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prattutto perché molti di questi bambini non parlano. Dall’analisi della comunicazione non
verbale, in particolare di come si modifica l’espressività del volto nel corso delle sedute, ed
avendo come riferimento teorico uno studio fatto da Rossetti, Mannu, Liotti, Reda (Attili,
Ricci Bitti, 1983) ho messo a confronto i dati ottenuti dal campione sperimentale con quelli
ottenuti con il gruppo di controllo per cercare di vedere se effettivamente questa terapia facili-
ti una modificazione nella comunicazione non verbale e quindi apporti un reale miglioramen-
to, soprattutto a livello psicologico, nella vita di questi bambini disabili.
Questo anno trascorso a stretto contatto con bambini disabili ed animali, oltre ad avermi forni-
to una notevole mole di dati da utilizzare sia per questa che per altre possibili ricerche, mi ha
anche fatto nascere il desiderio di ritornare al centro, ad un anno di distanza, per fare una nuo-
va sessione di filmati e vedere come sta procedendo la terapia dei ragazzi che ho visto
l’ultima volta ad ottobre del 2000.
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I. LA COMUNICAZIONE NON VERBALE
1.1. INTRODUZIONE
Ognuno di noi, in modo del tutto inconsapevole, è attratto dall’aspetto fisico delle persone che
ci circondano. Anche durante la più interessante conversazione, non ci sfugge nulla del corpo
della persona che abbiamo davanti. Infatti tutti noi siamo molto sensibili all’espressione del
volto, ai gesti, alla postura e agli sguardi del nostro interlocutore. Molte pubblicazioni su que-
sto argomento tendono a diffondere l’idea che la comunicazione non verbale si possa manipo-
lare e quindi sia possibile apprenderla per aumentare le vendite e migliorare le relazioni di la-
voro e commerciali. Nella realtà, chiunque pensi di poter trovare un manuale su cui imparare
tutto sulla C.N.V., è destinato a rimanere deluso; perché non esistono specifiche regole che
insegnano come tradurre il significato di movimenti e di gesti. Ciò che invece è possibile fare,
è affinare le nostre capacità di attenzione e la nostra sensibilità verso il linguaggio del corpo
(Mancini, 1997).
1.1.1. RAPPORTO TRA COMUNICAZIONE VERBALE E NON VERBALE
Affrontando il tema della C.N.V. è importante fare una riflessione sul rapporto tra il linguag-
gio del corpo e quello verbale. Infatti parlando di “comunicazione non verbale” verrebbe da
pensare all’esistenza di una dicotomia tra due sistemi di comunicazione totalmente separati
(Mancini, 1997). In realtà non è così: il comportamento verbale consiste di solito nell’uso del
discorso, ma anche del testo scritto, che comunque sono sostenuti in ogni loro parte da segnali
non verbali che hanno la funzione di illustrare, di dare informazioni di ritorno e di aiutare la
sincronizzazione. Inoltre il linguaggio non verbale permette di esprimere emozioni, atteggia-
menti ed esperienze che non sono facili da esprimere a parole (Argyle, 1978).
Sicuramente la lingua rappresenta il nostro sistema di comunicazione più potente ed efficace;
forse è anche per questo motivo che è stato necessario creare un campo di studio specifico per
la C.N.V.
Questo però non significa che esiste una netta separazione tra codice verbale e non verbale
anzi, i due aspetti sono strettamente intrecciati e collaborano al processo espressivo (Mancini,
1997).
1.1.2. ASPETTI STORICI DELLO STUDIO DELLA C.N.V.
Poeti e filosofi sono sempre stati attratti dalla voce, dal volto e dai movimenti del corpo, ma
l’interesse per il linguaggio del corpo da parte di psicologi e scienziati è stato piuttosto episo-
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dico per tutto il diciottesimo secolo e per i primi anni del diciannovesimo (Ekman,
O’Sullivan, 1991). Infatti gli studi sulla C.N.V. hanno inizio con Charles Darwin e il suo stu-
dio intitolato “The expression of emotions in man and animals” (Scherer, Ekman, 1982).
In questo studio Darwin pone due questioni che sono a tutt’oggi ritenute fondamentali: la
prima riguarda il problema di ritenere il comportamento non verbale innato o appreso attra-
verso la società; la seconda riguarda l’uso comunicativo che viene fatto dei segnali espressivi.
Nel corso del ventesimo secolo cresce sempre più l’interesse per la C.N.V. e con esso aumen-
tano anche i pensatori che se ne occupano. Durante l’occupazione Nazista della Germania,
psicologi e scienziati sono impegnati a dimostrare la superiorità della razza Ariana anche a li-
vello di C.N.V. David Efron è molto interessato a dimostrare che in realtà non ci sono grandi
differenze nell’uso della C.N.V. tra popolazioni anche molto diverse tra loro. Per questo mo-
tivo conduce sia ricerche sul campo sia esperimenti di laboratorio che mettono a confronto la
C.N.V. di immigrati Ebrei e Italiani a New York (Scherer, Ekman, 1982).
Un altro pioniere nel campo della C.N.V. è stato Ray Birdwhistell, il quale si è occupato in
modo specifico del movimento e ha creato la cinesica, una metodologia che si occupa degli
aspetti comunicativi appresi ed eseguiti attraverso i movimenti del corpo. Questo autore ha
trovato un parallelismo tra la linguistica e la cinesica, infatti definisce il termine “cinema”
come la più piccola unità di azione percepibile, per analogia con il fonema linguistico (Man-
cini, 1997).
Tra il 1950 e il 1960 si ha uno sviluppo notevole, in campo psichiatrico e clinico, delle ricer-
che sulla C.N.V. applicata allo studio dei malati di mente. Moltissimi psichiatri, in questo pe-
riodo, utilizzano le conoscenze sulla C.N.V. per analizzare le comunicazioni tra terapeuta e
paziente e per motivi diagnostici.
Un autore molto importante è sicuramente Paul Ekman, il quale si è occupato di alcune que-
stioni fondamentali riguardanti la C.N.V. Tra queste ritroviamo: il problema dell’origine
dell’espressione delle emozioni nell’uomo e l’aspetto semiotico della C.N.V.
Ekman, con la collaborazione di Wallace Friesen, ha cercato di sviluppare un sistema per la
misurazione dei movimenti del corpo e più recentemente, per la misurazione delle espressioni
del volto (Scherer, Ekman, 1982).
1.1.3. PERCHE’ RICORRIAMO ALLA C.N.V.
Il linguaggio è sicuramente il mezzo più adatto per inviare informazioni, scambiare idee e o-
pinioni culturali. Nonostante questo, ci sono ambiti nei quali la comunicazione verbale risulta
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del tutto inefficace. Esistono situazioni in cui ognuno di noi si rende conto di non trovare le
parole adatte per esprimere ciò che proviamo: di fronte ad un evento molto doloroso, ma an-
che in occasioni di grande gioia, ci è difficile tradurre in parole i nostri sentimenti e stati
d’animo. In tutte queste circostanze, un intenso abbraccio, uno sguardo profondo, ma anche
un silenzio valgono veramente più di mille parole (Mancini, 1997).
Argyle (1978) ha cercato di capire quali sono le motivazioni che spingono l’uomo, in alcune
occasioni, a privilegiare il linguaggio del corpo e, attraverso una accurata analisi, ha indivi-
duato le seguenti ragioni:
• Mancanza di codificazione verbale in alcune aree: ci sono poche parole per descrivere le
forme, anche per quelle semplici, forse perché è più facile descriverle attraverso un dise-
gno che non a parole. Un’altra area in cui manca una codificazione verbale adeguata ri-
guarda la personalità: esistono tante parole disponibili, il problema è che risulta piuttosto
difficile riuscire a scegliere quelle giuste. Lo stesso discorso vale anche per l’area inter-
personale.
• I segnali non verbali sono più efficaci: questo si verifica soprattutto in ambito interperso-
nale. Dal momento che la C.N.V. è una forma di espressione molto diretta, tende a provo-
care una risposta più immediata.
• I segnali non verbali sono meno controllati e quindi è più probabile che siano autentici:
sappiamo per esperienza che non sempre le parole dicono la verità, mentre i segnali non
verbali risultano di solito più genuini, perché è più difficile controllarli e quindi modificar-
li. Alcune parti del corpo, però, sono più facili da controllare di altre; una di queste è sicu-
ramente il volto, è infatti con esso che è più facile mentire. Quindi il miglior modo per in-
gannare consiste nel limitare i nostri segnali alle parole e alle espressioni del viso (Mor-
ris, 1977).
• Potrebbe risultare fastidioso rendere alcuni segnali troppo espliciti: durante le relazioni
interpersonali potrebbe risultare sconveniente e molto fastidioso manifestare apertamente
la propria antipatia per qualcuno oppure affermare la propria presunta maggiore importan-
za verso l’interlocutore. Forse è per questo motivo che la negoziazione delle relazioni in-
terpersonali si svolge in modo non verbale.
• E’ molto utile saper utilizzare un secondo canale oltre il linguaggio: i segnali non verbali
hanno una funzione di sostegno al linguaggio, aumentando la quantità di informazioni tra-
smesse, migliorando la sincronizzazione e fornendo un feedback da parte di chi ascolta.
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1.1.4. LE FUNZIONI DELLA C.N.V.
La C.N.V. assolve diverse funzioni, oltre ad accompagnare ed integrare il discorso. Gli ambiti
in cui la C.N.V. risulta particolarmente importante sono:
1.1.4.1. ESPRESSIONE DELLE EMOZIONI
La C.N.V. è sicuramente il mezzo principale a nostra disposizione per esprimere le emozioni.
Anche in questo caso ci rendiamo facilmente conto di come il mezzo non verbale sia molto
più esplicito di qualsiasi parola (Mancini, 1997).
Il primo autore che si occupò dello studio delle emozioni fu Darwin. Egli sosteneva che
l’espressione delle emozioni è fondamentale per il benessere degli animali che vivono in
gruppo, infatti ha una funzione sociale molto importante (Knutson, 1996). Inoltre considerò le
emozioni al pari di un comportamento e come un elemento di adattamento utile per la soprav-
vivenza della specie (www.uni.abramo.it, 2000).
Il problema delle origini delle emozioni è stato trattato da molti autori, alcuni dei quali so-
stengono che l’espressione delle emozioni è fondamentalmente innata, mentre altri sostengo-
no l’importanza dell’apprendimento sociale (Mancini, 1997).
Ekman ha svolto molte ricerche prendendo in considerazione soggetti di popolazioni e culture
diverse per cercare di verificare se l’espressione delle emozioni è innata oppure appresa. Dalle
sue ricerche è emerso che persone di culture diverse tendono a classificare le emozioni nello
stesso modo; inoltre si è anche scoperto che membri di culture diverse mostrano la stessa e-
spressione facciale in risposta alla stessa emozione. L’unico aspetto che tende a differenziare
la modalità di espressione delle emozioni è dato dall’insieme delle regole di esibizione, che
cambiano con il cambiare della cultura. Da tutte queste ricerche è emersa la teoria detta “neu-
ro – culturale”, che considera l’importanza sia dei fattori innati, sia dei fattori appresi e quindi
legati alla cultura di appartenenza (Ekman, Oster, 1979).
1.1.4.2. COMUNICAZIONE DI ATTEGGIAMENTI INTERPERSONALI
Nell’ambito degli atteggiamenti interpersonali, i segnali non verbali hanno un impatto sicu-
ramente maggiore del codice linguistico; infatti spesso la C.N.V. viene definita il “linguaggio
di relazione”. Tuttavia non è sempre facile distinguere gli atteggiamenti interpersonali dalle
emozioni dal momento che vengono trasmessi attraverso gli stessi segnali: l’allegria è una
emozione, mentre la simpatia è un atteggiamento interpersonale, ma, dal momento che la mi-
mica del volto è uguale in entrambe le situazioni, può non essere così facile fare una distin-
zione tra le due. C’è un elemento che può venire in nostro aiuto: le emozioni si possono veri-
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ficare anche in assenza di stimoli provenienti da altre persone, mentre gli atteggiamenti inter-
personali sono sempre rivolti a qualcun altro. E’ importante ricordare che ogni comportamen-
to sociale è regolato da norme che indicano la condotta più adeguata per ogni situazione,
quindi anche l’espressione degli atteggiamenti interpersonali è influenzata dalla cultura di ap-
partenenza (Mancini, 1997).
Dalle ricerche effettuate da Argyle (1978) è emerso che due sono le dimensioni principali del-
le relazioni interpersonali: l’affiliazione che comprende una varietà di atteggiamenti sociali
positivi come l’amicizia e la cordialità; e la dominanza che si manifesta in tutte le relazioni
caratterizzate da una chiara diversità di potere o di status tra le persone. Chiaramente si pos-
sono realizzare delle combinazioni di atteggiamenti, come per esempio una sottomissione o-
stile, ma possono anche esserci dei casi intermedi.
1.1.4.3. LA PRESENTAZIONE DI SE’
Nel corso delle interazioni le persone coinvolte si trasmettono, in modo spesso inconsapevole,
tutta una serie di informazioni riguardanti se stessi, per potersi conoscere meglio e per instau-
rare relazioni soddisfacenti. Alcune di queste informazioni sono involontarie e riguardano
razza, età e sesso, mentre altre sono maggiormente volontarie e manipolabili (Argyle, 1978).
Infatti in situazioni di interazione sociale tendiamo a presentarci al meglio, sia facendo atten-
zione a ciò che diciamo, sia curando il nostro aspetto esteriore. Ognuno di noi è consapevole
degli sforzi che si fanno, in termini di tempo e denaro, per rendere più gradevole in proprio
aspetto fisico e il proprio look. Tutto ciò viene fatto con l’obiettivo di dare agli altri una de-
terminata impressione di sé (Mancini, 1997). Questa manipolazione intenzionale degli stimoli
emessi viene definita “presentazione del sé” (Argyle, 1978).
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1.2. L’ESPRESSIONE DEL VOLTO
Tra tutti gli elementi che compongono la C.N.V., il volto è sicuramente il più importante, ma
anche il più difficile e confuso da capire. E’ il più importante perché è sempre sotto gli occhi
di tutti e perché in ogni momento invia informazioni sullo stato di salute o emozionale della
persona (Ekman, 1982). Attraverso il volto le emozioni possono essere negate, enfatizzate o
nascoste sotto la maschera della correttezza e accettabilità sociale (Carrubba, 1997). Ad o-
gnuno di noi è stato insegnato a controllare, ma anche a dissimulare le espressioni del volto,
per questo spesso si è visto che l’espressione facciale delle emozioni è più intensa quando una
persona è da sola che quando è insieme ad altra gente (Ekman, 1982).
Secondo Argyle (1978), nell’uomo le espressioni del volto vengono utilizzate in tre modi
piuttosto diversi tra loro: i lineamenti e la struttura del volto comunicano alcune caratteristiche
della personalità; le modificazioni espressive comunicano emozioni e atteggiamenti interper-
sonali; infine le diverse espressioni del viso inviano al nostro interlocutore segnali interattivi.
1.2.1. LE EMOZIONI E GLI ATTEGGIAMENTI INTERPERSONALI
Come abbiamo già visto, la mimica del volto è la fonte più ricca di informazioni riguardanti lo
stato emotivo di una persona. Sono state fatte molte ricerche per cercare di capire quale fosse
l’espressione facciale più adatta ad esprimere una data emozione (Carrubba, 1997). In partico-
lare Knutson (1996) riporta alcuni esperimenti fatti da Ekman, il quale presentava ai parteci-
panti fotografie di persone che, messe in posa, rappresentavano le espressioni facciali delle
principali emozioni. Il limite più rilevante di questo genere di esperimenti consiste nella pre-
sentazione di fotografie in posa che possono risultare artificiali. Nonostante questo limite, da-
gli studi è emerso che era possibile distinguere chiaramente sette gruppi principali di espres-
sioni facciali per le emozioni (Argyle, 1978). Ekman (Ekman, Oster, 1979) si è occupato an-
che dell’espressione delle emozioni in culture diverse e il suo obiettivo era di capire se
l’espressione delle emozioni è universale o se ha specificità culturale. Da questi studi è emer-
so che osservatori di culture diverse classificano le espressioni facciali delle emozioni nello
stesso modo; e che membri di culture diverse mostrano la stessa espressione facciale quando
provano la stessa emozione, a meno che non intervengano specifiche norme culturali definite
regole di esibizione quali: la deintensificazione, l’intensificazione, la cancellazione di ogni
traccia emotiva e la simulazione (www.uni.abramo.it, 2000).
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1.2.2. SEGNALI INTERATTIVI
L’espressione del volto viene utilizzata in stretta associazione al discorso per sottolinearne al-
cuni aspetti, per sincronizzare l’interazione e per completarne il senso (Carrubba, 1997). Du-
rante una conversazione il volto fornisce un sistema di segnali che completano il significato
verbale; questi segnali hanno un significato preciso, come approvazione o disapprovazione di
quanto si sta dicendo, ed un effetto diretto sul comportamento. In particolari situazioni sociali,
esistono delle regole che dirigono il “rituale”; queste norme possono anche prescrivere quale
sia la giusta espressione del volto in ogni momento della cerimonia (Argyle, 1978).
1.2.3. VOLTO E PERSONALITA’
Le persone si riconoscono dal volto ed è proprio attraverso il volto che inviamo informazioni
importanti sulla nostra personalità. Sembra quindi esserci un parallelismo tra specifiche carat-
teristiche fisiche e personalità, anche se è importante guardarsi da eccessive categorizzazioni e
generalizzazioni (Carrubba, 1997). La più interessante correlazione che è stata trovata è quella
tra aspetto fisico e temperamento. Forse è per tutti questi motivi che risulta così importante la
manipolazione accurata della propria persona e quindi una buona presentazione di sé. La cura
della persona tende però a variare con la classe sociale, la cultura e il periodo storico.
Attraverso il viso possiamo avere informazioni su età, sesso, razza e in misura minore sulla
classe sociale di appartenenza; e possiamo anche crearci un’impressione sulla personalità del
nostro interlocutore (Argyle, 1978).
1.2.4. ASPETTI CULTURALI
Esistono prove concrete a sostegno del fatto che alcuni segnali del corpo sono innati (Ekman,
Oster, 1979). Prendendo in considerazione l’espressione facciale delle emozioni, possiamo
vedere che queste espressioni sono simili in tutte le culture studiate; si sono ritrovate in bam-
bini molto piccoli ed anche in bambini ciechi e sordi che quindi non potevano averle apprese
per imitazione; inoltre certe espressioni dell’uomo sono simili alle espressioni facciali dei
primati. Ci sono comunque delle differenze culturali che riguardano soprattutto il grado in cui
le espressioni facciali vengono represse oppure espresse liberamente, ma che riguardano an-
che le circostanze in cui queste espressioni si possono manifestare (Argyle, 1978).
1.2.5. ASPETTI FILOGENETICI
Studiando il comportamento dell’uomo e degli animali si è potuta evidenziare l’esistenza di
una quantità di analogie tra il comportamento sociale degli esseri umani e quello delle scim-
mie antropomorfe, in particolare a livello di segnali non verbali (Argyle, 1978). Quindi non
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solo l’espressione mimica dell’uomo sarebbe innata, ma avrebbe anche una sottile parentela
filogenetica con altre specie di animali. Letizia Carrubba (1997) riporta uno studio comparati-
vo svolto da Van Hooff, il quale era interessato a verificare questa parentela. In questo studio,
Van Hooff ha preso in considerazione l’espressione facciale del riso e del sorriso e ha eviden-
ziato che potrebbero essere considerati come esibizioni di diversa origine filogenetica, poi
ravvicinati nell’uomo. Per questo motivo ha cercato i precursori del sorriso nei primati e ha
evidenziato due particolari configurazioni: l’esibizione silenziosa a denti scoperti e
l’esibizione rilassata a bocca aperta. Secondo lo studioso, i movimenti espressivi umani han-
no delle somiglianze con queste configurazioni; in particolare il sorriso deriverebbe
dall’esibizione silenziosa con denti scoperti, mentre il riso dall’esibizione rilassata con bocca
aperta.
1.2.6. ASPETTI EVOLUTIVI
Anche in questo caso, l’attenzione è rivolta all’espressione del sorriso. Il sorriso è considerato
una delle primissime espressioni facciali, a questa con il passare del tempo se ne aggiungono
altre che diventano fondamentali meccanismi di comunicazione sociale. Una delle componen-
ti più importanti dell’interazione interpersonale è la capacità di riconoscere l’espressione fac-
ciale della persona con cui interagiamo, anche questo aspetto tende a svilupparsi con la cresci-
ta del bambino (Carrubba, 1997).
Un autore che si è occupato dello sviluppo del sorriso nei primi mesi di vita del bambino è
stato Spitz. Egli ha utilizzato l’osservazione diretta della relazione madre bambino per descri-
vere le principali tappe dell’evoluzione psicogenetica. L’evoluzione normale è scandita da
quelli che Spitz chiama organizzatori dello psichismo; uno di questi è appunto la comparsa
del sorriso. L’autore evidenzia tre stadi: il primo corrisponde all’incirca ai tre mesi e viene de-
finito preoggettuale, cioè di indifferenziazione psichica; il secondo viene chiamato
dell’oggetto precursore e va dai tre agli otto mesi, in questa fase il bambino incomincia a mo-
strare la risposta definita “risposta sorriso” cioè sorride quando gli si presenta il volto umano
frontalmente, in modo che possa vedere gli occhi e la bocca; il terzo stadio viene definito
dell’oggetto propriamente detto, va dagli otto ai dodici mesi ed è in questa fase che il bambi-
no riconosce il volto della madre davanti al quale sorride, mentre di fronte ad un volto estra-
neo inizia a piangere (Marcelli, 1997).
Anche Ekman e Oster (1979) si sono occupati l’evoluzione delle espressioni facciali nel bam-
bino e hanno trovato che la muscolatura del volto è completamente formata e funzionante fin
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dalla nascita; che nei bambini sono presenti espressioni facciali simili a quelle evidenziate ne-
gli adulti; che bambini di tre, quattro mesi mostrano differenti risposte alle espressioni facciali
e sono in grado di imitare alcuni movimenti del volto. Inoltre hanno anche evidenziato
l’importanza delle espressioni facciali per il successivo sviluppo della comunicazione verbale.
1.2.7. REGOLAZIONE E CONTROLLO DELL’ESPRESSIONE FACCIALE
Se chiediamo a diverse persone di muovere deliberatamente ogni singolo muscolo del volto e
di assumere la mimica delle diverse emozioni, ci rendiamo conto che è un compito piuttosto
difficile e che sono veramente poche le persone in grado di svolgerlo correttamente. Però gli
stessi soggetti non hanno difficoltà a muovere specifici muscoli quando sperimentano effetti-
vamente una particolare emozione (Carrubba, 1997). Gli studi di Ekman (Ekman, Oster,
1979) evidenziano come il volto comprenda sia espressioni scelte intenzionalmente, sia del
tutto involontarie. Inoltre, nonostante la maggior parte delle persone sia convinta di saper ri-
conoscere una espressione inautentica, è emerso come sia complicato cogliere le più autenti-
che fonti di informazione che trapelano dal volto. Invece sono molto più facili da individuare
le espressioni soffocate, cioè quelle che emergono inconsapevolmente e che il soggetto cerca
di simulare. Infine, nonostante ci siano persone che riescono a mentire meglio di altre perché
hanno un maggior controllo della propria mimica facciale, è importante ricordare che alcuni
muscoli facciali non sono accessibili al controllo volontario.
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1.3. LO SGUARDO
Il linguaggio del corpo è un sistema di comunicazione sociale complesso che utilizza segnali
non verbali trasmessi da canali diversi. Uno di questi canali è lo sguardo che può essere con-
siderato sia un segnale non verbale, sia un canale, un mezzo per percepire i segnali che ci pro-
vengono dalle persone che ci circondano (Argyle, 1978).
1.3.1. ASPETTI EVOLUTIVI
Già in epoca fetale si possono registrare delle reazioni a stimoli luminosi: indirizzando una
luce intensa sull’addome della madre alla fine della gravidanza, quando le pareti dell’addome
e dell’utero sono più tese e sottili, si può registrare un’accelerazione del ritmo cardiaco e an-
che la chiusura delle palpebre (Mularoni, 1997). Alla nascita il sistema visivo del bambino è
completo sotto il profilo anatomico e fisiologico, ma è ancora immaturo sul piano funzionale.
Durante le prime ore di vita, il neonato segue con gli occhi un oggetto che si muove e dalle
tre, quattro settimane in poi diventa sempre più sensibile ad altri due occhi o a maschere in cui
sono stati disegnati due occhi (Argyle, 1978). L’atto di guardare il volto è un comportamento
molto precoce e costante nel bambino; già ad un mese, nonostante sia ancora insensibile alla
configurazione globale del volto, tende ad esplorare singole caratteristiche e focalizza di più
la sua attenzione sulle parti caratterizzate da contorni maggiormente marcati (Mularoni,
1997). Lo sguardo e lo sguardo reciproco hanno un ruolo essenziale nello sviluppo
dell’attaccamento e della socializzazione, infatti lo sguardo reciproco tra madre e bambino
rappresenta una modalità comunicativa molto precoce, una forma di dialogo interattivo che si
stabilisce durante l’allattamento e che sarà fondamentale durante tutto lo sviluppo del bambi-
no (basti pensare alla co orientazione degli sguardi e al pointing) (Argyle, 1978). La madre
inoltre, tenta fin dalla nascita di indurre il contatto visivo con il bambino, allineando il proprio
viso con quello del neonato; tutto questo ha la funzione di attirare l’attenzione del bambino
per poter sfruttare al meglio le sue ancora limitate capacità visive. Quindi la madre svolge la
fondamentale funzione di accompagnare il bambino nelle sue esplorazioni dell’ambiente che
lo circonda. Dal quarto mese di età il bambino è in grado di seguire la direzione dello sguardo
dell’adulto, anche se è rivolto all’esterno del suo campo visivo (Mularoni, 1997).
L’avversione per lo sguardo è tanto rilevante nei bambini autistici da essere diventata uno dei
criteri fondamentali per la diagnosi: questi bambini evitano attivamente lo sguardo focaliz-
zando l’attenzione su altri punti del volto o dello spazio circostante (Argyle, 1978).
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1.3.2. IL LINGUAGGIO DEGLI OCCHI
Lo sguardo ha una funzione fondamentale nell’ambito delle relazioni interpersonali. Gli occhi
umani sono organi estremamente complessi e rivestono una funzione dominante sia come e-
lemento recettivo sia come mezzo per trasmettere emozioni e stati d’animo. Tale è
l’importanza comunicativa degli occhi, che l’occhio umano è l’unico ad essere dotato di scle-
ra (parte bianca che circonda l’iride), questo rende i movimenti oculari molto più evidenti.
Un’altra caratteristica dell’occhio umano è la capacità di lacrimare anche in seguito ad emo-
zioni. Il pianto è sicuramente un potente segnale sociale (Morris, 1977). Infine, a differenza di
ogni altro animale, l’uomo ha capito l’importanza degli occhi nelle relazioni interpersonali,
proprio per questo motivo si tende ad abbellirli e a renderli più appariscenti attraverso l’uso di
cosmetici, oppure li si nasconde dietro occhiali scuri (Mularoni, 1997).
1.3.3. LE FUNZIONI DELLO SGUARDO
La maggior parte delle azioni e delle interazioni umane si basano sullo sguardo. Possiamo a-
nalizzare la sua grande importanza soprattutto in relazione all’atteggiamento interpersonale,
infatti ci permette di recepire simpatia, interesse, dominanza; sottolinea le differenze sessuali
e il bisogno di affiliazione. Attraverso lo sguardo le persone segnalano il proprio potere socia-
le, la personalità, ma anche le emozioni e la relazione di intimità con un’altra persona. Inoltre
lo sguardo assume particolare importanza durante le interazioni verbali, svolgendo le funzioni
di monitoraggio e segnalazione, fondamentali per gestire una buona conversazione (Mularoni,
1997).
Le principali funzioni dello sguardo sono:
1.3.3.1. ATTEGGIAMENTI INTERPERSONALI
Il contatto visivo si verifica quando due persone decidono di avviare una relazione. Il livello
di contatto visivo è definito sulla base della durata e della frequenza degli sguardi reciproci,
infatti è noto che la gente tende ad osservare maggiormente le persone per le quali prova della
simpatia (Argyle, 1978). E’ possibile individuare una correlazione tra i livelli di contatto visi-
vo e i livelli di prossimità fisica: in situazioni in cui la vicinanza è forzatamente ridotta (sui
mezzi pubblici o in ascensore) si nota una riduzione del contatto visivo, come per proteggere
la propria sfera privata. Viceversa, maggiore è la distanza che separa due persone, maggiore
sarà la probabilità che ci sia uno scambio di sguardi reciproci (Mularoni, 1997). Lo sguardo
reciproco ha anche la funzione di segnalare gli atteggiamenti interpersonali tra gli individui:
generalmente la persona che si trova in posizione dominante tenderà a mantenere lo sguardo
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fisso e rivolto verso la persona più debole, che a sua volta continuerà a distogliere lo sguardo
lanciando ogni tanto qualche occhiata sperando di non essere visto (Morris, 1977). Lo sguardo
della persona che abbiamo davanti può essere vissuto in modi diversi: può essere ritenuto
un’esperienza gratificante, come nel caso degli sguardi scambiati tra innamorati; può assume-
re un valore di ricompensa e di rinforzo positivo, per esempio durante una conversazione; ma
può anche creare imbarazzo, disagio, ansia e paura di essere giudicati (Mularoni, 1997).
1.3.3.2. ESPRESSIONE DELLA PERSONALITA’
Sicuramente esiste una relazione tra sguardo e vari tratti della personalità. Argyle (1978) met-
te in evidenza alcune dimensioni della personalità che sono correlate allo sguardo.
• L’estroversione: le persone estroverse guardano più frequentemente e per un tempo più
lungo, specialmente quando parlano. Si è anche visto che persone motivate alla affiliazio-
ne, in situazioni piacevoli, guardano di più.
• Schizofrenia e depressione: si è notato che gli psicotici provano avversione per lo sguardo.
Evitando lo sguardo, questi pazienti tentano di evitare il contatto sociale. Anche nei sog-
getti depressi c’è un uso limitato dello sguardo che indica la compromissione delle abilità
sociali.
• Bambini autistici: anche in questo caso si è notata una avversione per lo sguardo che è co-
sì rilevante da essere diventata uno dei criteri determinanti per la diagnosi; il bambino au-
tistico sembra essere sordo rispetto al linguaggio degli occhi. Un altro deficit nella comu-
nicazione visiva che si riscontra di frequente in questi pazienti è l’incapacità di attuare
comportamenti di attenzione condivisa, cioè l’insieme delle strategie non verbali messe in
atto normalmente dai bambini per attirare l’attenzione dell’adulto verso qualcosa di im-
portante (Argyle, 1978).
Si inserisce nella correlazione sguardo – personalità anche il fenomeno definito cut off, cioè il
ricorso a comportamenti che riducono le stimolazioni del mondo esterno. Possono esserci
momenti in cui soffriamo per una eccessiva immissione di stimoli sociali, ci sentiamo stressati
e cerchiamo in ogni modo di ritirarci dalla scena sociale per recuperare un po’ di tranquillità.
Il cut off può assumere diverse forme come una malattia che ci costringe a ritirarci nella pri-
vacy del nostro letto; un esaurimento nervoso; l’utilizzo di tranquillanti o di droghe; ma anche
la meditazione. Questi metodi vanno ben oltre i normali e quotidiani espedienti di cut off che
tutti noi usiamo. Nei momenti di lieve tensione, molto frequenti ogni giorno, possiamo: chiu-
dere gli occhi per un po’, avere uno sguardo sfuggente, ammiccante, tremolante o guizzante.
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guizzante. Queste forme di cut off sono piuttosto sconcertanti e creano irritazione nel nostro
interlocutore dal momento che a parole siamo coinvolti nella conversazione, mentre il nostro
comportamento non verbale indica tutto il contrario. Nonostante questa contraddizione, il cut
off è utile per fuggire per pochi secondi nella solitudine e nella propria privacy (Morris,
1977).
1.3.3.3. ESPRESSIONE DELLE EMOZIONI
Esiste una relazione tra sguardo e stato emotivo. Lo sguardo rivela l’intensità dell’emozione
provata, più che il tipo di emozione (Mularoni, 1997). Generalmente l’evitamento dello
sguardo è collegato ad emozioni negative come ansia, imbarazzo; la stessa cosa vale anche
per le emozioni positive come la felicità e la sorpresa (Argyle, 1978).
Esiste inoltre un elemento dello sguardo e degli occhi che cambia in conseguenza di muta-
menti emotivi, ma di cui siamo totalmente inconsapevoli e che è fuori dal nostro controllo vo-
lontario: la dilatazione delle pupille. Tutti noi siamo consapevoli del fatto che le pupille si re-
stringono in base all’intensità della luce; ciò che invece è meno noto è il fatto che le pupille si
dilatano quando siamo di fronte ad uno stimolo piacevole e si restringono in presenza di vi-
sioni sgradevoli. Le risposte pupillari sono del tutto inconsapevoli, ma nonostante questo,
producono un loro effetto sugli altri: le pupille dilatate suscitano attrazione perché comunica-
no un coinvolgimento emotivo nella relazione. E’ probabile che i segnali pupillari siano innati
nella specie umana, infatti i bambini piccoli hanno normalmente le pupille molto dilatate,
questo segnale esercita attrazione nei loro confronti e quindi evoca da parte degli adulti rispo-
ste di protezione, questo aumenta la probabilità di sopravvivenza (Morris, 1977).
1.3.3.4. INTERAZIONE VERBALE
Lo sguardo è molto importante anche durante una conversazione: osservando gli sguardi di
due persone che stanno dialogando, è possibile rilevare un vero e proprio gioco di sguardi.
Prima di iniziare l’interazione, c’è uno scambio di sguardi reciproci che ha la funzione di ini-
ziare la relazione; durante il suo svolgimento, inoltre serve un continuo scambio di sguardi per
mantenere la sincronizzazione. Anche la fine dell’incontro è segnalato dall’utilizzo dello
sguardo (Argyle, 1987).
All’interno dell’interazione verbale lo sguardo ricopre alcune funzioni:
• Monitoraggio, permette di ricevere informazioni sul feedback dell’interlocutore, in questo
modo è possibile rendersi conto se la persona che abbiamo davanti capisce quanto stiamo
dicendo e magari lo condivide;