
la dismissione da parte di Eni delle società controllate AGIP e SNAM”.
A tale delibera, è seguita, da parte del CIPE (Comitato
Interministeriale per la Programmazione Economica), l’emanazione di
un’importante direttiva (pubblicata in G.U. 4 febbraio 1993, n. 28), che
conteneva un’indicazione analitica degli orientamenti fondamentali del
programma di dismissioni (“Direttive concernenti le modalità e le
procedure di cessione delle partecipazioni dello Stato nelle società per
azioni derivanti dalla trasformazione degli enti pubblici economici e delle
aziende autonome”). Questi provvedimenti erano stati preceduti da due
notevoli documenti, emanati in applicazione della legge 8 agosto 1992, n.
359: il “Libro Verde sulle partecipazioni dello Stato”, a cura della
8
Direzione Generale del Ministero del Tesoro, datato, genericamente,
novembre 1992, e il “Programma di riordino di IRI, Eni, ENEL, IMI, BNL
e INA”, presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri Giuliano
Amato, e trasmesso alla Presidenza della Camera dei deputati il 16
novembre 1992.
Si trovano qui indicati le varie prospettive e gli strumenti da adottare
per realizzare il programma, ivi compresa l’istituzione di un Comitato per le
privatizzazioni, creato poi con Direttiva del Presidente del Consiglio dei
Ministri del 15 ottobre 1993 (“Comitato permanente di consulenza globale
e di garanzia”, presieduto dal direttore centrale del Tesoro e composto da
quattro esperti), al quale peraltro sono stati attribuiti poteri minori di quelli
inizialmente proposti, e propri di organismi in altri paesi.
Il vero e proprio dibattito in sede parlamentare comincia con
l’emanazione del d.l. 27 settembre 1993, n. 389 (pubblicato in G.U., 2
ottobre 1993, n. 232) che reca il titolo “Norme per l’accelerazione delle
procedure di dismissione delle partecipazioni dello Stato e degli enti
pubblici in società per azioni”. Si tratta del primo di una serie di decreti: 28
novembre 1993, n. 486; 31 gennaio 1994, n. 75; 31 marzo 1994, n. 216;
tutti decaduti per mancanza di conversione nel termine di cui all’art. 77, 3°
co., Cost.
Finalmente l’ultima reiterazione del decreto (31 maggio 1994, n.
332) si è conclusa con la sua conversione, attraverso la l. 30 luglio 1994, n.
474 (pubblicata in G.U. il medesimo giorno).
Per quanto riguarda il controllo residuo dello Stato sugli enti
privatizzati, di fondamentale importanza appare comprendere se la
privatizzazione sia stata concepita e programmata come semplice
mutamento della forma giuridica e, quindi, come mera privatizzazione
formale o, in altre parole, come mutamento dell’assetto proprietario, cioè
come vera e propria dismissione.
La valutazione della opportunità o meno che permanga il controllo
del giudice contabile sulle nuove società per azioni derivanti dall’avvenuta
9
trasformazione degli enti economici potrebbe essere, infatti, diversamente
influenzata a seconda che si consideri tale mutamento della veste giuridica
come obiettivo in sé, sia pure di carattere temporaneo, ovvero, al contrario,
come semplice passaggio obbligato per procedere in un momento
immediatamente successivo alla privatizzazione vera e propria, cioè al
mutamento dell’assetto proprietario dell’impresa.
Nel primo caso, infatti, l’utilizzazione dello strumento “privatistico”
rappresentato dalle società per azioni, lungi dall’essere preordinata alla
cessione del relativo pacchetto azionario, è espressione solo dell’avvertita e
giusta esigenza di adeguare l’intervento dello Stato in economia a parametri
e modelli di efficienza e competitività: si tratta cioè di un accorgimento
adottato per adeguare alle regole di un mercato che si vuole sempre più
concorrenziale e competitivo la gestione di imprese che conservano, pur
tuttavia, in quanto destinate ad essere interamente patrimonializzate e
gestite dallo Stato, connotazioni pubblicistiche evidenti e difficilmente
contestabili. Se così fosse, sarebbe opportuno che non venisse meno il
controllo del giudice contabile, considerato che la mera trasformazione
della forma giuridica non esclude le esigenze di tutela degli interessi
pubblici sottostanti il precedente assetto: esigenze da ritenere ancora
sussistenti pur a seguito di una privatizzazione meramente formale.
Nel caso invece della privatizzazione sostanziale, rimane da
esaminare l’opportunità o meno che persista il controllo della Corte dei
conti. In questo caso, la permanenza dell’attività sindacatoria del giudice
contabile apparirebbe, in primo luogo, poco coerente con la decisione di
procedere in tempi brevi ad una dismissione delle nuove società per azioni
e, quindi, difficilmente compatibile con la volontà di cedere a soggetti
privati il controllo sulle imprese; d’altra parte, quel persistente controllo
della Corte dei conti, soprattutto in quanto finalizzato a creare le condizioni
per un efficace espletamento ad opera del Parlamento delle funzioni di
vigilanza ed indirizzo di propria competenza, potrebbe costituire un
ostacolo notevole al raggiungimento dell’obiettivo prefissato, quello, cioè,
10
della privatizzazione sostanziale, potendo comportare un effetto, per così
dire, dissuasivo nei confronti dei potenziali investitori.
In questa seconda ipotesi, pertanto, l’interruzione del controllo del
giudice contabile sembrerebbe più funzionale alla realizzazione delle
finalità ultime perseguite attraverso il processo di privatizzazione.
Riassumendo si può sostenere che la permanenza del controllo del
giudice contabile sulle società per azioni derivanti dall’avvenuta
trasformazione degli enti economici può e deve considerarsi opportuna nel
caso in cui il mutamento della veste giuridica sia concepito come obiettivo
in sé, sia pure parziale e temporaneo, del processo di privatizzazione, non
anche quando tale modificazione della forma giuridica preluda ad
un’immediata dismissione degli enti così come trasformati.
11
1.2 Profili costituzionali e comunitari di privatizzazione.
Riguardo i primi, bisogna fare riferimento alle norme del titolo III della
parte II della Costituzione, dedicato ai rapporti economici che sono il
risultato del compromesso tra le posizioni dei rappresentanti delle tre
distinte aree politico-ideologiche presenti nel dibattito della Costituente, la
sinistra marxista, la cattolica e la liberale
1
.
In realtà, l’accettazione di un modello di sistema economico che
costituisse una soluzione non del tutto corrispondente alla rispettiva
collocazione ideologico e politica si era già avuta, anche se parzialmente,
prima ancora del confronto in Assemblea costituente, ad opera sia degli
esponenti della sinistra marxista che di quelli dell’area liberale, e ciò sulla
base di una consapevole considerazione della situazione reale di quel
momento storico, sul versante tanto interno quanto internazionale
2
. Deve
subito osservarsi che il dibattito sviluppatosi alla Costituente, proprio per
effetto dell’atteggiamento di non rigidità delle sinistre, non poteva
riguardare il riconoscimento dell’iniziativa economica privata e di un tipo
di organizzazione economica da questa caratterizzato
3
, bensì la
determinazione della quantità, qualità e finalità dei limiti da apporre al suo
esercizio: una posizione di indubbia centralità assunse, al riguardo, la
1
TOGLIATTI, P., al convegno economico tenuto dal suo partito il 21/23 agosto 1945, sostenne
l’irrealizzabilità, nella particolare realtà storica italiana, di un piano economico nazionale, quale
condizione per dare un grande sviluppo all’attività ricostruttiva, e la necessità di fare appello, nel
processo di transizione dal regime reazionario ad uno democratico, tanto in politica, quanto in
economia, all’iniziativa privata: a questa, affermò il leader comunista, “dobbiamo lasciare un
vasto campo tanto nella produzione quanto nella distribuzione e nello scambio”, atti, pg. 271,
1945;
2
BERETTA, S., “La Costituzione economica”: genesi e principi”, pg. 385 ss., 1988 ; EINAUDI,
L., “Lo scrittoio del Presidente: 1948-1955”, pg. 9, 1956, BASSO, L., in “Atti dell’Assemblea
Costituente”, 1, pg. 203/204, 1974;
3
Al riguardo ROMAGNOLI, U., “Il sistema economico nella Costituzione”, pg. 752, 1985;
12
questione della possibilità di sottoporre l’attività economica privata ad una
pubblica “pianificazione” che la orientasse, eliminando o attenuando il
rischio di anarchia capitalistica. È proprio nel dibattito concernente la
“pianificazione” che emerse l’articolato atteggiamento dei cattolici rispetto
al mercato, inteso come tipo o sistema di organizzazione economica, ossia,
in primo luogo, dalla libertà di accedere al e recedere dal mercato
medesimo e sul punto i cattolici non mostrarono, soprattutto nella prima
fase di gestazione dell’art. 41, un particolare interesse nei confronti del
mercato, non essendo propensi a ravvisare in esso un insostituibile “motore
di sviluppo e di efficienza economica”
4
, così non discostandosi più di tanto,
sotto questo profilo, dall’atteggiamento e dall’orientamento delle sinistre. A
questo disinteresse nei confronti del mercato, si accompagnava, tuttavia,
sempre da parte cattolica, la contrapposta esigenza di difendere il mercato
stesso, non dettata, tuttavia, dalla convinzione, di stampo liberale, della
indefettibilità, in termini economici, dei meccanismi propri di una struttura
concorrenziale e dalla fiducia nella naturale efficienza di un sistema
economico fondato sulla libertà di iniziativa, bensì dalla avvertita
opportunità politica di precostituire, costituzionalizzandolo, un ostacolo al
rischio di una egemonia statale nell’economia, temuta e avversata non per
motivazioni di ordine economico, bensì per ragioni di carattere politico: si
temeva cioè che tal egemonia avrebbe potuto comportare la violazione della
libertà politiche e soprattutto il pregiudizio di quel pluralismo sociale visto
come uno dei tratti caratterizzanti il volto della Repubblica. Dalle
disposizioni costituzionali si desume la caratterizzazione di “Stato sociale”,
inteso come tipo di ordinamento che, pur derivando da quello liberale, se ne
differenzia per alcuni caratteri fondamentali, primo fra tutti la
costituzionalizzazione o, comunque, il riconoscimento dei c.d. diritti sociali,
aventi per oggetto e contenuto determinate prestazioni sociali dovute dallo
4
AMATO, G., “Il mercato nella Costituzione”, pg. 7 ss, 1992;
13
Stato
5
. L’obiettivo del Costituente, in realtà, appare essere non
l’eguaglianza di fatto, intesa come eguaglianza economica, ossia dei beni
materiali, bensì la costante rimozione dei limiti “di fatto” che si
frappongono alla realizzazione di quella forma meno intensa costituita dalla
eguaglianza delle opportunità, concepita quale valore strumentale rispetto al
fine ultimo rappresentato dal libero, pieno e soprattutto spontaneo sviluppo
della persona umana
6
. La lettura di tale articolo consente di individuare
nella iniziativa economica privata, intesa nel senso ampio più volte messo
in risalto, non un disvalore da limitare o sopprimere nell’ipotesi di sua
incompatibilità con quelli che sono reputati i veri valori costituzionalmente
rilevanti, compendiati nelle formule “utilità sociale” o “fini sociali”, ma, al
contrario, un valore che il Costituente ha inteso consacrare, garantendo, con
la dichiarazione di libertà posta in apertura dell’articolo 41, non solo la
libertà di presenza del privato nel sistema economico, ma anche il
riconoscimento di un margine, sia pure di difficile determinazione, di
autonomia nell’organizzazione e nell’assunzione delle scelte
imprenditoriali: quel margine senza il quale la dichiarazione di libertà
finirebbe per essere violata
7
.
C’è da riconoscere che nei rapporti tra lo Stato e il mercato vige un
principio di “sussidiarietà”
8
nel senso che lo Stato incide sulle politiche di
privatizzazione, condizionandone e incentivandone l’avvio, ma anche e
soprattutto con l’intento di individuare i parametri normativi dai quali è
consentito desumerne la vigenza e il campo di operatività. C’è anche da
ricordare che il suddetto principio è stato riconosciuto, sia pure con
5
Confronta BALDASSARRE, A., voce “Diritti sociali”, pg. 7, 1989 e BALDASSARRE, A.,
CERVATI, A., (a cura di), “Critica dello Stato sociale”, pg. 125, 1982;
6
Confronta GIANFORMAGGIO, L.,, “Eguaglianza formale e sostanziale: il grande equivoco”,
pg. 1961 ss., in particolare pg. 1964, nota 4, 1996;
7
In tal senso MINERVINI, G., “Concorrenza e consorzi”, pg. 7 ss., 1965;
8
PACE, A., “Problematica delle libertà costituzionali”, pg. 462/463, 1992;
14
esclusivo riferimento alla politica ambientale, nell’Atto Unico, nel quale si
stabilisce che “la Comunità agisce… nella misura in cui gli obiettivi…
possano essere meglio realizzati a livello comunitario che al livello dei
singoli Stati membri” (Art. 130 R n. 4), per poi essere esplicitamente
consacrato nel Trattato sull’Unione Europea, il cui art. 3 B dispone che la
Comunità agisce nei limiti delle funzioni conferite e dei fini assegnati dal
Trattato stesso e, nelle materie in cui non ha competenza esclusiva,
interviene soltanto se e nella misura in cui le finalità dell’azione prevista
non possano essere sufficientemente realizzate dagli Stati membri e possano
essere, dunque, meglio realizzate a livello comunitario in considerazione
delle dimensioni e degli effetti dell’azione da compiere.
Il diritto comunitario ha poi contribuito in maniera determinante alla
maturazione dell’esigenza di restituire al mercato e alle sue regole le
imprese e gli enti economici controllati dai pubblici poteri, producendo un
effetto propulsivo dell’avvio di ampie politiche di privatizzazioni, anche di
tipo materiale.
Il punto di partenza fondamentale è l’art. 222 del Trattato istitutivo
della Comunità Economica Europea
9
, a norma del quale l’ordinamento
comunitario “lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente
negli Stati membri”
10
: tale disposizione, dalla quale traspare un
atteggiamento di sostanziale neutralità del Trattato per il regime di proprietà
aziendale all’interno dei singoli Stati, consente di per sé sola di escludere
che dalla normativa comunitaria possa espressamente derivare un qualche
vincolo diretto per i singoli ordinamenti nazionali ad elaborare ed attuare
9
Firmato a Roma il 25 marzo 1957 e ratificato dall’Italia con legge 14 ottobre 1957, n. 1203, in
suppl. ord. alla G.U. 23 dicembre, n. 317, in vigore dal primo gennaio 1958;
10
Confronta sul citato articolo 222, MOTZO, G., “Art. 222”, pg. 1620 ss., 1965;
15
programmi di privatizzazione materiale di imprese in mano pubblica,
ovvero, per converso, piani di nazionalizzazione
11
.
Di fondamentale importanza appare poi il raccordo tra la norma di
cui al citato articolo 222 e quella di cui all’articolo 90 del Trattato CE che,
dopo aver vietato agli Stati membri di introdurre o mantenere in favore
delle imprese pubbliche o di quelle cui gli stessi Stati riconoscono diritti
speciali od esclusivi forme di privilegio non compatibili con le norme del
Trattato, in specie quelle previste in tema di concorrenza, consente che
possano essere previste eccezioni a favore delle imprese preposte alla
gestione di “servizi d’interesse economico generale o aventi carattere di
monopolio fiscale”, onde evitare che la rigorosa applicazione delle regole
comunitarie “osti all’adempimento… della specifica missione loro
affidata”
12
. Quindi, anche se è prevista e tutelata, all’interno dei singoli
Stati membri, l’istituzione e il mantenimento di imprese pubbliche, al
contempo viene reso esplicito il principio di parità tra imprese private e
pubbliche.
L’ordinamento comunitario, pur ammettendo la legittimità
dell’assunzione da parte dello Stato e, più in generale, della mano pubblica
del ruolo dell’imprenditore, dall’altro, interviene ad evitare che il rischio
connesso alla presenza sul mercato concorrenziale di imprese controllate
dai pubblici poteri possa riverbarsi in effettivo pregiudizio a causa della
sovrapposizione dei due ruoli di proprietario-imprenditore e di pubblico
potere-autorità che, in tali casi, il soggetto pubblico finisce col rivestire:
orbene, la disciplina comunitaria in tema di aiuti, ed in particolare gli
orientamenti assunti dalla Commissione e le pronunce della stessa Corte di
Giustizia, sono sostanzialmente finalizzati ad evitare che lo Stato, assunta la
veste di diretto operatore economico, anziché limitarsi, nella sua legittima
11
Confronta in tal senso MOAVERO MILANESI E., voce “Privatizzazioni. Profili comunitari”,
pg. 765, 1995;
12
Confronta MOAVERO MILANESI, E., voce “Privatizzazioni. Profili comunitari”, 4, cit.;
16
qualità di proprietario e gestore, ad un fisiologico finanziamento
dell’impresa pubblica, ponga in essere, questa volta in veste di autorità e nel
perseguimento, pur di per sé non precluso, di finalità di carattere socio-
economico extra-imprenditoriali, misure di finanziamento incompatibili con
la logica imprenditoriale, in quanto tali suscettibili di produrre effetti
distorsivi dell’equilibrato svolgimento delle attività economiche sul mercato
concorrenziale. Ed è proprio questa esigenza che sta alla base della direttiva
25 giugno 1980, 723/80/CE, con la quale è stato imposto agli Stati membri
l’obbligo di assicurare la trasparenza dei flussi e, più in generale, delle
relazioni finanziarie con le imprese pubbliche (senza peraltro alcuna
distinzione tra l’ipotesi in cui si tratti di fondi direttamente erogati dalle
autorità pubbliche alle imprese e quelle in cui i flussi provengano
direttamente da altre imprese sulle quali i pubblici poteri possano esercitare
un’influenza dominante), sì da consentire alla Commissione di discernere
“… fra il ruolo dello Stato in quanto potere pubblico e il ruolo dello Stato in
quanto proprietario”
13
.
Il particolare rigore che ha contraddistinto le linee di condotta della
Commissione nell’applicare le norme del Trattato in tema di aiuti, si è
peraltro manifestato non solo attraverso l’imposizione di puntuali obblighi
di trasparenza e comunicazione agli Stati membri in merito alle relazioni
finanziarie dagli stessi intrattenute con le imprese pubbliche, obblighi resi
più gravosi rispetto a quelli già prescritti con la direttiva 723/80 a seguito
dell’adozione da parte della Commissione di ulteriori atti
14
, ma anche
13
Vedi il sesto considerando della direttiva 723/80/CE;
14
Si fa riferimento alla Comunicazione agli Stati membri, contenente applicazione degli artt. 92 e
93 del Trattato Ce e dell’art. 5 della direttiva della Commissione 80/723/CE alle imprese
pubbliche dell’industria manifatturiera, in G.U.C.E., 18 ottobre 1991, n. C/273/2, con la quale
si imponeva agli Stati una serie di obblighi di comunicazione sistematica, e non su mera
richiesta della Commissione, ovvero di messa a disposizione di un complesso di informazioni
puntuali e dettagliate. Intervenuto l’annullamento di tale comunicazione con sentenza della
Corte di Giustizia 16 giugno 1993, in causa C-325/91, nella quale si è evidenziato che le
disposizioni di carattere precettivo in essa contenute erano state erroneamente adottate,
17
attraverso l’ampliamento della fattispecie di intervento finanziario
considerate riconducibili alla nozione comunitaria di aiuto e, in particolare,
l’utilizzazione, nell’espletare tale verifica, di un criterio la cui elaborazione
e pratica utilizzazione impone, coerentemente con lo spirito del Trattato, un
riallineamento oramai inevitabile delle modalità operative dell’impresa
pubblica rispetto a quelle proprie dell’imprenditore privato operante in
regime concorrenziale.
Il principale impulso all’avvio di organiche politiche di
privatizzazione è da ricercare, anche con riferimento a quanto verificatosi in
altri Paesi, nell’esigenza sempre più incombente e pressante di ripianare i
considerevoli livelli di deficit pubblico: esigenza particolarmente avvertita
in economie, quale la nostra, funestate da elevate situazioni debitorie
15
.
Varie sono le finalità a cui può portare un serio programma di
privatizzazioni, una è la destinazione dei proventi delle politiche di
smobilizzo alla anticipata estinzione di una parte del debito dello Stato, in
tal modo realizzando una futura, ma al tempo stesso duratura, riduzione
della spesa per interessi passivi
16
. Altro obiettivo può essere invece, come
già verificatosi in altri paesi, tra cui, in primo luogo la Gran Bretagna (ma
anche la Francia e il Giappone), è quello dell’ampliamento del mercato
mobiliare, mediante la diffusione dell’azionariato popolare, adeguatamente
essendo stato richiamato, quale base normativa, l’art. 5 della citata direttiva 80/723, anziché
l’articolo 90, paragrafo 3, del Trattato, la Commissione ne ha sostanzialmente recepito il
contenuto nella direttiva 93/84/CE, con la quale sono state apportate modifiche alla originaria
direttiva trasparenza;
15
Il ruolo primario giocato, nel determinare l’avvio delle politiche di privatizzazione,
dall’esigenza di ripianare sia pure in parte i consistenti livelli di deficit pubblico è sottolineato
dalla gran parte degli autori. Cfr. CASSESE, S., “Le imprese pubbliche dopo le
privatizzazioni”, pg. 385/386, 1991; BIZAGUET, A., “Le secteur public e les privatisations”,
pg. 73 ss., 1988 e SCOGNAMIGLIO, C., “Il “Rapporto al Ministro del Tesoro” della
Commissione per le privatizzazioni. Una sintesi e un commento ai disegni di legge in
discussione”, pg. 12 ss., 1991;
16
In tal senso SALVEMINI, M. T., “Debito pubblico, patrimonio, privatizzazioni”, pg. 105, 1989;
18
stimolato a sostenere l’attuazione dei processi di privatizzazione: obiettivo
che, oltre a trovare un espresso riferimento costituzionale nell’articolo 47, a
norma del quale la Repubblica favorisce l’accesso del risparmio popolare al
diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi
del Paese, ben sì giustifica e comprende sol che si considerino le peculiarità
del mercato azionario nazionale
17
.
Altro scopo che si adduce a giustificazione dell’opportunità e
necessità di varare un programma di dismissioni di ampio respiro è quello
di stimolare una maggiore efficienza gestionale per le imprese gestite dai
pubblici poteri, molto spesso operanti senza essere condizionate dai vincoli
di mercato, in primo luogo a causa della frequente imposizione ad opera del
socio pubblico di obiettivi di natura socio-politica e, comunque, extra-
economica (i cosiddetti “oneri impropri”), spesso inconciliabili con
l’esigenza, cui qualsiasi attività imprenditorialmente gestita deve essere
improntata, che sia osservato il parametro della economicità
18
: d’altra parte,
il mancato rispetto ad opera delle imprese in mano pubblica o di parte di
queste dei criteri alla cui osservanza sono tenuti gli operatori economici
privati comporta un’inevitabile alterazione di quei meccanismi di
concorrenzialità e competitività dalla cui operatività dipende il
conseguimento di livelli di efficienza economica sempre più elevati.
17
Confronta, al riguardo, SCOGNAMIGLIO, C., “Il rapporto al Ministro del Tesoro della
Commissione per le privatizzazioni. Una sintesi e un commento ai disegni di legge in
discussione”, ove si rileva che “il mercato azionario italiano è sottodimensionato; la
composizione dei portafogli dei risparmiatori italiani, peraltro, in rapporto a dati omologhi di
altri paesi sviluppati, appare squilibrata a favore dei depositi bancari e dei titoli del debito
pubblico… il consolidamento del mercato azionario, da realizzarsi anche mediante
l’allargamento delle specie di imprese e delle quantità di azioni offerte, rappresenta un
obiettivo di prima importanza per la nostra politica economica”, pg. 13/14, cit.;
18
Sul criterio d’economicità, ROSSI G., “I criteri di economicità nella gestione delle imprese
pubbliche”, pg. 236 ss., 1970;
19
È opportuno d’altro canto rilevare che le suesposte finalità
potenzialmente conseguibili possono essere tra loro difficilmente
coniugabili, addirittura in alcuni casi confliggenti, onde la necessità di far
precedere la stessa elaborazione del programma dall’individuazione di una
scala negli obiettivi da perseguire: in particolare, una possibilità di
contrasto, e conseguentemente un’avvertita esigenza di graduazione,
sussiste tra le finalità consistenti nel ripianamento, con gli introiti derivanti
dalle dismissioni, dei considerevoli livelli di deficit pubblico e quella di
ricondurre alle regole del mercato le imprese in mano pubblica, sì da
accrescere l’efficienza del sistema economico complessivamente
considerato.
L’obiettivo finale, pertanto, è quello di reintrodurre meccanismi di
tipo concorrenziale in settori finora prevalentemente monopolistici e
fortemente regolamentati, scopo rispetto al quale la mera privatizzazione
materiale può costituire un fattore di propulsione, ma solo se ad esso si
affianchi, precedendone la concreta attuazione, la predisposizione di un
apposito sistema di regolazione. Appare allora indispensabile che ad una
politica di privatizzazione si accompagni una serie di interventi regolativi,
diretti tanto a preservare le condizioni di competitività del mercato, quanto
a garantire che siano soddisfatte determinate esigenze equitative, la cui
realizzazione era in passato perseguita mediante lo strumento dell’impresa
pubblica: la privatizzazione, pertanto, se rappresenta una rinuncia allo Stato
imprenditore, “al contempo richiede un nuovo Stato regolatore”
19
. In Italia,
seppur in ritardo rispetto al Regno Unito e alla Francia, tale indirizzo è stato
recepito con la creazione di agenzie indipendenti quali strumenti attraverso
cui rispondere ad esigenze di regolazione, anziché di mera amministrazione.
19
CASSESE, S., “Le imprese pubbliche dopo la privatizzazione”, pg. 244, cit.;