3
questa povertà, la parola poetica appare l‘unico luogo dove può
risuonare (e si pensi alle numerose ‘eco’ presenti nella poesia di
Campana) “l’arcaica felicità dell’appartenenza alla totalità del cosmo”
[Monti, 1998: 7]. Totalità, il percorso poetico campaniano muove, in
consonanza con le grandi esperienze della poesia europea (a partire
da quella simbolista), dalla consapevolezza della dispersione, della
separazione, dello “smembramento” di una più vasta unità originaria
dell’essere, cercando attraverso la lingua della poesia (torna in mente
l’immagine del pollicino sognante di Rimbaud che “sgrana rime” per
ritrovare la casa del padre) il suolo dove radicarsi e stare, dove
rievocare una totalità perduta. Dunque, la lingua come ‘prima radice’,
non può che essere una lingua che si faccia carico dell’istanza di
remitizzazione e resimbolizzazione del reale: la parola poetica nel
tempo della povertà non può che, come già per Holderlin, essere
mitopoietica.
Intendere la poesia come un processo mitopoietico può riportarci
alle parole con cui un grande studioso della classicità , Karoly Kerenyi
ha descritto quel sapere senza concetto, quel sapere per immagini che
era, a suo avviso, l’essenza della mitologia: “in che modo serviva la
religione antica da “dimora “ all’uomo ?che cosa riceveva l’uomo da
quel prodotto spirituale?[…] Essa gli dava immagini. Che genere di
immagini? E che cos’era il contenuto e l’involontario insegnamento di
quelle immagini? Per esempio delle immagini relative all’immagine
dell’uomo? alla sua posizione nel mondo? al mondo stesso che lo
circondava e che dopo veniva chiamato con una parola filosofica
‘physis‘, ‘la natura’ ?” [Kerenyi,1979
2
: 31]. E’ tramite le immagini offerte
4
dalla mitologia che, secondo Kerenyi, l’uomo greco instaurava un
rapporto col mondo, si sentiva ‘fuso’ con esso. Se tale era il genuino
compito della mitologia, qual è il senso della presenza del mito nella
poesia del novecento, ora che l’aria che tocca di respirare è l’aria della
notte senza dei? Del mondo dal quale gli dei sono fuggiti?
Discendere dentro la notte del mondo significa fare esperienza
nel senso più radicale, andare incontro al pericolo, al rischio di una
perdita; in questo senso la vita di Campana è eloquente: è l’esperienza
dello sradicamento che segna il percorso poetico dei Canti Orfici.
Sradicamento che esprime, negli Orfici, il senso profondo della crisi del
linguaggio, di quella rottura del patto tra la parola e il mondo, attestato
dalla lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal, portato evidente di una
civiltà che non ci appartiene più e correlato evidente di quella cesura
tra ‘io’ e ‘mondo’ ravvisabile poi in tanta poesia del Novecento (si pensi,
ad esempio, al tema premontaliano del miracolo ricorrente negli Orfici).
In Campana, allora, il ricorso al mito manifesta la necessità di
rovesciare lo scacco e la minaccia del silenzio (si pensi all’ingorgo
afasico di Genova, nel quale si perde il tentativo poetico campaniano),
in una nuova aurora del senso, in un dire inaugurale che fondi, instauri,
un dialogo familiare col mondo.
Da questo bisogno occorre partire per interrogarsi propriamente
sulla presenza del mito nella poesia del Novecento, e nel caso
specifico nelle opere di Campana. Che ruolo svolge la refigurazione del
mitico nei Canti Orfici? Perché il poeta sente la necessità di reclamare,
sin dal titolo (che in ogni opera degna di questo nome non ha mai un
5
ruolo casuale o secondario), l’appartenenza del suo percorso poetico a
un dire ‘orfico’? Non sarà da qui, proprio da qui, che è opportuno
partire per interrogarsi sulla consistenza, sul ruolo, sui limiti del suo
‘orfismo’? Dal bisogno, cioè, di tessere attorno a sé una rete di
immagini viventi, nell’epoca in cui gli dei sono andati via, che, come le
figure degli antichi dei per i greci, siano per noi l’accesso primario e
fondativo al reale.
La refigurazione del mitico va, dunque, opportunamente letta
come un ricorso al carattere fondativo della mitologia, ricorso che è
rintracciabile già agli albori della poesia simbolista se, come ha scritto
Novalis, il compito della poesia è di creare “un brulichio di forme nuove
pronte a proiettarsi nel mondo, a dare senso al mondo, a trasformare
l’ovunque del mondo in una casa“ [Rella, 1994: 20] e se l’imperativo
Schlegeliano di “rendere romantica la superficie della terra“ [Rella,
1994: 7] passa attraverso l’elaborazione di una nuova mitologia che
guarda alla Grecia come suo fondamento. Una Grecia che nei
romantici e in Nietzsche apre la strada al futuro: il dio dei romantici, il
Dioniso di Holderlin è ‘der kommende gott’, il dio che deve arrivare. Le
figure degli dei appaiono cariche di futuro in quanto cantate da dei
‘veggenti’, da poeti, cioè, che assumono senza mediazioni, da
protagonisti, il meccanismo genetico della mitologia. E’ l’onda lunga
della tradizione romantica che arriva, tramite La nascita della tragedia
di Nietzsche, sino a Campana. E’ il Dioniso orfico, il dio della tragedia
greca, con le sue laceranti contraddizioni, che ritroviamo nell’epigrafe
dei Canti Orfici “They were all torn and covered with the boy’s blood“
[CO, 1989
2
: 234]. Ma la presenza di Dioniso non va letta come
6
manifestazione di una sostanza extratemporale dell’essere, che si
manifesta mediante gli archetipi (una lettura basata sulla
fenomenologia del mito di Eliade è stata comunque tentata da Bonifazi
[1978
2
] nella sua ormai classica monografia su Campana). Se Dioniso
è il dio dei romantici, di Holderlin, di Campana, lo è perché nelle figure
di questi poeti si rifrange la problematica dell’epoca, il senso in cui si
muovono le lancette dell’orologio
Se, dunque, il tentativo mitopoietico cerca una strada per un
accesso genuino al mito, tale accesso, fatalmente, non può
prescindere da un dialogo profondo con le forme, le figure della
classicità: “Le grandi figure della tradizione classica“ che “chiudono la
loro forza tra le ciglia“ [CO, 1989
2
: 157].
A questo punto emerge con chiarezza una questione che non
può essere ulteriormente elusa: il problema del rapporto con la
tradizione classica. E’ necessario chiedersi se, e in quale misura,
l’orfismo campaniano presenta dei punti di contatto con l’orfismo della
Grecia antica: interrogarsi sulla presenza del mito nella poesia del
Novecento, sul suo senso e la sua verità, non può prescindere,
pensiamo, da un confronto con ciò che secondo gli storici delle
religioni, i filologi, i filosofi è stato l’orfismo nella Grecia arcaica e
classica.
Per le ragioni esposte, il presente lavoro intende affrontare il nodo
critico dell’orfismo, fino ad oggi più eluso che sciolto dalla critica
letteraria, tentandone una lettura che lo riconduca dentro una
fenomenologia unitaria, con l’obiettivo preciso di restituire, per quanto
7
possibile, concretezza e contenuti ad un concetto altrimenti nebuloso e
astratto.
Secondo le esigenze sopra indicate, la tesi si strutturerà
affrontando inizialmente la vexata quaestio dell’orfismo in Grecia,
riportando i termini di un dibattito, a tutt’oggi, molto acceso e ricco di
una gran varietà di posizioni interpretative, e cercando di sottolineare i
punti di contatto (ma è impresa assai ardua) tra le diverse teorie e i
diversi approcci metodologici (antropologici, filosofici, filologici, ecc.)
che hanno segnato gli studi sull’orfismo. Successivamente, com’è
lecito che sia, si cercherà di dialogare con gli autori che sono più
congeniali all’impianto generale della tesi, in particolare modo con i
lavori di Kerenyi, Otto, Colli, ecc., con coloro, cioè, che, secondo la
definizione di Furio Jesi si sono sentiti più fenomenologi
1
che storici del
mito. Ciò non significa, naturalmente, il venire meno dell’attenzione
verso le fonti; tuttavia, sebbene l’attenzione al dato positivo resta una
premessa imprenscindibile per ogni lavoro che aspira a definirsi
scientifico, ci piace ricordare con Nietzsche che ciò che risulta decisivo
non sono i fatti, ma le interpretazioni dei fatti, o, detto in altri termini,
che i fatti appaiono tali solo dentro un’interpretazione, secondo ciò che
Heidegger ha chiamato circolo ermeneutico: quella circolarità del
sapere (di ogni sapere) per cui noi ci muoviamo già da sempre dentro
una pre-comprensione (un’interpretazione) dell’oggetto elevato a tema
della ricerca.
1
Vedi, avanti, p. 10
8
Un approccio metodologico che rivendichi l’imparziale e
scientifica neutralità dello sguardo, che formula ipotesi solo a partire da
dati certi fonti e tradizionali rischia poi di prodursi in una curiosa
schizofrenia, testimoniata da un passo della Fede negli elleni, l’opera
che Wilamowitz ha dedicato allo studio della religione greca: “Io stesso
ho avuto una sua epifania -si riferisce a Pan- quando, mentre
cavalcavo per una gola dell’Arcadia all’improvviso apparve sopra il mio
capo, fra le fronde di un albero, un solenne caprone…” [Jesi, 1989
2
:
54]; giustamente Kerenyi, il più feroce avversario dei filologi alla
Wilamowitz, dirà “significa ciò attingere a dati certi, a fonti tradizionali?
Per parte mia vedo qui soltanto due dati reali: il caprone e il professore
di Berlino”[Jesi, 1989
2
: 78 ]. L’evidente schizofrenia dello sguardo
contenuta nel passo citato attesta, con grande chiarezza, una evidente
difficoltà nell’approccio all’antichità propria di Wilamowitz e dei seguaci
del ‘metodo storico’; se la filologia, in quanto scienza storica, deve
porsi come obiettivo solo l’accumulo dei dati tradizionali, questo
esclude qualunque esegesi che sia vivificata dall’intuizione e
dall’emozione, che trovi in un approccio fortemente simpatetico alla
grecità la forza necessaria per penetrare e illuminare i dati della
tradizione, per conferirgli un senso; al più, come fa Wilamowitz, si
collocano in due teche separate i dati storici rigorosamente ricostruiti e
le emozioni e le intuizioni del cultore della classicità che, ma non in
quanto filologo! si abbandona alle epifanie degli dei.
L’esempio citato è stato riportato perché non ci sembra che i
termini del dibattito sull’approccio ai dati dell’antichità si siano spostati
di molto dall’epoca della querelle tra Nietzsche e Wilamowitz
9
sull’origine della tragedia greca; citiamo, per esemplificare, due autori
contemporanei i cui presupposti metodologici sono evidentemente
opposti. Da una parte un filosofo come Giorgio Colli ritiene, a proposito
della sapienza greca (nella cui tradizione a suo avviso rientra l’orfismo),
che “è alla più remota tradizione della poesia e religione greca che
bisogna rivolgersi, ma l’interpretazione dei dati non può evitare di
essere filosofica. Si deve configurare, sia pure in via ipotetica,
un’interpretazione sul tipo di quella suggerita da Nietzsche per
spiegare l’origine della tragedia“ [Colli, 1998
2
: 14] e che solo, dato il
carattere frammentario delle fonti, “la qualità imprevedibile della
fantasia, la gioia dell’uomo di fronte a visioni terribili [….] accennano al
nucleo perduto di quella vita” [Arrighetti, 1989: 9], dove è chiaramente
una visione ‘guidata’ dalla ‘simpatia’ con la sapienza greca a ‘integrare’
la lacunosità dei dati. Dall’altra un filologo come West principia il suo
libro sui poemi orfici ironizzando sulla “magia del canto di Orfeo“ [West,
1993: 13], che, oltre ad attirare animali ed alberi, “ha attratto un seguito
più disordinato, una folla eterogenea di romantici e mistici, di impostori
e poetastri, di filosofi stravaganti e studiosi disorientati“ [West, 1993
2
:
13], aggiungendo, quindi, che, più che di sapienza, è opportuno parlare
solo di “letteratura orfica, non di orfismo o di orfici” [West, 1993
2
: 14]
dato che “questioni che mancano di prove per essere risolte è meglio
lasciarle irrisolte“ [West, 1993
2
: 14].
Testi, dunque, e dati certi contro un’interpretazione della grecità
che cerca di sposare il rigore filologico (le capacità di Colli come
filologo sono indubbie) con la ‘risonanza’ che suscita in noi la vita greca
10
che “appare come sapienza pur restando vita fremente“ [Colli 1995
2
:
15].
Le posizioni espresse sull’argomento ‘orfismo’ sono, molto più
variegate, ma, ovviamente, non è questa nota introduttiva la sede
opportuna per passarle in rassegna tutte; tuttavia, ci sembra che le
citazioni degli autori su riportati (per anticipare un tema che
affronteremo nel capitolo successivo) siano grossomodo
rappresentative di due linee interpretative ancora oggi affermate.
Ci si è soffermati così a lungo sugli aspetti metodologici
dell’approccio ai dati perché, ormai è chiaro, la questione dell’orfismo,
della valutazione delle fonti, non appare essere disgiunta da una
interpretazione complessiva della grecità e del rapporto che la lega a
noi. Dover fare i conti con un’interpretazione e una valutazione
dell’orfismo, significa fare i conti con i presupposti di metodo che hanno
guidato una determinata lettura dei fenomeni; presupposti che sono
un’evidente conseguenza di una netta bipartizione degli orientamenti di
pensiero: “Accettare o spiegare, o meglio: studiare il materiale
mitologico con la consapevolezza che lo studio deve in ultima istanza
promuovere l’accettazione della mitologia, il ‘bere alla sorgente’
(secondo le parole di Kerenyi), oppure con la consapevolezza che lo
studio deve trovare compimento nella spiegazione delle ragioni per cui
il materiale mitologico si è plasmato in diverse forme” [Jesi, 1989
2
: 57].
Il capitolo successivo terrà conto di entrambi gli orientamenti
privilegiando i lavori degli studiosi che non hanno storicizzato e dunque
sterilizzato il rapporto con il passato (storicizzazione che a nostro
11
modesto avviso ha i suoi pesanti strascichi, se è vero che l’avvento di
una ‘ragione solo ragionante’, che ha espunto i paradigmi mitici,
relegandoli nell’ambito delle fantasie o delle culture dei popoli primitivi,
presta il fianco al ritorno del mito rimosso sotto forma di nuove
aberranti forme di superstizione di massa, che hanno le loro radicali
conseguenze politiche: Il mito del XX secolo di Rosenberg ne è il frutto
più infausto), ma che hanno cercato un dialogo con la tradizione.
Successivamente si affronterà il problema dell’orfismo nell’opera
di Campana: si cercherà di vedere se un raffronto con la tradizione
classica possa contribuire a chiarificare il senso profondo della ripresa
novecentesca del mito. In seguito, cercheremo di far dialogare la
nostra interpretazione con le letture dell’orfismo di Campana offerte
dalla critica novecentesca, la quale, in base alle interpretazioni via via
date, ha collocato Campana in un orizzonte di volta in volta provinciale
o europeo. C’è da chiedersi, allora, se una ricognizione critica
dell’orfismo campaniano, svolta con strumenti critici in parte revisionati,
possa contribuire a ridimensionare le letture infelicemente
provincializzanti e riduttive, che, da Contini a Mengaldo (per citare le
più celebri), si sono susseguite nella storia della critica letteraria di
questo secolo.
12
Capitolo I
La questione orfica
1. Che cosa è inteso per orfismo?
Orfeo, orfismo sono dei termini ricorrenti, usati dalla critica
letteraria italiana per denominare esperienze poetiche che tra loro
presentano delle affinità ma anche molte (troppe) differenze. Sono
rubricate come orfiche le opere di Mallarmè, Rilke, Campana,
Rimbaud, Nerval ecc.; la lista potrebbe naturalmente allungarsi, tanto
da far nascere il sospetto che il nome di Orfeo e il riferimento ad un
non ben definito “orfismo” siano diventate delle parole passe-partout,
buone per indicare qualunque tipo di esperienza poetica
‘genericamente mistica‘. Lascia, infatti, perplessi il ‘vaghismo‘ con il
quale parte della critica ha affrontato e spesso sommariamente
liquidato l’argomento; perplessità che nasce dallo smarrimento in cui lo
studioso, lo studente, o il semplice lettore di poesia cadono non
appena l’etichetta di ‘orfico’ appare per denominare questo o quel
passo, questo o quel poema. Lo smarrimento aumenta quando il lettore
che inciampa su un aggettivo così problematico si chiede quasi
spontaneamente: che cosa è inteso per ‘orfismo‘? Che cosa intendono
i critici che individuano una linea orfica nella poesia italiana nel
novecento? Non che manchino le definizioni, anzi: l’explication
orphique de la terre in cui consisteva, secondo Mallarmè, il compito
13
della poesia intesa come voce dell’assoluto e che, nelle sue
conseguenze ‘pratiche’, dava luogo ad una poesia che si dissolveva in
pura suggestione sonora, in squisita e rarefatta musicalità verbale,
rimanda alle virtù magiche e ‘apollinee’ della musica di Orfeo, alla sua
capacità di far muovere le pietre e gli alberi, di ammansire le bestie
feroci. In che misura, però, un così esile riferimento metaforico riguarda
qualcosa come ‘l’orfismo’, termine, secondo alcuni studiosi della
classicità, di conio esclusivamente moderno? E soprattutto una
definizione così generosamente vaga può essere utile alla
comprensione di un testo, alla sua collocazione, al suo inquadramento
storico? ‘L’orfismo’ di Celan si risolve nella parola assoluta di
Mallarmè? Il Campana ‘orfico‘ s’innesta naturalmente nella linea della
poesia pura, nella voce più rarefatta dell’ermetismo toscano?
Sono tutte domande che per trovare risposta necessitano di una
parziale revisione degli strumenti con i quali tradizionalmente la critica
opera; nel nostro caso riteniamo necessario rifarsi al background
storico-religioso. Il rischio altrimenti è di ritrovarsi, sedotti dalla magia
della musica di Orfeo, con un concetto, l’orfismo, completamente vago
e virtualmente senza significato.
Possiamo parlare di un ‘orfismo‘ moderno, della ricezione del
mito di Orfeo (che in quale misura poi andrebbe messo in relazione con
‘l’orfismo’?) prescindendo dal confronto con ciò che esso è stato nella
grecità? Prima di ridurre il termine ‘orfico’ a puro flatus vocis, a mera
fantasia mitopoietica affatto moderna, occorre, a nostro avviso,
chiedersi se un raffronto con l’orfismo in quanto fenomeno dotato di
14
una sua concretezza storica (negata, come vedremo, da alcuni
studiosi) e di una sua tradizione possa contribuire a chiarire il senso
della sua presenza nella poesia del Novecento.
In altre parole, qualunque sia l’atteggiamento del critico di fronte
a un fenomeno così sfuggente (tra gli studiosi dell’antichità l’orfismo ha
alimentato un ginepraio di interpretazioni e polemiche), la necessità di
definirne, per quanto possibile, i contenuti è il primo passo di un’analisi
che vuol essere seriamente critica. Che poi questo di per sé investa,
inevitabilmente direi, il senso del rapporto con il passato, di ciò che
debba essere inteso per mitologia autentica e genuina, è aspetto che
non può essere eluso bensì affrontato in tutta la sua problematicità.
L’orizzonte di senso dentro il quale la presente ricerca si colloca è stato
in parte delineato nella premessa introduttiva, ma vale la pena di
riportare le parole di uno studioso della ‘nuova mitologia’, Martin Frank:
“ la questione della ‘originalità’ o dell’’autenticità’ di un mito è però
problematica [….] l’uso della mitologia [ ….] non si discosta dal lavoro
del mito ma è al contrario lo sviluppo di quel lavoro, che consiste
nell’interpretare il mondo e dargli una struttura. Come la mitologia è
una ricreazione della natura, così essa è a sua volta suscettibile
d’infinite ricreazioni poetiche“ [Frank 1994
2
: 270].
15
1.2 Orfeo e l’orfismo.
“ Orfeo dal nome famoso“, così recita un verso di Ibico, lirico
greco del VI secolo a.C., che rimane a tutt’oggi la più antica
testimonianza letteraria pervenutaci su un nome così evocativo e allo
stesso tempo così sfuggente. Il nome di Orfeo, infatti, è ricco di
risonanze e suggestioni che si assommano in una figura estremamente
poliedrica e articolata.
Secondo Emmet Robbins, la figura che la cultura europea ha
ereditato dall’antichità ha una triplice personalità: Orfeo è: “not only
lover and musician but priest“ [Warden, 1982: 3]. L’Orfeo amante
appartiene al folklore: in moltissimi racconti folklorici ritorna il motivo
dell’eroe che sfida le potenze delle tenebre per salvare la propria
amata; l’Orfeo poeta è una figura leggendaria, giacché la leggenda è
più vicina alla storia del folklore e del mito e il racconto del “gentle
singer whose gift makes savage nature tame “ [Warden, 1982: 3] non
racchiude nient’altro che la storia dell’avanzata della civilizzazione e
delle arti. L’Orfeo teologo e iniziatore ai misteri, infine, è “the most truly
mythical figure“ [Warden, 1982: 3]. Quest’ultima affermazione rende
evidente il rapporto tra una figura dai contorni poco definiti è uno dei
temi più controversi della storia delle religioni: l’orfismo.
Prima però di interrogarci sul possibile legame tra la figura di
Orfeo e la ‘religiosità orfica ‘, sentiamo la necessità di dare forma, per
quanto possibile, a questa figura nebulosa.
16
Chi è stato Orfeo per i greci? Secondo la versione più diffusa
Orfeo figlio della musa Calliope e di Eagro (secondo i più il nome
indicherebbe una divinità fluviale tracia, secondo Kerenyi
significherebbe ‘cacciatore solitario’) “crebbe in Pieria il paese delle
muse olimpiche. Apollo sarebbe stato il suo maestro. Il dio lo istruiva su
quella lira che gli aveva regalato Ermes e che egli a sua volta regalò ad
Orfeo. Nelle balze selvagge dell’Olimpo il giovane radunava intorno a
sé, suonando la lira e cantando, gli alberi e gli animali selvatici“
[Kerenyi, 1997
2
: 267]. Secondo quanto narrano le antiche storie Orfeo
sarebbe successivamente sceso nell’Ade per amore della sposa
Eurydice
2
. La storia ebbe inizio con la fuga di Eurydice davanti a un
amante indesiderato, Aristeo
3
, fuga nella quale, in seguito a una
caduta, venne morsa da un serpente e morì. Orfeo in preda al dolore
vagò per tutta la Grecia, invocandone il nome col suo canto
lamentevole finché si decise a varcare la soglia del regno dei morti.
Qui, grazie alle virtù del suo canto riuscì ad ammansire le forze
selvagge degli inferi: Cerbero smise di latrare, Issione di girare sulla
ruota, Sisifo di faticare inutilmente, e Persefone commossa dal suo
canto acconsentì a restituire Eurydice al mondo dei vivi.
2
Il cui nome per Kerenyi rimanda alla figura di Persefone, poiché significa ‘colei che
giudica in un vasto territorio’. Eurydice, però, è solo uno dei nomi della sposa di Orfeo e
non il più antico: è attestato per la prima volta in un poema del I secolo a.C., il Lamento
per Bione. Più antico è l’altro dei due nomi la cui tradizione è meno sicura: Agriope: ’dal
volto selvaggio’ o Argiope: ‘dal volto luminoso’; anche il nome più antico rimanderebbe
alla regina del mondo infero. La presenza di Persefone rinvierebbe ad un ambito di
carattere misterico: diversi studiosi (cfr. [Macchioro, 1930] e con maggior rigore e
perizia[Colli, 1995
2
) hanno sostenuto la tesi di un rapporto molto stretto tra l’orfismo e i
misteri eleusini.
3
Secondo Kerenyi “ lo Zeus ‘melato’ dei morti, Zeus milichio che si presentava sotto
forma di serpente altri non era che Aristeo” [Kerenyi, 1997
2
: 269]. Aspetto che
avvalorerebbe l’ipotesi di un parallelismo tra il ratto di Kore e la morte di Eurydice (che
viene ‘rapita’ dal mondo dei vivi da un morso di serpente, simbolo dello Zeus ctonio).