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che si ha delle disuguaglianze indagate, sia agli scopi che vengono
perseguiti.
Al fine di evidenziare il grado delle relazioni finanziarie tra imprese
e il grado di potere economico presente nel sistema italiano,
caratterizzato da una struttura del tutto particolare, l’oggetto dello
studio sarà il gruppo societario.
Per questo motivo, la ricerca empirica verrà effettuata sulle
principali società italiane, suddivise nei settori caratterizzanti
l’industria in senso stretto.
In tale contesto, quindi, assumerà rilevanza, non solo l’analisi
descrittiva dei livelli della concentrazione, ma anche l’esame della
struttura interna dei settori industriali stessi.
Nello stesso tempo, risulterà di fondamentale importanza l’analisi
delle determinanti della concentrazione relativa al già citato tipo di
collettivo statistico.
L’intenzione è quella di raggiungere, con l’ausilio della tecnica della
regressione multipla e del software “Statistica”, la formalizzazione
di un modello statistico che evidenzi le relazioni tra le determinanti
del fenomeno esaminato ed il fenomeno stesso.
-3-
CAPITOLO 1
LA CONCENTRAZIONE INDUSTRIALE
1.1 Il concetto di concentrazione industriale
Il concetto di concentrazione in statistica indica la tendenza che un
fenomeno o carattere ha di accentuarsi in uno o in pochi individui,
luoghi, tempi, etc.
Tale concetto, che è opposto a quello di equidistribuzione, è stato
introdotto in statistica per studiare la distribuzione dei redditi e la
distribuzione delle quote di mercato di una determinata industria o
settore.
In questa sede si porrà l’attenzione sul secondo aspetto, in
considerazione della stretta relazione che esiste tra la misura della
concentrazione e il diverso potere di mercato detenuto da imprese o
gruppi aziendali nell’ambito di ciascuno dei settori industriali
L’assunto fondamentale dell’analisi della struttura produttiva risiede
nel fatto che un mercato o settore industriale è più concentrato
quanto minore è il numero delle unità produttive e quanto più
disuguale è la distribuzione delle quote di mercato.
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Il termine concentrazione assume significati diversi al variare degli
ambienti specifici cui è riferito.
In tal senso è opportuno esaminare alcune delle tipologie proposte
in letteratura (Tassinari, 1984).
Si definisce concentrazione di “mercato” la proporzione delle
vendite realizzate sul mercato dei beni e dei servizi da parte di un
piccolo numero di venditori o la proporzione degli acquisti effettuati
da un esiguo numero di compratori.
Si è di fronte alla concentrazione “tecnica” quando come unità di
riferimento viene assunto lo stabilimento, al fine di realizzare la
descrizione del grado di disparità dimensionale esistente tra gli
impianti.
Lo studio in questione viene operato in termini di intensità di un
carattere che viene assunto come indicatore della dimensione degli
stabilimenti, indipendentemente dai legami finanziari e giuridici che
possono intercorrere tra le unità produttive che operano nel mercato.
È opportuno precisare che la verifica dell’evoluzione avvenuta nei
diversi comparti industriali in merito al grado di concentrazione
tecnica dà la possibilità al ricercatore di formulare ipotesi concrete
sull’intensità e la portata dei processi di decentramento produttivo.
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Si parla di concentrazione “economica”, invece, quando l’unità di
riferimento è l’impresa, intesa, in questo caso, come unità giuridica e
statistica.
In tale ipotesi viene anche messo in risalto il nesso che lega il
numero di imprese ed il numero di unità locali da esse dipendenti,
traendo, così, importanti indicazioni sull’assetto organizzativo delle
imprese.
Ulteriore significato assume il concetto di concentrazione
“finanziaria”, che, come oggetto di osservazione privilegiato,
considera il gruppo di imprese che producono beni simili o sono
collegate da partecipazioni azionarie e guidate da una unità
economica centrale, anche se è utile osservare che non sempre
l’esistenza di gruppi si sostanzia nella stipulazione di accordi
formali.
L’indicazione che deriva da questo tipo di concentrazione è quella
del grado di potere economico presente nel sistema.
Un’altra tesi (Zanetti e Frigero, 1984) considera la concentrazione
come risultato di un processo dinamico mosso, soprattutto, da
fenomeni di coalizione e fusione fra imprese che portano alla
progressiva riduzione del numero delle imprese economicamente
autonome in un determinato settore.
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Quest’ultimo concetto, in ultima analisi, potrebbe ritenersi
riconducibile alle cause di aumento del grado di concentrazione
finanziaria.
Dal punto di vista empirico, mentre da un lato si è assistito al
proliferare di studi relativi ai concetti di concentrazione tecnica,
economica e di mercato, dall’altro, pochi risultano essere i tentativi
di valutare il grado di concentrazione finanziaria esistente nel
sistema industriale italiano.
Tale circostanza è essenzialmente dovuta alla mancanza di notizie,
reperibili da censimenti o altre fonti statistiche ufficiali, riguardanti
l’appartenenza delle imprese a gruppi societari, notizie che risultano
indispensabili per qualsiasi tipo di approfondimento sulla
concentrazione finanziaria.
Il ruolo assunto dai gruppi societari, costituiti da un’unità economica
centrale che opera su base globale e che controlla insiemi di entità
distinte, è cresciuto di importanza con l’evolversi dell’economia di
tipo capitalistico.
Questi grandi gruppi, costituitisi grazie a fusioni ed acquisizioni o
grazie a scelte fortunate nei processi di produzione o nelle politiche
di vendita, hanno alterato il meccanismo di mercato, dotandosi, in tal
senso, di un potere significativo e destando, conseguentemente, la
-7-
preoccupazione delle autorità governative e degli economisti, i quali
non hanno potuto fare a meno di spostare l’attenzione sulle
principali determinanti di questi processi.
Quindi, si impone un’analisi approfondita delle caratteristiche e
dell’evoluzione dei gruppi societari per un’adeguata misurazione
della concentrazione finanziaria relativa ad essi.
In Francia, ad esempio, l’Insee fin dal 1981 raccoglie informazioni
sistematiche di tale tipo, rendendo così possibile l’introduzione del
concetto di “gruppo”nel calcolo degli indici di concentrazione
(Monfort e Vassille, 1985).
1.2 Determinanti della concentrazione
Dopo aver esaminato quali significati può assumere il concetto di
concentrazione industriale, risulta essenziale individuare quali
potrebbero essere i principali fattori determinanti i livelli di questa
caratteristica della struttura industriale.
Inizialmente la tradizione degli studi di economia industriale ha
circoscritto l’analisi ad un numero ristretto di variabili esplicative del
fenomeno che, in coerenza con il paradigma strutturalista, avevano
una natura esogena rispetto al settore in esame.
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Nell’ambito di questo approccio, per esempio, Arrighetti (1990) ha
stimato, con riferimento all’economia italiana, tali fattori tramite un
modello in cui risulta che la variabile rappresentativa delle economie
di scala è significativa con coefficiente positivo, pertanto i settori
con più elevata concentrazione in un Paese tendono ad essere i
settori con maggior concentrazione anche negli altri, fatto che porta
a ritenere che la tecnologia ed i vantaggi di scala ad essa associati
influenzano positivamente il livello di concentrazione.
Inoltre, il coefficiente relativo alla dimensione del mercato è
negativo: è probabile, infatti, che un mercato ampio sia più
facilmente segmentabile di uno meno ampio, per cui si può creare lo
spazio per l’ingresso di imprese di dimensioni minori e magari
specializzate.
Infine, visto che i vantaggi della scala produttiva tendono ad
esaurirsi al crescere delle dimensioni, in quest’ottica è realistico
pensare che gli eventuali incrementi dei livelli di concentrazione
devono essere attribuiti all’influenza di altre variabili, tra le quali un
particolare rilievo assumono le barriere all'entrata (distinguendo
quelle involontarie, le sole ad essere comprese nel modello
tradizionale, dalle barriere erette intenzionalmente allo scopo di
limitare la possibilità di nuovi ingressi).
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In seguito, però, il modello di Arrighetti è stato sottoposto ad
un’ampia verifica critica che ha messo in evidenza carenze relative,
da un lato, agli sviluppi più recenti della teoria della concorrenza e
delle forme di mercato, e, dall’altro, alla mancanza, nel modello, di
variabili rappresentative di alcuni aspetti relativamente innovativi
della competizione tra imprese.
In merito al primo aspetto, emerge che la struttura dei settori, oltre
ad essere condizionata dalle variabili esogene al comparto, appare
come il risultato delle condotte “strategiche” messe in atto dalle
singole imprese.
In relazione al secondo aspetto, infine, il modello tradizionale si è
arricchito di variabili quali: le importazioni, il potere di
contrattazione dei clienti in termini di grado di oligopsonio della
domanda, differenziazione e diversità dei prodotti.
Spiegazioni differenti del grado di concentrazione sono possibili se
si esamina, invece, il più innovativo modello di Sutton (1991), il
quale analizza il rapporto tra dimensioni del mercato e
concentrazione assumendo come endogene le spese per pubblicità e
R&S.
In questo caso rimangono esogene le sole economie di scala.
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Nell’ottica di Sutton, nel caso specifico di industrie che producono
beni eterogenei, i costi irreversibili saranno determinati
endogenamente e la relazione inversa fra dimensione del mercato e
concentrazione non sarà necessariamente valida.
Esisterà, invero, un valore minimo del livello di concentrazione di
equilibrio, al di sotto del quale non si scende, indipendentemente
dalle dimensioni del mercato.
Sutton, infatti, mostra che qualora cresca la dimensione del mercato,
inizia una “guerra” tra imprese per appropriarsi della quota
maggiore di tale aumento.
Ciò accresce i livelli di costo in pubblicità e R&S che le potenziali
entranti nel mercato dovranno sopportare.
In tal modo, contrariamente alla teoria tradizionale, all’aumentare
delle dimensioni del mercato, aumenterà anche l’altezza delle
barriere all’entrata e i livelli di equilibrio della concentrazione.
Deve precisarsi, però, che la teoria in esame è stata verificata in
industrie con livelli di spese pubblicitarie medio-alte.
Ulteriori fattori che hanno contribuito alla crescita dei livelli di
concentrazione, soprattutto negli Stati Uniti, sono stati i processi di
fusione e acquisizione.
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Alcuni studi, infatti, indicano che la crescita delle grandi imprese è il
risultato più di tali processi che di un vero e proprio sviluppo interno
all’impresa stessa.
Finora è stato assunto che i processi di concentrazione siano
determinati da variabili quali la tecnologia, la dimensione
del mercato, l’efficienza dell’organizzazione manageriale;
completamente differente è l’impostazione di analisi secondo la
quale il livello di concentrazione è il risultato di fattori casuali.
Un modello che segue questa linea teorica è quello basato sulla legge
di Gibrat
1
degli effetti proporzionali e che ha lo scopo di ricavare le
distribuzioni teoriche delle dimensioni delle imprese.
In effetti, è realistico affermare che i livelli di concentrazione delle
industrie sono, in parte, influenzati da fattori casuali.
Ciò si evidenzia facilmente anche sulla base della discrepanza
esistente tra i valori teorici e i risultati empirici ottenibili tramite i
modelli statistici utilizzati.
Deve, in ogni caso, condividersi l’opinione per la quale entrambi gli
approcci esaminati (deterministico e stocastico) risultano validi ai
1
La formulazione forte della legge di Gibrat implica, in questo caso, che a) il tasso di
crescita di un’impresa in un periodo non influisce sul tasso di crescita in periodi diversi;
b) la distribuzione di probabilità dei tassi di crescita è uguale per tutte le imprese; c) la
media e la varianza dei tassi di crescita sono uguali per tutte le imprese,
indipendentemente dalle dimensioni.
-12-
fini della spiegazione dei livelli di concentrazione, ma incompleti se
considerati singolarmente.
1.3 Trend storico della concentrazione: l’esperienza americana
Gli studi sulle tendenze della concentrazione hanno riguardato sia il
complesso dell’economia che i singoli settori produttivi.
Com’è logico aspettarsi il numero più elevato di lavori empirici
riguarda gli Stati Uniti, relativamente ai quali le tendenze generali
del fenomeno a livello aggregato hanno mostrato che la
concentrazione è aumentata solo se si considerano periodi
sufficientemente lunghi (per esempio dal 1910 al 1970) e che non vi
è stato un aumento della concentrazione nel secondo dopo guerra e
negli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso, nonostante l’ondata di fusioni
e acquisizioni.
Occorre evidenziare, però, che il dato aggregato è di difficile
interpretazione perché è influenzato, soprattutto, dalla nascita di
nuovi settori nei quali predominano le piccole e piccolissime
imprese.
Se si considera, infatti, la tendenza per i singoli settori, i risultati
cambiano notevolmente mostrando un’evoluzione differenziata della
concentrazione, e ciò a causa dei fattori, determinanti i livelli di
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concentrazione, che producono effetti quantitativamente diversi in
relazione alla specificità di ogni settore.
In alcuni settori, come il manifatturiero, la struttura di mercato
dominante è l’oligopolio o la concorrenza monopolistica; in altri,
come il settore dei servizi, sempre in rapida evoluzione, prevalgono
le imprese di piccola e piccolissima dimensione.
Questa diversità a livello strutturale è perfettamente riscontrabile
allorquando si esaminino i livelli di concentrazione.
Per quanto riguarda l’industria manifatturiera, per esempio, W.
Shepherd (1970) ha trovato che nel 1966 l’indice di concentrazione
ponderato CR4 (calcolato sulla base delle prime 4 grandi imprese),
per gli USA, era pari al 60,3%, e, inoltre, che i tre quinti dell’attività
manifatturiera si realizzava in mercati dove l’indice in questione
superava il 50%.
Valori molto più bassi, invece, vengono riscontrati esaminando gli
indici di concentrazione che si riferiscono al settore dei servizi.
Scendendo ancora più a fondo nella separazione dei settori le
differenze di trend del grado di concentrazione risaltano in misura
maggiore.
Infatti, analizzando uno studio di Mueller e Rogers (1984), basato su
un campione di imprese appartenenti all’industria manifatturiera
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negli USA, questo mostra che il valore medio della concentrazione è
cresciuto nei mercati dei beni di consumo ed è, invece, diminuito in
quello dei beni di produzione.
Tali dati risultano, così, avere una tendenza opposta che non si
evidenzia ad un livello più basso di differenziazione settoriale, in
quanto, per il settore manifatturiero in generale, lo stesso studio fa
risaltare, sin da prima del secondo dopoguerra, un trend di crescita
modestamente positivo tendente a stabilizzarsi.
1.4 La situazione italiana
Per quel che riguarda l’Italia, dopo un periodo di crescita del livello
di concentrazione, si è assistito, nel settore manifatturiero, ad una
diminuzione della concentrazione, e ciò a partire dai primi anni ’50
del secolo scorso.
I livelli della concentrazione riferiti ai singoli settori produttivi, in
generale, hanno seguito le tendenze di massima degli altri Paesi
industrializzati, evidenziando però, un ritardo cronico nel loro
manifestarsi.
Nel caso italiano, per approdare ad una migliore lettura dei livelli di
concentrazione risultanti, è opportuno illustrare le particolarità del
sistema produttivo, soffermandosi, soprattutto, sui principali
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elementi di debolezza quali: la tipicità della struttura (troppo
sbilanciata verso la microdimensione), la scarsa specializzazione nei
settori fondati sulla scienza, la eccessiva rigidità nell’allocazione
delle risorse e la vulnerabilità energetica.
Inoltre, l’Italia emerge come il Paese che più di altri tollera
l’esistenza di barriere all’ingresso e l’interposizione di vincoli e
discriminazioni nel funzionamento dei mercati; ciò incrementa
l’elenco delle debolezze strutturali dell’economia nel quale vengono
incluse:
- le barriere e l’elevata pressione fiscale,
- l’eccessiva regolamentazione amministrativa e la fornitura di
servizi di bassa qualità,
- le barriere finanziarie per le imprese,
- le distorsioni di carattere normativo e formativo sul mercato
del lavoro.
Per quel che riguarda lo sbilanciamento della struttura produttiva
italiana verso la piccola dimensione, si osserva come tale struttura
può essere assimilata ad una distribuzione dimensionale scaturita da
un processo di crescita proporzionata di tipo Gibrat, che si
approssima, per la sua asimmetria positiva, ad una distribuzione
lognormale.