2
quindi a Corradino (1254) che, a partire dal 1258, fu sostituito dallo zio
Manfredi che regnò di fatto sulla Sicilia. Costui aveva sconfitto i Guelfi
toscani, alleati della Santa Sede, nella battaglia di Montaperti del 1260
inimicandosi papa Urbano IV che lo scomunicò. Nel 1265 papa Clemente IV
indisse una crociata contro Manfredi invocando l'intervento di Carlo I d'Angiò,
mentre gli Aragonesi prestando fede alla parola data al papa nel 1262, non
intervennero per aiutare Manfredi e nemmeno per far valere i propri diritti sul
trono di Sicilia in virtù delle nozze di Pietro III con Costanza, la bella figlia di
Manfredi il quale morì in battaglia a Benevento nel 1266. Il nipote Corradino
fu sconfitto nella battaglia di Tagliacozzo nel 1268 e decapitato a Napoli in
quello stesso anno, fu la fine della casata degli Svevi e l’inizio della pesante
dominazione angioina nel Regno di Sicilia. Papa Nicolò III, successore di
Clemente IV, non aveva grandi simpatie per l'accresciuta potenza di Carlo
d'Angiò e cominciò ad appoggiare Pietro III riguardo alla questione del Regno
di Sicilia. Nel 1280 Nicolò III muore e Carlo d'Angiò, nel 1281, riesce a far
eleggere un papa francese, Martino IV, il quale non vedeva di buon occhio il re
d'Aragona e che cominciò a dirigere contro costui tutta la forza materiale e
spirituale della Chiesa. Il 30 marzo 1282 il popolo di Palermo insorse, dando il
via ai Vespri Siciliani
2
e cacciò i francesi dall'isola nel giro di un mese. In
seguito i Siciliani inviarono una delegazione da Pietro III per chiedergli di
reggere il trono di Sicilia, il sovrano catalano accettò di buon grado, quindi
sbarcò a Trapani il 30 agosto 1282 con la sua armata e il 4 settembre fu
incoronato a Palermo re di Sicilia, al momento dell’incoronazione Pietro III
giurò di mantenere fede alle leggi e ai costumi normanni dell'Isola. Il papa
rispose prontamente a quest’offensiva Catalano-Aragonese inviando la
scomunica a Pietro III. Bisogna considerare che, il popolo catalano, è sempre
stato profondamente religioso e fedele alla Chiesa, ragion per cui mettersi
contro il Papato nella Guerra del Vespro fu una posta in gioco troppo alta,
2
Ivi p. 52
3
nonostante consistesse nel dominio sul Regno di Sicilia, perché potesse dare al
sovrano Catalano l'illusione di imitare la spregiudicatezza dei re germanici, i
quali consideravano la scomunica come un'arma materiale della Chiesa e
niente più
3
. Una decina d’anni più tardi il perdono della Chiesa fu la molla che
spinse Giacomo II il Giusto a concludere l'accordo d’Anagni del 1295, che
venne stipulato tra papa Bonifacio VIII, Carlo II d'Angiò detto lo Zoppo e lo
stesso Giacomo II. All’interno di questo accordo vi era una clausola segreta,
secondo la quale Giacomo II doveva rinunciare alla Sicilia per ridarla alla
Chiesa, in cambio di un nominale regno di "Sardegna e Corsica". Giacomo II
si impegnò a sposare Bianca d'Angiò, figlia di Carlo II nonostante avesse
contratto matrimonio civile con Isabella di Castiglia, figlia del re Sancio III, un
matrimonio non ancora consumato per via della tenera età della sposa, appena
otto anni, che il papa non avrebbe avuto difficoltà ad annullare. Il 25 ottobre
1295 Giacomo II sposa Bianca d'Angiò a Vilabertran. Tuttavia non era bastato
il matrimonio con Bianca, né la pace d’Anagni a porre fine alla Guerra del
Vespro, infatti i Siciliani, saputo dell'abbandono del loro re, sciolgono ogni
patto d’obbedienza con lo stesso, inviando alla corte di Giacomo II una
delegazione di Siciliani vestiti a lutto, per comunicare al re tale decisione. In
Sicilia rimaneva come luogotenente di Giacomo II il fratello Federico che, il
25 marzo 1296, diventa Federico III re di Trinacria come si chiamò, d’ora in
poi, il Regno di Sicilia. Vi fu una guerra contro Federico III che venne
concordata e dichiarata a Roma in occasione delle nozze di Roberto d'Angiò.
La presenza a Roma di Giacomo II ha per noi un significato ancora più
importante, poiché in quell'occasione Bonifacio VIII infeuda il Regno di
"Sardegna e Corsica", ma non le isole fisiche, a Giacomo II. L’infeudazione
del Regno di “Sardegna e Corsica” fu suggellata dalla cerimonia della coppa
d'oro che simboleggiava che Giacomo II era divenuto re di Sardegna e Corsica
per grazia di Dio ("Dei gratia rex Sardiniae et Corsicae") e che si svolse a
3
Ivi, pp. 54-55.
4
Roma in forma solenne il 4 aprile 1297. Questi gli avvenimenti principali coi
quali ebbe inizio un nuovo capitolo per la storia della Catalogna e della
Sardegna che portò i due paesi ad annientarsi nel corso dei due secoli
successivi
4
.
Al tempo di Pietro III il Grande re d’Aragona (1276-1285) nella politica della
Corona d’Aragona si era rivelata di vitale importanza un’espansione
mediterranea che consentisse alla stessa di giungere ai ricchi mercati orientali,
in concorrenza con Genova e Venezia, grazie alla “rotta delle isole” che
consisteva in una serie di approdi intermedi nelle Baleari, in Sardegna, Sicilia,
Grecia, Cipro che avrebbe dimezzato i tempi di percorrenza delle navi
mercantili che trasportavano spezie, seta ed altre merci preziose, che riduceva
il tragitto da 7. 277,6 a 3. 323,8 miglia, con un forte risparmio nella tratta da
Barcellona a Beirut e ritorno. La traiettoria mediterranea, con fulcro in
Barcellona, poggiava sulla Catalogna, sul Regno di Valenza, passava (dal
1299) per le Baleari e faceva perno (dal 1285) sulla Sicilia, per proiettare il
commercio catalano, con più intensità, verso le coste africane, per questo la
Sardegna era per loro essenziale strategicamente
5
. In sostanza fu questo il
motivo per cui Pietro III, nel 1262, sposa Costanza Hohenstaufen di Svevia e
comincia a vedere nella Sardegna un prezioso porto d’approdo per il
commercio oltremarino. L'atto d’infeudazione, datato 5 aprile 1297,
specificava che il Regno di “Sardegna e Corsica”, escluse le due isole fisiche,
apparteneva alla Chiesa, che lo stesso Bonifacio VIII lo concedeva in feudo
perpetuo a Giacomo II a determinate condizioni giuridico-militari, pena
l'invalidazione dell'atto, quali il mantenimento degli stessi sovrani d'Aragona,
il pagamento di un censo annuo di 2. 000 marchi d'argento alla Chiesa. Vi era,
inoltre, la clausola della non divisibilità del Regno, invece alla fine del 1400 la
Corsica fu eliminata dall'intitulatio regnii da Ferdinando il Cattolico poiché
4
Ivi, p. 75.
5
B. ANATRA, La Sardegna dall’unificazione Aragonese ai Savoia, Torino, 1987, p. 9.
5
mai conquistata. Il papa conferì a Giacomo II anche una licentia invadendi, al
fine di realizzare concretamente quel Regno. Il documento dell’infeudazione
del Regno è stato studiato nel XIX° secolo dallo storico Pasquale Tola che lo
ha pubblicato nel suo ottocentesco Codex diplomaticus Sardiniae.
6
Nell'atto d’infeudazione il papa non teneva affatto in considerazione la realtà
istituzionale delle due isole. La Corsica apparteneva a Genova e la Sardegna
era divisa in tante piccole entità giuridiche di varia forma e struttura,
denominate “giudicati”. Riguardo alla loro formazione l’ipotesi avanzata fino
ad oggi è che fra l'854 e l'864 d. C. , in un giorno non meglio precisato, il
luogotenente del distretto amministrativo bizantino (o mereia) di Torres
trasformò per primo, seguito dagli altri luogotenenti dei distretti amministrativi
bizantini di Càrali, Turris e Olbia, i propri strumenti di governo da
subordinati ad assoluti
7
dando vita ad uno Stato. Attraverso una
dichiarazione di sovranità davanti a Dio e al popolo, i singoli luogotenenti si
resero indipendenti dalla città di Caralis (attuale Cagliari) sede del potere, non
si sa se più o meno pacificamente, e fecero nascere i quattro “giudicati” di
Arborea, Logudoro o Torres, Càlari e Gallura, assumendo tutti i poteri e le
prerogative proprie di un monarca e dandosi il titolo di "giudice" o re, come
si può leggere nei documenti che riportano la frase Iudex sive rex (giudice
ovverosia re). I quattro "giudicati " erano Stati medioevali a tutti gli effetti
composti dal popolo, dal territorio e dal vincolo giuridico
8
che collegava gli
individui in un sistema ben ordinato di vita in base ad un’organizzazione
giudiziaria autonoma ed uniforme. I “giudicati” erano degli Stati sovrani
perché non riconoscevano nessuno altro Stato al di sopra di loro (non
recognoscens superiorem) in quanto sorti in condizione di completo
6
F. C. CASULA, La Sardegna Aragonese. La Corona d’Aragona, Sassari, 1990, Vol. I pp. 75 e segg.
7
F. C. CASULA, La storia di Sardegna, Pisa, Sassari, 1994, pp. 168 e segg.
8
S. PETRUCCI, Storia politica e istituzionale della Sardegna medioevale (secoli XI – XIV), in
Storia dei Sardi e della Sardegna, vol. II, Il Medioevo dai Giudicati agli Aragonesi, a cura di M.
Guidetti, Milano, 1986, cit. , p. 101
6
isolamento, perfetti perchè avevano la summa potestas, ossia avevano la
capacità di stipulare accordi internazionali, superindividuali, ovvero
appartenevano al popolo e non al re, contrariamente a molti Stati coevi che
erano ereditari. In sostanza la successione monarchica in ogni singolo
“giudicato” o regno non era automatica ma mista elettiva-ereditaria, poiché
l’intronizzazione del sovrano avveniva col concorso del clero e del popolo
all’interno di un'assemblea, denominata Corona de logu, composta dai
rappresentanti del clero e delle curatorie ossia i singoli distretti che formavano
il “giudicato”
9
. La confirmatio in regnum garantiva il rispetto dei diritti
dinastici degli eredi legittimi, secondo tre linee che seguivano precise regole
genealogiche che prediligevano principalmente la linea diretta maschile,
secondariamente la linea femminile, con le donne non regnanti ma solo
governanti e portatrici di titolo regale
10
per i figli maschi o per il marito (in
tal caso si aveva il cambio di dinastia). Non erano previste “giudicesse”-
regnanti, al massimo le donne erano “giudicesse”-luogotenenti che
governavano in presenza di prole maschile minorenne. Questo caso si verificò
con Eleonora d’Arborea che resse il “giudicato” prima per il figlio minore
Federico e poi, deceduto costui, per l’altro figlio minore Mariano fino alla sua
maggiore età nel 1392/3. Infine vi erano “giudicesse”-madri e “giudicesse”-
consorti con le quali si chiude la gradazione delle regine sarde tutte chiamate,
nei documenti medioevali, col titolo di “juighisse” o “regine”
11
. Esaurita la
linea diretta si passava alla linea collaterale maschile e, in ultimo, a quella
femminile. Se il giudice era assente o ancora minorenne veniva nominato un
giudice di fatto (judike de fattu o vicarius). Il re nominava e comandava gli
amministratori locali, deteneva il patrimonio pubblico del fisco (rennu) che si
9
cfr. G. MILIA, La civiltà giudicale, in Storia dei Sardi e della Sardegna, vol. II, cit. pp. 197 –
198.
10
F. C. CASULA, La storia di Sardegna, Pisa, Sassari, 1994, pp. 170-171.
11
A. M. OLIVA, La successione dinastica femminile nei troni giudicali sardi, in Miscellanea di studi
medioevali sardo – catalani, Cagliari, 1981, p. 15
7
distingueva dal suo capitale personale denominato de pegugiare; incassava il
reddito spettante al sovrano dalle imposte dirette e indirette e dalle multe
poteva instaurare rapporti di vassallaggio con gli altri Stati più forti per essere
protetto da questi. Quello che colpisce maggiormente chi si avvicina allo
studio delle Istituzioni giudicali è la loro complessa struttura che, sembra,
nasca dalla capacità dei Sardi ad autogestirsi in forme giuridiche complesse ed
insolite trovandosi in condizioni di perfetto isolamento.
La situazione territoriale alla fine del 1200 era cambiata da quando si erano
estinti di fatto i tre giudicati di Calari, Gallura e Torres. Il Comune di Pisa
possedeva i territori degli ex "giudicati" di Calari e Gallura, tranne le curatorie
di Nora e Decimo che appartenevano ai discendenti di Gherardo della
Gherardesca conte di Donoratico (famiglia toscana). Pisa aveva da poco
ottenuto tali territori sia per acquisizione pacifica come la terza parte centrale
della zona di Cagliari, che aveva ereditato da Mariano II d'Arborea, o per
conquista quali l’ex giudicato di Gallura, la terza parte orientale del
Cagliaritano e il Cixerri. Pisa possedeva anche la rocca e i dintorni di Castel di
Castro con le sue appendici (Villanova, Stampace, Marina o Lapola)
indirettamente dal 1216/17, quando fu fondata da alcuni mercanti pisani e,
direttamente, dal 1257 quando una coalizione militare, formata dagli altri tre
giudicati filopisani, attaccò dall'entroterra e dal mare la rocca di Castel di
Castro e Santa Igia, capitale del giudicato che sorgeva nella zona dell'attuale
via Brianza, nel quartiere di Sant'Avendrace e che, al quattordicesimo mese di
guerra, si arrese e venne completamente abbattuta. Agli stessi Doria e ai
Malaspina e al giudicato di Arborea appartenevano anche il territorio di Torres
che fu ridistribuito in tal modo: ai Doria andò quasi tutta la Nurra, parte del
Nulauro con Alghero (fondata dagli stessi intorno al 1112), l'Anglona con
Castelgenovese (attuale Castelsardo, anch’essa fondata da costoro nel 1112) il
Nurcara, Meilogu, Nughedu; ai Malaspina andò la Planargia con Bosa, Montes
e Osilo, Coros e Figulina; al "giudicato" di Arborea ancora in vita fino al 1420,
andarono le curatorie di Montacuto, Goceano, Costavalle, Marghine, Dore-
8
Orotelli e Montiferru che accrebbero il territorio del "giudicato". Sassari si
organizzò come comune fin dal 1283 ed ebbe i suoi Statuti che furono
pubblicati nel 1316 nella versione logudorese ed ebbero validità anche in
Romangia e Flumenargia. Nel 1284 Pisa e Genova si scontrarono nella
battaglia della Meloria che vide Genova vincitrice su Pisa, nella conseguente
pace di Fucecchio del 1293 il Comune di Sassari passò alle dipendenze
indirette di Genova che inviò in città un proprio podestà. La convenzione
firmata con Pisa il 24 marzo 1294 stabilì che il podestà genovese esercitasse
ogni giurisdizione e governasse Sassari secondo i suoi Statuti.
Questa era la situazione territoriale della Sardegna quando il 31 agosto 1302
Giacomo II firmò la pace di Caltabellotta, con la quale si concludeva la Guerra
del Vespro e si concedeva per sempre il Regno di Sicilia a Federico III. A
partire da questa data Giacomo II prese seriamente in considerazione la
concreta realizzazione del Regno di "Sardegna e Corsica" che si attuò solo nel
1323-24. L'armata per la conquista del regno era composta da cinquantatré
galere, venti cocche, cinque legni e molte altre navi da guerra, trentatré galere
erano state costruite in due anni di lavoro nei cantieri catalani e valenzani,
venti nel regno di Maiorca
12
. Alcune di queste imbarcazioni erano scoperte e
potevano trasportare fino a venti cavalli, altre dette uxers ne potevano
trasportare oltre trenta. La spesa per la costruzione della flotta era stata
affrontata con notevoli sacrifici da tutte le città e comunità della Corona
d'Aragona. Barcellona armò undici galere oltre la galera capitana dell'Infante,
tre uxers e tre galere per le scorte. Tarragona armò tre galere, Tortosa due e
Valenza otto aperte e tre chiuse. Le venti cocche erano riservate al trasporto di
5. 000 uomini fra cavalieri e scudieri, arruolati col mandato regio del 1322, col
quale venivano anche graziati tutti coloro che avessero commesso crimini fino
a quindici giorni prima dell'editto, compresi eretici, falsari e giocatori,
escludendo coloro che si erano macchiati di lesa maestà. A capo della flotta vi
12
cfr F. C. CASULA, La Sardegna Aragonese. La Corona d’Aragona, Sassari, 1990, Vol. I p. 142 e segg.
9
era l'ammiraglio generale Francesco Carròs, la flotta maiorchina, di cui si sa
ben poco, era guidata da Ughetto de Totzò ammiraglio di re Sancio IV di
Castiglia. Da quanto si può ricavare dai dettagliati documenti custoditi a
Barcellona nell’Archivio della Corona d’Aragona circa i preparativi per attuare
l'impresa, avrebbero dovuto partecipare alla medesima 11. 000 uomini così
ripartiti:1. 000 cavalieri, 4. 000 fanti-serventi, 3. 000 scudieri, 100 cavalieri
con celata, 200 uomini armati delle galere; ma alla fine vi parteciparono
appena 1. 018 unità tra cavalieri e uomini a cavallo formanti il nucleo
dell'armata, assistiti da 4. 000 fanti serventi. Non abbiamo le cifre esatte di
quanto alla fine venne a costare l'impresa, ma i preventivi parlano di 202. 000
lire barcellonesi esclusi gli extra. Anche il clero fornì un sussidio che coprì
quasi la metà del costo totale, a questi si aggiunsero le città fra le quali si
distinsero Barcellona e Valenza, anche gli ebrei di Catalogna contribuirono per
un terzo circa dello sforzo finanziario, alla nobiltà spettò il compito di reclutare
armati per la cavalleria pesante e leggera
13
. Per riuscire nel suo intento
Giacomo II capì che doveva avere anche l'appoggio di forze presenti nell'Isola,
utilizzate dal punto di vista logistico e per la loro conoscenza del territorio
14
, a
tal fine si alleò con Ugone II d'Arborea, coi Doria e i Malaspina sardi facendoli
suoi vassalli commendati ossia attraverso una commendatio personalis, un
giuramento personale di fedeltà al sovrano. Nel caso di Ugone II egli lo
sottoscrisse col versamento, alla Corona d’Aragona, di un censo annuo di 3.
000 fiorini d'oro in cambio del mantenimento dei propri diritti dinastici e di un
eventuale protezione militare. L’accordo fra i sovrani d’Arborea e della
Corona d’Aragona venne raggiunto ad Avignone, Ugone II si affidò a Guido
Cattaneo, arcivescovo di Arborea e francescano di origine pisana, che si recò
nella città francese per partecipare ai dibattiti generali sulla “povertà
13
B. ANATRA, La Sardegna dall’unificazione aragonese ai Savoia, cit. pp. 13-15.
14
G. MELONI, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea di Pisa, Genova, Aragona, in
Storia dei Sardi e della Sardegna, vol. II, cit. p. 91.
10
evangelica”
15
, fu lui a negoziare con i prelati catalano-aragonesi le condizioni
dell’alleanza. L’atto verrà firmato il 5 luglio 1323 all’assedio di Villa di Chiesa
fra Ugone II de bas-Serra e l’infante Alfonso, procuratore generale di suo
padre Giacomo II, che la ratificò a Barcellona il 20 settembre. Il contributo di
Ugone II fu determinante nella riuscita dell'impresa di conquista della
Sardegna da parte della Corona d'Aragona, il cui sovrano giocava
sull'ingenuità del giudice d’Arborea. Egli non capì quale pericolo vi fosse nel
chiedere aiuto a Giacomo II, nel divenire suo vassallo, ma s’illudeva che
l'alleanza con Giacomo II fosse il modo giusto per riuscire a scacciare i Pisani
dalla Sardegna e divenire l'unico monarca dell'Isola, anche se vassallo della
Corona d'Aragona. L’11 aprile 1323 Ugone II attaccò i Pisani tra
Villanovaforru e Sanluri con l'aiuto di Giacomo II, che inviò tre galere al
comando di Gherardo e Dalmazzo di Rocabertì, con il progetto di conquistare
la parte pisana dell'Isola. Il 30 maggio 1323 la flotta catalano-aragonese
capitanata da Francesco Carròs lasciò Portfangós e il 31 partì alla volta
dell'Isola. L'Infante Alfonso, futuro Alfonso III il Benigno, era capo della
spedizione e si era imbarcato due giorni prima, con la moglie Teresa
d'Entença, sulla Santa Eulalia. In prossimità di Maiorca il tempo si fece
avverso, il vento cominciò a spirare in senso contrario e il 4 giugno la flotta fu
obbligata a fermarsi a Minorca, nel porto di Maó per far calmare i cavalli ed
attendere l'arrivo dei ritardatari. L'Infante venne a sapere che la gente
d'Arborea con il loro giudice e gli uomini inviati da Giacomo II si era
impossessata della Sardegna pisana tranne che di Castel di Castro (Cagliari), di
Terranova (Olbia) e di Villa di Chiesa (Iglesias). In realtà le notizie non
corrispondevano a verità ma furono sufficienti per convincere l'Infante a
riprendere il mare, il mattino dell'8 giugno, per dirigersi alla volta della
Sardegna pur non essendo state riunite tutte le navi. L'11 giugno 1323 le
15
Cfr. O. SCHENA, Una presenza sarda al convengo di Avignone nel 1322 sulla povertà
evangelica, in “Clio”, anno XV, n. 1, 1979, pp. 139-157.
11
trecento e più navi che costituivano la flotta catalano-aragonese giunsero in
prossimità della penisola del Sinis di Cabras. Il 13 giugno 1323 il "giudice"
consigliò l'infante Alfonso d'Aragona di sbarcare a Palma di Sulcis in agro di
San Giovanni Suergiu, e porre l'assedio a Villa di Chiesa. Presa questa sarebbe
stato più semplice far capitolare Castel di Castro, Terranova e i castelli di
Gioiosaguardia (presso Villamassargia) e di Acquafredda (presso Siliqua). Il
consiglio di Ugone II fu pessimo in quanto Villa di Chiesa si arrese per fame
dopo sette mesi e otto giorni di strenua resistenza
16
. Strategicamente era stato
un errore pensare di conquistare Castel di Castro dopo la capitolazione di Villa
di Chiesa in quanto questo non significava che Castel di Castro sarebbe
necessariamente capitolata, semmai era più probabile che Villa di Chiesa si
arrendesse in seguito alla conquista della rocca di Castel di Castro. A dire il
vero Giacomo II aveva inviato il proprio figlio per attuare tale strategia, ma era
evidente che ad Ugone II non premeva la riuscita dell'impresa quanto liberarsi
dai Pisani di Villa di Chiesa che, da più di mezzo secolo, rendevano poco
sicuro il confine meridionale del suo giudicato nella zona di Fluminimaggiore.
Dopo varie vicende il 13 gennaio 1324 si arrivò a firmare un accordo fra i
Pisani di Villa di Chiesa e i Catalano-Aragonesi, grazie anche all'intervento di
Ugone II e Bernabò Doria; in questo accordo le due parti sottoscrivevano che
se nel giro di un mese non fossero giunti aiuti alla città, questa si sarebbe
arresa ai Catalani a condizione che coloro che si rifiutavano di divenire sudditi
della Corona sarebbero stati liberi di andare dove volevano. Il 7 febbraio,
prima dello scadere del tempo stabilito, Villa di Chiesa si arrese e aprì le
proprie porte all'Infante Alfonso, in base agli accordi presi in precedenza la
guarnigione pisana lasciò la città con le armi e i beni personali alla volta di
Castel di Castro. Il 16 febbraio 1324 Terranova accoglie i Pisani i quali, il 25,
si imbarcarono dal porto della città per attaccare l'Infante Alfonso che si
trovava a Selargius da dove sarebbe ripartito per andare, il 26, ad assediare
16
cfr. R. CONDE, La Sardegna aragonese, in Storia dei Sardi e della Sardegna, vol. II, cit. p. 258.
12
Castel di Castro dove i Catalano-Aragonesi avevano costituito un proprio
avamposto sul colle di Bonaria
17
, in modo tale da poter presidiare la città
pisana. Questo castello fondato dai catalani durante l’assedio di Castel di
Castro, nel 1325 veniva eretto in municipio con l’estensione dei privilegi di
Barcellona e l’annessione di gran parte del contado di Cagliari
18
; quanto alle
sue prerogative commerciali limitavano fortemente l’autonomia e l’attività
stessa dei pisani di Castel di Castro
19
. A dire il vero Pisa non fece granché per
difendere i suoi possedimenti in Sardegna, poiché impegnata nella guerra
contro la città di Lucca e quando inviò una sua flotta per difendere la
Sardegna, che partì il 25 gennaio 1324 da Porto Pisano, questa vagò un mese
nel Tirreno fra l'Elba e Piombino, mentre Villa di Chiesa si arrendeva e Castel
di Castro era prossima a fare lo stesso. La flotta pisana il 16 febbraio 1324 era
stata accolta nel porto di Olbia-Terranova, mosse da questo porto il 25 febbraio
per andare contro l’Infante Alfonso. La flotta era composta da quaranta galere
e molte altre navi di minore stazza e diverso uso, sulle quali erano imbarcati
dai quattrocento ai cinquecento cavalieri tedeschi e italiani, duemila balestrieri
pisani, in aggiunta a questi a Terranova si erano aggregati duecento uomini a
cavallo che formavano parte della guarnigione della città, tutti sardi, a
conferma di come la presenza dei Catalano-Aragonesi non fosse gradita da
tutti. Il 25 febbraio la flotta pisana doppiò capo Carbonara, avvicinandosi a
capo Sant'Elia, nel golfo degli Angeli, dove trovò ad attenderla una flotta
catalana formata da cinquantasei navi. I Pisani non accettarono la battaglia e,
percorrendo tutto il golfo, giunsero a Maddalena-Spiaggia, in agro di
Capoterra dove l'Infante inviò un messo con la richiesta di quale tipo di
battaglia volessero combattere per risolvere il conflitto sul campo. I Pisani
optarono per il combattimento terrestre a condizione che potessero riposarsi un
17
Cfr. E. PUTZULU, La prima introduzione del Municipio Barcellonese in Sardegna in Studi
storici e giuridici in onore di A. Era, Padova 1963, p. 325.
18
Ivi, pp. 323 - 326.
19
B. ANATRA, La Sardegna dall’unificazione Aragonese ai Savoia, cit. , p. 17.
13
paio di giorni, e che non venissero attaccati nelle operazioni di sbarco, come in
effetti avvenne. Il comandante dei Pisani era Manfredi della Gherardesca,
conte di Donoratico, il quale tra il 26 e il 27 febbraio mosse le sue truppe verso
Castel di Castro costeggiando lo stagno e le paludi di Santa Gilla lungo un
vecchio cammino romano sulla strada Sulcis Karales (attuale SS. n°130)
giungendo a Castel di Castro il 28 febbraio, martedì di Carnevale, dell'anno
bisestile 1324. Il 29 febbraio, mercoledì delle Ceneri, Manfredi riprese il
cammino ma in località Lutocisterna trovò l'esercito catalano: vi fu una
violenta battaglia che si svolse in due tempi (secondo uno schema medioevale
che era basato sulla forza d'urto delle schiere) e, nella quale, i Pisani furono
sconfitti dai Catalano-Aragonesi, morirono cinquecento fanti e più di trecento
cavalieri tedeschi e pisani. Manfredi, colpito al volto, forse morì nella
assediata Castel di Castro lo stesso giorno o giù di lì o secondo quanto sostiene
Pietro IV morì di malattia a maggio. Francesco Carròs riportò una vittoria sulla
flotta pisana nelle acque del golfo degli Angeli presso il rione di Stampace (in
sostanza vicino all'attuale via Roma). Per tutto il mese di marzo di quel funesto
1324 assistiamo ad una serie di attacchi, sortite e combattimenti, fra Iberici e
Toscani intorno alle due piazzeforti nei terreni oggi compresi tra via Sonnino,
via Dante e viale Cimitero. Il 2 marzo lo stesso Ugone II partecipò all'assalto
di Castel di Castro che, dopo svariate vicende, si trovò costretta a capitolare
nonostante la città non fosse sorvegliata perfettamente e i Pisani potessero
uscire dalla città assediata attraverso Stampace e Lapola (porto di Castel di
Castro, sede della dogana) e dirigersi verso Nora. Il 19 giugno 1324 la città
aprì le porte ai Catalano-Aragonesi sia perché Pisa non era più in grado di
condurre la battaglia, considerati i problemi con Lucca, sia perché i Catalani
offrivano condizioni di resa vantaggiose. Il trattato fu sottoscritto a Bonaria lo
stesso 19 giugno dall'Infante Alfonso e dal notaio Percivalle, come testimoni
troviamo anche Ugone II. Le clausole del documento di resa, che venne
ratificato a Pisa il 3 agosto, furono le seguenti: