Una galleria di personaggi e di tattiche (dal Metodo al Sistema, dal Catenaccio alla Zona, dal
4-4-2 al 4-3-3, passando per il 3-4-3), la cui evoluzione ha contribuito alla crescita della
“chiacchiera” sportiva tra i cronisti, che non possono essere ricordati senza utilizzare il
preziosissimo supporto delle pagine dei giornali d’epoca e delle pubblicazioni (libri, romanzi,
periodici) in cui i giornalisti sportivi si sono cimentati in apprezzamenti, racconti, calde discus-
sioni, resoconti tecnici. E attraverso i quali emergono fatti e gustose curiosità. Alla fine, in
questo lungo excursus, c’è ovviamente anche un pizzico di storia del giornalismo sportivo
italiano.
Che dalla prima pubblicazione datata 1865, il “Bollettino Trimestrale del Club Alpino di
Torino”, quest’ultimo fondato il 23 ottobre 1863, e dal primo numero de “La Ginnastica”,
uscito il 1° gennaio 1866 a Livorno, fino ad arrivare ai tre quotidiani sportivi attuali, “La
Gazzetta dello Sport”, il “Corriere dello Sport-Stadio”, e “Tuttosport”, e alla miriade di
periodici specializzati, di strada ne ha fatta davvero tanta. Basti pensare che dalla fine degli anni
’70 e, in particolare dopo la vittoria degli azzurri di Enzo Bearzot nel Mundial ’82 in Spagna,
fino agli anni ’90 il giornalismo sportivo ha conosciuto un vero e proprio boom.
Dal 1976 al 1982 la diffusione dei tre quotidiani è raddoppiata e molteplici sono i motivi.
<<In parte – scrive nella sua storia del giornalismo Paolo Murialdi – sono di natura politico-
sociale: il desiderio di evasione, il distacco dalla politica e altri stati d’animo simili. In parte
sono il frutto di abilità e spregiudicatezza giornalistica. Un fattore importante è stato l’aumento
delle trasmissioni sportive delle televisioni. Invece di provocare un senso di saturazione, lo sport
in Tv ha avuto un effetto di traino, alimentando l’interesse e la curiosità del pubblico. In
sostanza questi giornali fanno leva su sentimenti elementari, privilegiando i retroscena dei fatti
e persino la vita privata degli atleti. A queste scelte si accompagnano lo sforzo di semplificare il
linguaggio e uno sfruttamento delle risorse grafiche (titolazione di scatola, uso sofisticato delle
fotografie, impaginazione forte) che conferisce all’informazione un effetto spettacolare>> (2).
Già, in pratica la televisione, nonostante i timori dei presidenti dei club calcistici alla fine
degli anni ’50, quando la Tv era vista quasi come un nemico in grado di svuotare gli stadi, ha
contribuito non poco alla diffusione del calcio e di tutto ciò che ruota attorno al fenomeno calcio.
Che dalle prime partite dei pionieri ad oggi è cambiato veramente tanto. E insieme al calcio sono
cambiati la figura dell’allenatore (apparsa in Italia attorno al 1912, istituzionalizzata nella
stagione 20/21 e poi cresciuta a poco a poco di rilevanza, soprattutto a partire dai primi anni ’60
con il dualismo Herrera-Rocco) e il modo di scrivere di sport e di football sulla carta stampata.
Dal giornalismo sportivo degli albori fino alla seconda guerra mondiale pregno di lirismo e
di epica, si è passati prima al giornalismo tecnico degli anni ’50, poi a quello urlato e
scandalistico degli anni ’80, passando per il giornalismo popolare, lanciato da Gino Palumbo e
dalla sua “Gazzetta”. Attraverso le figure degli allenatori di calcio e le tattiche si potranno
incontrare veri e propri maestri di giornalismo, apprezzarne lo stile, conoscerne il punto di vista.
Dal lirismo di Bruno Roghi e di Ettore Berra all’empirismo di Carlin, dal tecnicismo di Leone
Boccali e di Aldo Bardelli al “calciolinguaggio” tutto particolare di Gianni Brera, passando per
tante penne illustri come quelle di Emilio Colombo, Emilio De Martino, Renato Casalbore,
Mario Zappa, Gualtiero Zanetti, Antonio Ghirelli, Giorgio Tosatti, ecc.
Una storia insomma di allenatori, di giornalisti e di linguaggio. Un linguaggio che è diventato
gergo, anche con gli allenatori e i giornalisti sportivi. Grazie alle parole e alle teorie dei primi,
riportate su carta dai secondi e rimbalzate qua e là dalla scatola televisiva e dalla radio (dalle
radiocronache di Nicolò Carosio alla trasmissione cult “Tutto il calcio minuto per minuto”),
oggi tante parole sono diventate di dominio pubblico e vengono inserite anche in discorsi che
non hanno niente a che vedere con il calcio. Vedi ad esempio pressing, catenaccio, difesa ferrea,
assist, fuorigioco, collettivo, gruppo, gioco a uomo, spogliatoio e chi più ne ha, più ne metta.
Una storia dunque di sport, giornalismo, polemiche e costume, uno spaccato di un secolo, il
‘900, che ci ha appena lasciato e che forse un po’ già ci manca.
Note all’introduzione
(1) G. P. Ormezzano, “Tutto il calcio parola per parola”, Roma, Editori Riuniti, 1997, cit.,
pp. 34-37.
(2) P. Murialdi, “Storia del Giornalismo Italiano”, Bologna, Il Mulino, 1996, cit., pp. 279-
280.
CAPITOLO I
IL METODO E I PRIMI VERI MISTER
1. Le origini
Il rapporto tra allenatore e stampa ai primi del ‘900 e la “chiacchiera” sportiva del calcio delle
origini sono avvolti ancora oggi da una fitta nebulosa. All’epoca dei pionieri nel calcio italiano
l’allenatore non era neanche considerato, anzi, forse neppure esisteva. Nella nostra penisola
infatti questa figura apparve solamente nel 1912, l’anno dell’arrivo a Genova di un ex calciatore
inglese del Blackburn Rovers e dell’Arsenal, Willy Garbutt, il primo in assoluto in senso
professionale. Eppure il calcio non era nato da poco.
In Inghilterra si giocava a pallone già dai primi decenni dell’800, dove la rivoluzione
industriale non aveva annullato la pratica degli antichi giochi. Nei secoli precedenti il seme del
futuro calcio era stato gettato da alcune forme arcaiche di passatempi ludici come l’harpastum,
praticato dagli antichi romani e diffuso poi dai legionari di Cesare ai Britanni, durante
l’invasione dell’isola, l’episkyros in voga tra i greci, e da altri giochi con oggetti di forma sferica
in uso tra i Maya, nell’Estremo Oriente, in Cina, in Giappone e nella Cornovaglia (l’hurling).
Anche in Italia tra il ‘400 e il ‘500 si praticavano diversi giochi, tramandati grazie agli scritti di
Antonio Scaino (“Trattato del Giuoco della Palla”, pubblicato a Venezia nel 1555), tra i quali il
più celebre fu il calcio praticato in Toscana e illustrato da Giovanni de’ Bardi nel 1580 nel
“Discorso sopra il Giuoco del Calcio Fiorentino” e da Pietro di Lorenzo Bini nel 1688 nelle
“Memorie del Calcio Fiorentino” (1).
Tutti antenati vicini o lontani del calcio moderno che nasceva e si dava le prime regole in
Inghilterra nella metà dell’800, nella seconda epoca imperiale, in piena età vittoriana, nei grandi
e aristocratici college di Westminster, Harrow e Charterhouse. Lì nella terra degli antichi
Britanni nasceva il rugby nel 1823 grazie ad una insolita performance di uno studente di
teologia, William Webb Ellis, che per velocizzare il gioco afferrò la sfera con le mani, invece di
calciarla con i piedi. Lì nasceva nel 1855 la prima vera squadra di calcio, lo Sheffield F.C.,
mentre lunedì 26 ottobre 1863 in una sala della “Freemason’s Tavern”, a Londra, nella Queen’s
Street di Holborn, i delegati di tredici college e università creavano la “Football Association”,
un organismo che con Charles William Alcock, a partire dal 1867, contribuì notevolmente alla
crescita e allo sviluppo del gioco (2).
In Inghilterra dunque già dal 1871 si disputava un torneo importante come la “F.A. Chal-
lenge Cup”, la Coppa d’Inghilterra, mentre il 30 ottobre 1872 Inghilterra e Scozia giocavano il
primo incontro internazionale della storia, terminato in parità, a reti inviolate. Nascevano così a
poco a poco anche altre federazioni di football in tutto il mondo e nel 1886, precisamente il 2
giugno, a Londra sorgeva anche l’International Board, con il compito di unificare i regolamenti
del gioco e stabilirne modifiche ed innovazioni.
In Italia il calcio era arrivato via mare grazie ad alcuni marinai inglesi che sui moli avevano
diffuso il loro gioco a partire dal 1886, data in cui risalgono i primi incontri giocati dagli
equipaggi della Marina Britannica a Genova, Livorno, Napoli e Palermo, e grazie ad alcuni
pionieri che avevano conosciuto il football in Inghilterra come il magnate del the Thomas
Lipton e il ragioniere torinese Edoardo Bosio, che lavorava a Nottingham in una ditta di prodot-
ti tessili, la “Thomas Adams”, e che tornò a Torino nel 1887 con un pallone. Dalla passione di
Bosio per il football e da quella di alcuni suoi nobili amici, capeggiati dal principe Luigi di
Savoia, duca degli Abruzzi, e dal marchese Alfonso Ferrero di Ventimiglia nasceva nel 1891
il primo club italiano, l’International Football Club.
Erano gli anni quelli di un’Italia che si stava riorganizzando dopo l’unità e che aveva tanti
problemi, con un tasso altissimo di analfabetismo, di disoccupazione e con una differenza già
netta tra il Nord e il Sud. I ceti umili versavano in condizioni davvero gravi e non avevano certo
né il tempo, né il “fisico” per dedicarsi agli sport e per praticare il calcio. Ecco perché agli albori
il calcio in Italia, ancora sconosciuto al grande pubblico e soprattutto ai giornali, era riservato
alle élite. Qualcosa cambiò sul finire del secolo con lo sviluppo delle città, abitate da nuovi
professionisti, piccoli e grandi imprenditori, funzionari e impiegati.
Imperava la cultura della Ginnastica e delle palestre (nel 1869 nasceva la Federazione
Ginnastica Italiana), i cui soci praticavano anche il football e che, tra l’altro, nel 1896, dal 6
all’8 settembre, organizzarono un torneo di calcio vinto dalla Società Ginnastica Udinese su
quella di Ferrara. Le cronache dell’epoca raccontavano che il capitano udinese Antonio Dal Dan,
autore di due reti, venne premiato, in pieno stile classicheggiante, con un labaro e una corona di
quercia (3). Si era diffuso intanto il ciclismo, il nuoto e il tennis. E pensare che fino al 1870 in
Italia il termine sport era semi sconosciuto e i più lo riferivano alla caccia, all’equitazione,
all’escursionismo (4). Nel 1878 invece il Ministro della Pubblica Istruzione Francesco De
Sanctis introduceva nelle scuole l’obbligo della pratica ginnastica.
Fu proprio con il ciclismo che si sviluppò la stampa sportiva. Nel 1881 usciva a Milano,
edito da Ferdinando Gabini, “Lo Sport Illustrato”, nel 1883 a Torino una “Rivista Velocipe-
distica”, curata dai baroni Fenoglio e Viarigi, mentre due anni dopo, il 6 dicembre 1885 a Pavia
nasceva l’Unione Velocipedistica Italiana. E dall’unione tra “Il Ciclista” e la “Tripletta”
nasceva nel 1896 il bisettimanale “La Gazzetta dello Sport” grazie all’iniziativa di Eugenio
Costamagna e Eliso Rivera, il cui primo numero uscì in carta verde (diventerà rosa solo nel
1898) il 3 aprile, a tre giorni dall’apertura dei Giochi Olimpici di Atene, la prima Olimpiade
moderna, al costo di cinque centesimi, in una Milano capitale morale del Regno, primo centro
industriale e commerciale del paese.
Il calcio al momento restava ai margini. I giornali quasi lo ignoravano. Sorgevano però
nuove società come il Genoa (1893), il Palermo (1897) e il Milan (1899). Tutte per impulso di ex
cittadini inglesi. Nel 1898, il 6 gennaio, si teneva a Genova il primo incontro ufficiale a “Ponte
Carrega” tra Genoa e FC Torinese davanti a 154 spettatori, il 15 marzo nasceva a Torino la
Federazione Italiana del Football, il cui primo presidente fu Enrico D’Ovidio, e l’8 maggio si
giocava dalle 9 alle 17 anche il primo campionato vinto in un solo giorno dal Genoa che superò
la concorrenza di tre squadre torinesi, la Ginnastica Torino, l’Internazionale e il F.C. Torinese.
Da allora il calcio, con il proliferare delle società, con l’avvento al potere di Giovanni Giolitti
che dai primi del ‘900 fino al 1914, con la sua politica liberale, garantì un maggiore progresso
industriale ed economico e consentì una valorizzazione più assidua del tempo libero e del riposo
domenicale (legge del 7 luglio 1907), divenne sempre più popolare.
Achille Beltrame esordiva nel disegno sportivo sulla “Domenica del Corriere” nel 1902,
mentre il 22 marzo 1903 “L’Illustrazione Italiana” dedicava la sua prima copertina al calcio
(5). Il boom si registrò tra il 1908 e la Grande Guerra. Il 15 maggio 1910 all’Arena di Milano
scendeva in campo anche una rappresentativa nazionale (in maglia bianca) contro la Francia.
Nascevano così anche altri giornali sportivi come il “Guerin Sportivo” (1912) diretto da Giulio
Corradini, precursore della “chiacchiera” sportiva, da dove lancerà i propri strali Carlo
Bergoglio, il celebre Carlin, e lo “Sport Illustrato” (1913), supplemento quindicinale e poi
settimanale della “Gazzetta”. E nasceva la prima generazione di giornalisti sportivi, tra cui vale
la pena ricordare Ettore Berra, con un passato nella Pro Vercelli, Renato Casalbore, Giovanni
Canestrini, Emilio De Martino, ex ala destra del Novara di discrete qualità. All’epoca tuttavia il
giornalismo sportivo veniva considerato di secondo piano rispetto a quello politico e di cronaca.
A contendersi i primi scudetti e le prime coppe erano sempre gli stessi club, il Genoa e il
Milan, la cui egemonia venne spezzata dalla Juventus, sorta nel 1897, e vittoriosa nel 1905. Poi
dal 1908 venne prepotentemente alla ribalta il calcio del quadrilatero piemontese, quello atletico
e rude della Pro Vercelli, della mitica mediana Ara, Milano I, Leone, che dettò legge fino
all’inizio degli anni ’20, e quello del Casale, campione nella stagione 1913/14. Nel frattempo era
sorta da una costola ribelle del Milan anche l’Inter, che vinse a sorpresa il titolo nel 1910. Era
questo un calcio molto atletico, lontano parente di quello inglese, ma in cui si iniziavano già a
intravedere le prime tattiche e i primi criteri di gioco.
2. Willy Garbutt, l’antesignano
Le scarne cronache dell’epoca non si soffermavano più di tanto sull’aspetto tattico del calcio al
quale nel 1913 un noto commentatore sportivo aveva sentenziato <<senza dubbio un grande
avvenire>> (6). Solitamente nelle prime squadre ogni atleta aveva una zona da coprire, mancava
anche una selezione tra i ruoli. In Inghilterra già nell’800 si poteva fare una differenza tra il
dribbling game inglese, in cui prevaleva lo spunto individuale, e il passing game scozzese,
basato sulla velocità e sulla precisione dei passaggi tra i membri della squadra.
La prima vera tattica fu la cosiddetta Piramide ideata a Cambridge, che prevedeva due
backs (terzini), tre half-backs (mediani) e cinque forwards (attaccanti). Uno schieramento più
razionale, progenitore del Metodo che imperverserà specialmente in Italia fino alla Seconda
Guerra Mondiale, e che subito venne copiato dalle squadre italiane. Che non avevano un
allenatore e che in campo seguivano le indicazioni dei capitani che fungevano un po’ da
giocatore e un po’ da coach.
Figure leggendarie come il dottor James R. Spensley del Genoa, che nel 1897 chiese ed
ottenne che nel club ligure venissero ammessi anche soci italiani, Herbert Kilpin del Milan,
Marcello Bertinetti, Giuseppe Milano I e Mario Ardissone della Pro Vercelli, Virgilio Fossati
dell’Inter, il casalese Luigi Barbesino. I giornali spesso ne tracciavano dei significativi ritratti.
<<J. R. Spensley era sempre uno dei primi sul terreno. (…) Sembrava un uomo maturo, lento
nei movimenti, invece giuocava bene, era agilissimo, fortissimo. (…) Guidava la sua squadra,
l’allenava, la capitanava>> (7). <<Herbert Kilpin. (…) Un nome che la nuova generazione di
footballers non onorerà mai abbastanza, un nome magico che fece vibrare le prime folle (…) un
nome che è quasi tutto nella storia dei primi lustri del nostro football>> (8).
Di Fossati, dei vercellesi e di Barbesino i giornali apprezzavano soprattutto lo spirito
agonistico da veri combattenti che caratterizzavano in campo le loro prestazioni da
centrosostegno, il centrale della linea mediana, una specie di regista attuale, punto di riferimento
dell’intera squadra. A differenza degli altri Fossati era anche un buon tecnico e un buon
palleggiatore, mentre specialmente Milano I era soprattutto un buon trascinatore. Renato
Casalbore scrisse di lui che <<la voce è il ricordo più vivo che ci ha lasciato>> (9).
In quegli anni eroici si potevano notare in Italia alcuni modi diversi di interpretare il calcio.
La Pro Vercelli attaccava gli avversari con compattezza e furore agonistico (Milano I e
Ardissone erano celebri per il gesto di tirarsi su le maniche nei momenti topici degli incontri), il
Milan era coriaceo soprattutto in difesa, l’Inter e il Casale in attacco, i nerazzurri con Aebi che
fungeva da doppio centravanti insieme con Peterly, i nerostellati grazie alla furia di Barbesino e
ai gol di Varese. Tutto questo nonostante non vi fosse alcuna programmazione negli allenamenti.
Sintomatiche in merito le parole del “figlio di Dio” Renzo De Vecchi, terzino del Genoa, del
Milan e della Nazionale: <<L’allenamento, chi poteva farlo, era una cosa alla buona, indivi-
duale, senza direttive, più per divertimento che per altro>> (10).
La squadra destinata a dare una significativa svolta, nonostante oramai a Vercelli il calcio
fosse diventato già un’autentica malattia in grado di coinvolgere un’intera città nella rivalità con
i casalesi, fu la più prestigiosa, il Genoa. Grazie all’opera di Willy Garbutt, il primo vero mister
dal 1912 dell’undici rossoblù. In precedenza anche il Torino, nato nel 1906, proprio nel 1912,
per iniziativa di Edoardo Bosio, aveva deciso di affidare la gestione tecnica a un giovane Vittorio
Pozzo, il futuro CT azzurro e giornalista de “La Stampa”, mentre l’Alessandria aveva creato
una vera e propria scuola di pensiero, con un calcio più veloce e spumeggiante, grazie al suo
giocatore – allenatore Giorgio Smith, un inglese del Genoa, introdotto in Piemonte proprio da
Garbutt, capace di plasmare e lanciare tanti giovani futuri campioni come Adolfo Baloncieri, il
grande Balòn, e Carlo Carcano.
Garbutt, nato a Stockport on Trent il 9 gennaio 1883, era giunto dunque a Genova nel 1912,
presentato alla società rossoblù da un irlandese, Tom Coggins, che aveva istruito i giovani
calciatori genoani. Arrivò in Italia fresco di gloria sportiva. Aveva esordito a soli 16 anni in
Inghilterra da attaccante nei Blackburn Rovers, quindi si era trasferito nell’Arsenal, che allora si
chiamava ancora Woolwich Arsenal, dal quartiere in cui aveva il campo, dove aveva giocato per
nove stagioni. Era stato anche soldato in artiglieria. Tornato al Blackburn, finì la sua carriera da
footballer a causa di un incidente di gioco. Episodio che Vittorio Pozzo raccontava lucidamente
nel 1950 nella sua rubrica su “Il Calcio Illustrato” con queste parole: <<Ero andato a Black-
burn, con uno dei soliti treni speciali, per l’incontro Blackburn Rovers-Manchester United.
Garbutt giuocava come ala destra per il Blackburn (…) Verso la fine del primo tempo, proprio
di fronte a me che stavo in prima fila tra i posti popolari, in trincea, con il viso proprio a livello
del terreno di giuoco, Garbutt tentò di battere un avversario spedendo la palla sulla destra e lui
girando a sinistra dell’ostacolo vivente. Cadde, non si rialzò. Nel brusco scatto si era prodotto
una profonda lacerazione all’inguine. Fu portato fuori campo, rientrò, si ritirò dopo alcuni
minuti. La sua carriera di giocatore era finita. Sui campi di giuoco non comparve mai più>>
(11).
Giunto in Italia, Garbutt non ebbe bisogno di interpreti per studiare la nuova lingua. Il suo
verbo fu infatti immediatamente recepito dai rossoblù. Accanito fumatore di pipa e fanatico del
cricket, amante della tavola e del buon vino, fu il trainer del Genoa ininterrottamente fino al
1927, quando passò alla Roma. Molto attento alla preparazione fisica e alla creazione di un
autentico spirito di squadra, non alzava mai la voce con i propri calciatori, ottenendo il massimo
rispetto dalla sua competenza in materia, dalla sua signorilità e dal suo prestigio. Era un pioniere
anche nella metodologia di allenamento, un innovatore. Alcune sue trovate, come quella di
disseminare il campo di pioli che i giocatori dovevano evitare, palla al piede, a velocità
sostenuta, o di sospendere i palloni a una corda e tirarli su sempre più in alto, per esercitare il
colpo di testa in elevazione, apparvero rivoluzionarie per i tempi e fecero del Genoa una squadra
all’avanguardia (12).
Il problema maggiore di quei tempi tra le compagini italiane era la mancanza di
organizzazione nella manovra offensiva e la scarsa abitudine a dosare le energie in campo. La
Pro Vercelli ad esempio puntava su un calcio atletico, ma non su un allenamento razionale in cui
si potessero assimilare schemi di gioco. Il modo di stare in campo del Genoa invece aveva
caratteristiche che si potranno ritrovare anche nel dopoguerra, in un calcio cioè già più moderno
e razionale. I rossoblù riuscivano ad essere micidiali in attacco grazie ad un gioco corale, fatto di
passaggi veloci e di lunghe sciabolate volte a tagliare la difesa avversaria, in pratica una sorta di
verticalizzazione ante litteram. Non amava i campioni Garbutt, soprattutto quando si presen-
tavano svogliati agli allenamenti.
Proprio grazie ai suoi metodi nel 1915 il Genoa tornava a laurearsi campione d’Italia dopo
ben 10 anni, superando la concorrenza del Torino. Campionato questo sospeso a due turni dalla
fine per la mobilitazione generale in vista della Prima Guerra Mondiale. Quel Genoa si schierava
così: Rolla, Casanova, De Vecchi, Polla, Magni, Leale, Walsingham, Bernardo, Sardi, San-
tamaria, Mariani. Ma l’opera di Garbutt era solo agli inizi. Il coach inglese, che già nel 1915
guadagnava 400 lire mensili, avrebbe continuato il suo compito anche nel dopoguerra quando i
giornali lo tireranno spesso in ballo durante epiche partite come modello tecnico da seguire. Un
nome, il suo, che troveremo ancora di frequente nella nostra storia.
3. Felsner e i maestri danubiani
Per quattro lunghi anni, a causa del conflitto il campionato italiano di calcio non ebbe né
vincitori né vinti. Il football però non era destinato a scomparire. Anche durante i combattimenti
sul fronte si organizzavano incontri per tenere alto il morale delle truppe. Mentre in Italia si
organizzavano delle partite valide per l’assegnazione di prestigiose coppe o di campionati
minori, nel marzo del 1918 presso il XX autoparco di Modena una rappresentativa di azzurri
incontrava una squadra di militari belgi capitanata da Louis Van Haege, ex giocatore del Milan
di grandi qualità tecniche (13).
Il 4 novembre del 1918 l’Italia esultava: la guerra contro l’Austria era vinta, a Trento e
Trieste tornava a sventolare il tricolore. I giornali titolavano a tutto spiano, anche quelli sportivi.
Durante i combattimenti nel 1915 a Torino era nato il primo periodico italiano di club “Hurrà!”,
grido di guerra dei supporters juventini. Il giorno dopo l’armistizio anche “La Gazzetta”,
diventata quotidiano prima nel 1913 e poi nel 1919, che durante la guerra aveva seguito gli
eventi da vicino, restando accanto alle truppe, annunciava la vittoria in tutte le piazze del paese e
prometteva di allacciare le due gemme redente alle consorelle di tutta la patria attraverso il Giro,
la manifestazione ciclistica sorta nel 1909 e destinata ad un grande avvenire.
Nonostante il paese, pur dopo la grande reazione successiva alla disfatta di Caporetto, fosse
in ginocchio, tra la gente si avvertiva voglia di normalità. E in questo contesto lo sport fu di
grande aiuto per superare i momenti difficili, per dimenticare e ricominciare a vivere. Il cam-
pionato riprendeva nel 1919, allargato e con una maggiore partecipazione di compagini del
Centro – Sud.
Sui giornali il calcio, anche se in costante ascesa, godeva ancora di uno spazio minore
rispetto al ciclismo e ai motori. Nascevano i miti di Costante Girardengo che vinceva tutto in
Italia, di Ottavio Bottecchia che si aggiudicava per due volte il Tour tra il ‘24 e il ’25, mentre nel
1921 si disputava a Brescia il Gran Premio d’Italia d’Automobilismo, vinto dal francese Goux.
Riprendevano ad uscire diverse testate giornalistiche, sospese in contemporanea con la guerra;
alla fine del 1919 la stampa sportiva comprendeva 24 testate, 14 sorte nel periodo prebellico e 10
nate nello stesso 1919 (14).
La guerra si portò via diversi campioni del calcio eroico: dal medico inglese alfiere del
Genoa Spensley al centromediano dell’Internazionale Fossati, allo stratega dell’Alessandria
Smith. Il titolo del 1920 se lo aggiudicò proprio l’Inter, priva di Fossati e di tutti gli stranieri
inglesi e svizzeri, che superò in finale a Bologna il Livorno. Una formazione composta quasi
interamente da lombardi, con l’eccezione del mediano Scheidler. Fossati, perito a Monfalcone,
era sostituito nel ruolo di centromediano dal fratello. Fuoriclasse indiscusso dei nerazzurri, il
funambolico Zizì Cevenini. Il calcio del dopoguerra, pur scosso da contrasti interni (vedi la
nascita dell’ULIC e il contrasto tra piccoli e grandi club che diede vita alla scissione del 1921 e
alla disputa di due campionati vinti da Pro Vercelli e dalla Novese), provava a rinnovarsi. Il
gioco si faceva sempre più serio, nascevano nuove società, aumentavano gli interessi e la voglia
di ben figurare.
Nell’esigenza di migliorare i valori tecnici dalla stagione 1920/21 la FIGC prescriveva
l’obbligo di un allenatore ai bordi del campo. Da questo momento la figura dell’allenatore
conobbe una discreta fortuna e Willy Garbutt, già presente a Genova, ebbe una miriade di
proseliti. La maggior parte degli allenatori dell’epoca però non furono inglesi. Tra i tecnici giunti
dalla terra dei figli d’Albione va ricordato soprattutto Robert Spottishwood (all’Inter dal 1923),
con il quale si introdusse in Italia l’uso della parola mister, uno dei primi insieme con Garbutt ad
usare un tipo di allenamento specifico per far migliorare ai calciatori la tecnica dello stop, del
tiro, dell’arresto con il petto e del colpo di testa.
L’Inghilterra rimaneva la patria del calcio, ma negli anni ’20 cresceva il mito del football
danubiano. Le nazionali cecoslovacche, austriache e ungheresi si facevano apprezzare per il loro
gioco e per la tecnica sopraffina in tutta Europa e così in Italia sbarcò una quantità incredibile di
calciatori e di allenatori danubiani.
La tattica iniziava a fare capolino ogni tanto anche sui giornali sportivi. Il verbo del momento
era il Metodo, discendente diretto della Piramide. Davanti al portiere i giocatori erano disposti
su quattro linee, due dirette al presidio della propria porta (composte dai due terzini, liberi da
compiti di marcatura, due spazzini d’area, dai due mediani che marcavano le ali avversarie e dal
centromediano che marcava il centravanti avversario e rilanciava il gioco), due orientate
all’attacco (composte dalle due mezzeali o interni che collaboravano con il centromediano nella
costruzione del gioco e dalle ali che si decentravano sulle fasce e operavano il cross per il
centravanti).
Questo era in sintesi il Metodo, detto modulo a W, perché graficamente i due reparti, difesa e
attacco, disegnavano due W sovrapposte. Nel calcio danubiano la distanza tra le mezzeali e gli
attaccanti era esigua, mentre nella versione italiana, più speculativa, dove in pratica si
diffondevano già le idee del contropiede e dell’ostruzionismo, le mezzeali venivano spesso
arretrate a formare un triangolo con il centromediano. Nasceva in sostanza il “gioco
all’italiana”, definizione già in uso tra i giornalisti degli anni ’20. Il fulcro del gioco però
rimaneva nelle due versioni il centromediano.
Ovviamente il Metodo si diffuse presto in Italia e divenne lo schema di gioco più utilizzato
dagli allenatori che operavano nella penisola. Gli allenamenti divenivano sempre più meticolosi,
si curava la preparazione fisica e nulla incominciava ad essere lasciato al caso.
Nella stagione 1920/21 a Bologna, club sorto nel 1909, arrivava un medico austriaco, ex
giocatore del Wiener Sport Klub, Hermann Felsner, nato a Vienna il 1° aprile 1889. Felsner legò
subito con l’ambiente bolognese, tanto che rimase al sodalizio petroniano per ben undici anni di
fila, prima di guidare la Fiorentina, la Sampierdarenese, il Genoa, il Milan e nuovamente il
Bologna dal 1938 al 1943. Fu il primo ideatore del grande Bologna, la <<squadra – a detta dei
critici e dei tifosi dell’epoca – che tremare il mondo fa>>. Possedeva grande carisma e sosteneva
che il calcio esclusivamente tecnico fosse superato.
Elegante, cappello alla moda e sigaretta con lungo bocchino, svezzò i talenti in erba di tanti
futuri campioni rossoblù come Della Valle, Pozzi, trasformato da Felsner da laterale sinistro ad
ala ambidestra, Gianni, Muzzioli, Gasperi, che giocava centroattacco e con Felsner divenne un
formidabile terzino, e Schiavio, rilanciato dal tecnico austriaco dopo che la società lo aveva
spedito alla Fortitudo.
Il lavoro di Felsner all’inizio fu lungo. Un lavoro in prospettiva che però alla fine portò i suoi
frutti. <<Ho avuto la ventura – ricordava Felsner in un’intervista – di trovare a Bologna quanto
di meglio si potesse desiderare per un lavoro serio: materiale, uomo, ambiente, atleti che dal
connubio delle doti tecniche e morali ricavano un potenziale di illimitato valore>> (15).
I primi anni ’20 furono dominati ancora dalla Pro Vercelli, campione nel 20/21 e nel 21/22,
e dal Genoa, primo nel 22/23 e nel 23/24. Garbutt era arrivato nel 1923 a percepire dal club
rossoblù 2500 lire al mese e l’anno dopo addirittura 15.000. Sui giornali Garbutt e Felsner
erano i due tecnici più stimati, anche perché interpretavano in modi diversi il Metodo. Il primo
veniva considerato il “messia del gioco volante”, secondo la scuola inglese, Felsner il “maestro
del gioco rasoterra”, secondo la scuola danubiana.
Da un resoconto di Cesare Fanti sullo “Sport Illustrato” dello scontro diretto del 18
febbraio del 1923 tra Genoa e Bologna, giocato allo “Sterlino” di Bologna e vinto dai liguri per
2-1, emergevano in pieno le differenze delle due scuole di pensiero: <<Mister Garbutt, il trainer
del Genoa è uscito trionfante dalla lotta ingaggiata per interposte squadre col dott. Felsner; ma
quest’ultimo può essere orgoglioso della prova fornita dal Bologna che, pur vinto, si è addimo-
strato in campo degno rivale, se non addirittura superiore del team ospite. (…) Per noi la causa
prima della vittoria genovese si deve ricercare in un maggior equilibrio fra linea e linea. (…)
Superiorità d’attacco indiscussa nel Bologna (…) La difesa no: ha fatto coraggiosamente
quanto ha potuto, onestamente, brillantemente: ma non fu all’altezza del compito. In questo solo
si deve ricercare la causa dello smacco bolognese. Per questo lo Sterlino è stato violato dopo tre
anni>> (16).
Quel Genoa di Garbutt, che nell’estate del 1923 si recò in tournèe in SudAmerica, entrando
in contatto con il calcio brasiliano, argentino e uruguagio, bissò il successo in campionato un
anno dopo e si aggiudicò per primo lo scudetto (istituito in quell’anno dalla Federazione) grazie
alla efficacia in difesa di De Vecchi, al moto perpetuo di Burlando e a quel qualcosa in più che
sapeva dare rispetto alle altre compagini Garbutt ai suoi ragazzi nel gioco offensivo. Il Genoa
infatti non sempre tentava l’aggiramento sulle fasce laterali, anzi, non di rado, la manovra si
sviluppava improvvisa, in verticale, con lunghi lanci volti a cogliere d’infilata le retroguardie
avversarie. Una manovra avvolgente e veloce, rispetto a quella compassata e leziosa della scuola
danubiana che richiedeva comunque allo stesso modo calciatori dalle grandi capacità tecniche.
Una versione del Metodo che avrebbe fatto le fortune di Willy Garbutt anche in un’altra tappa
fondamentale della sua carriera, il Napoli, dove rimase per ben sei anni e dove colse un
lusinghiero terzo posto nelle stagioni 32/33 e 33/34.
Ma Felsner, che proprio nel 24/25 colse il primo scudetto della sua avventura italiana con il
Bologna superando il Genoa dopo cinque drammatiche e concitate finali, non fu l’unico
allenatore danubiano vincente dell’epoca. In quegli anni infatti, mentre il calcio, soprattutto dopo
i Giochi Olimpici di Parigi e di Amsterdam del ’24 e del ’28, continuava a crescere di
importanza e guadagnava sempre più spazio sui giornali, e mentre nasceva il fenomeno del tifo,
continuavano ad approdare e ad affermarsi in Italia tecnici di scuola danubiana.
Nel 1924 divenne trainer della Reggiana e poi del Torino Karl Sturmer, ex centromediano
della nazionale austriaca. Il mago della Juventus che nel 25/26 vinse il suo secondo scudetto era
invece un ungherese, Jeno Karoly, ex calciatore del MTK di Budapest e ventisei volte nazionale
magiaro.
Arrivato in Italia nel 1924 quale tecnico del Savona, Karoly alla Juve dimostrò di possedere
intuito, convincendo lo staff bianconero ad ingaggiare due stranieri autentici campioni come
Hirzer e Vojak. Ebbe un contratto in base al quale avrebbe percepito 2.500 lire come anticipo,
una settimana di vacanze pagate ed un premio di 10.000 lire in caso di scudetto. Portava il
colletto duro e la bombetta, ma era un passionale, era calvo, ma con rigogliosi baffi neri. Da
buon psicologo pretendeva il massimo impegno durante gli allenamenti. Migliorò la
preparazione fisica dei bianconeri con lunghe sedute di ginnastica. Costruì una squadra bella da
vedere ed efficace in zona gol. Alla vigilia del terzo spareggio con il Bologna, decisivo per lo
scudetto, venne colto da un infarto e morì nella sua casa di Rivoli. I calciatori giocando con il
lutto al braccio riuscirono però a vincere il titolo ugualmente e a dedicarlo al povero Karoly. La
vicenda ebbe grande risalto sui giornali. “La Stampa” così lo definiva il 29 luglio 1926, il
giorno dopo la sua scomparsa: <<Meravigliosa tempra di giuocatore e tecnico impeccabile,
conoscitore e valutatore di uomini sui quali godeva di un grande ascendente (…)>> (17).
“L’Illustrazione Sportiva” così invece ricordava Karoly: <<Partecipava agli allenamenti
della squadra bianconera come istruttore e giuocatore (…) la sua competenza aveva il collaudo
di alcuni lustri di battaglie (…) Era una figura caratteristica, la sua modestia lo induceva a non
mostrarsi mai nei primi ranghi. Sapeva che l’onore della ribalta è dovuto ai giuocatori. E se ne
è andato senza disturbare nessuno, improvvisamente, perché non gli piaceva il chiasso attorno
al suo nome>> (18).
Di lì a poco, come la Juventus, anche il Torino faceva il definitivo salto di qualità grazie ad
un allenatore di scuola danubiana. I granata che si imponevano nel 27/28, e che un anno prima si
erano visti revocare il titolo in seguito ad un presunto illecito in un derby con la Juventus (la
vicenda che riguardava il terzino bianconero Allemandi era stata rivelata da “Lo Sport” di
Milano e da un articolo pubblicato sul romano “Tifone” ed intitolato <<C’è del marcio in
Danimarca>>), erano guidati dall’austriaco Tony Cargnelli.
Attento ai progressi e alle innovazioni, ma solo dopo averle verificate sul campo, Cargnelli,
che in precedenza aveva avuto già un’esperienza nel Bari, era un pignolo che vedeva il football
come un gioco d’attacco basato sul movimento della linea mediana e su uno schema molto
offensivo che aveva il perno nel centromediano Janni e nel trio Baloncieri, Libonatti e
Rossetti. I giornali dell’epoca lodavano l’operato di Cargnelli definendo il Toro una “squadra
armonica”, che aveva dato una svolta sul piano tattico con i giocatori attenti a non perdere le
distanze tra loro e che privilegiavano la manovra collettiva agli spunti individuali, concessi solo
all’attacco (19). Una squadra che in campo dava veramente spettacolo.
4. Lo “stile Inter” di Veisz e la cinquina di Carcano
Dopo il secondo scudetto conquistato nella stagione 28/29 da Felsner e dal suo Bologna, nel
29/30 un altro maestro danubiano vinceva il campionato, il primo a girone unico, Arpad Veisz, al
timone dell’Ambrosiana, la squadra nata dalla fusione del 1928 tra Inter e U.S. Milanese.
Il passaggio dal doppio girone al girone unico a diciotto squadre aveva aperto un’età
importante per il calcio italiano. Da provinciale il movimento si dava un’organizzazione più
rispettabile. Il paese era già da diversi anni in camicia nera e il fascismo era intervenuto nel
calcio promuovendo una modernizzazione e un processo di concentrazione delle strutture
esistenti. Erano stati costruiti nuovi stadi, erano nati nuovi club, molti si erano uniti dando i
natali, tra gli altri, al Napoli e alla Fiorentina nel 1926, alla Roma nel 1927.
Alla presidenza della FIGC nel 1926 era salito il gerarca fascista Leandro Arpinati, podestà
di Bologna. La sede federale era stata prima trasferita a Bologna, quindi, con la nomina di
Arpinati a sottosegretario al ministero dell’Interno, spostata a Roma. La segreteria era stata
affidata a Giuseppe Zanetti. L’organizzazione del calcio era stata riformata dalla “Carta di
Viareggio” (agosto 1926) che, tra l’altro, vietava anche il tesseramento di nuovi stranieri. Da
allora si era aperta l’età degli oriundi. Arrivarono in Italia, soprattutto dal SudAmerica tanti
campioni destinati a trovare nel nostro paese fama e danaro e a segnare un’epoca nelle rispettive
squadre e nella Nazionale di Pozzo. Con il pretesto della doppia nazionalità il calcio italiano si
arricchiva di elementi validissimi, determinanti per la crescita ulteriore a livello internazionale
del nostro football.
Con la “Carta di Viareggio” era cambiata anche la figura del calciatore. In tutto il mondo e
in particolare dal 1926 dopo il congresso della FIFA, la federazione internazionale nata nel
1904, i giocatori da dilettanti erano diventati professionisti; gli ingaggi lievitarono così come i
trasferimenti e gli scandali, anche se in Italia già nel 1924 si era alzato un notevole polverone per
il passaggio del terzino Rosetta dalla ProVercelli alla Juventus. Fare il calciatore diventava un
vero e proprio mestiere, e così tra i giocatori diminuiva anche il livello di istruzione. Laureati
alla “Bocconi” come Fulvio Bernardini, il grande centromediano della Lazio, dell’Inter e della
Roma, erano un’eccezione. Con lui, che esordiva in Nazionale il 22 marzo 1925 a Torino contro
la Francia proprio nel giorno dell’addio alla maglia azzurra di Renzo De Vecchi, che poi divenne
una prima firma del “Calcio Illustrato”, si apriva la seconda generazione del calcio italiano.
Proprio Bernardini, che era passato dalla Lazio alla squadra nerazzurra nel 1926, era stata
una colonna della prima Inter di Veisz fino al 1928. Veisz, impiegato di banca di Budapest, ala
sinistra della nazionale ungherese, aveva ben figurato alle Olimpiadi parigine del 1924 ed era
arrivato a Milano nell’autunno del ’25. Per problemi fisici la carriera milanese da calciatore di
Veisz non durò a lungo, ma nella città della madunina il talentuoso magiaro era destinato a
raccogliere trionfi soprattutto in panchina.
Cominciò per una singolare coincidenza ad allenare l’Alessandria, poi nel ’27 fu richiamato
dall’Inter con la qualifica di mister. E qui incominciò il suo lavoro per impostare, secondo i
dettami del Metodo, uno “stile Inter”, un gioco di manovra elegantissimo, persino sofisticato.
All’inizio spostò Bernardini nel ruolo di centravanti. Racconta Angelo Rovelli: <<Fulvio era
piuttosto lento, ma Veisz, che prediligeva la manovra rallentata, sosteneva che Bernardini era
necessario per i lanci lunghi alle ali o ad un interno avanzato. Bernardini accettò l’incombenza,
ma ben presto si stancò e chiese di tornare al suo vecchio ruolo. Fu così che Veisz lanciò
Meazza nel ruolo di centrattacco, formando una coppia di assoluto valore, maestri di finezza e
perentorietà del gioco>> (20).
Meazza, <<una riservetta di qualità>> come lo aveva etichettato Bruno Roghi sulla
“Gazzetta dello Sport” alle sue prime apparizioni in nerazzurro, era stato scoperto proprio da
Bernardini e da Leopoldo Conti nell’estate del ’27 quando militava poco più che ragazzino
nella squadra dei “Maestri Campionesi” e di lì era entrato a far parte degli allievi dell’Inter.
Per il “Pepp”, come lo chiamerà Gianni Brera, sarà l’inizio di una formidabile carriera, per
tutti i tifosi Meazza diventerà “il balilla”, dopo un gol segnato alla Juventus e al suo portiere
Combi beffato con un tiro di precisione, dopo averlo attirato fuori dai pali. Una sua specialità. E
Meazza, con i suoi 31gol, fu uno degli artefici dello scudetto dell’Ambrosiana del 29/30. Nel
ruolo di centromediano, al posto di Bernardini passato alla Roma, giocava Gipo Viani, futuro
allenatore della Salernitana, del Milan e della Nazionale e inventore del “Vianema”.
Che aveva un caratteraccio, ma che giocava a calcio assai bene, pur non avendo i piedi buoni
del grande “Fuffo”. <<Il Metodo messo in scena dall’Inter – prosegue Angelo Rovelli - era forse
meno artistico di quello del famoso Wunderteam (la nazionale austriaca di Hugo Meisl regina di
quegli anni), però per quanto concerne l’ambito nazionale bastava per mettere la sordina a
rivali di pregio quali il Genova (anche i rossoblù erano stati costretti dal Fascismo a cambiare
nome nel 1928), la Juventus ed il Bologna. Come avrebbe intuito Vittorio Pozzo l’Inter
anticipava i tempi di un gioco che possibilmente scavalcava il centrocampo, alternando i
palleggi stretti fra gli interni ai lanci lunghi dei mediani>> (21).