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Questi regolamenti vengono proposti dalla FIK (Federazione
Italiana Karting) e ratificati dalla CSAI (Commissione Sportiva
Automobilistica Italiana). Esiste poi un’organo che si occupa dei
regolamenti internazionali, la CIK (Commission Internationale de
Karting), branca della FIA (Federation Internationale de l’Automobile).
Da sempre nel Karting i piloti che partecipano alle competizioni e i
veicoli da corsa sono divisi in classi e categorie a seconda della
cilindrata del mezzo meccanico e dell’età e l’esperienza del pilota: così
si parte dalla classe “Baby Kart” per i bambini dai 7 ai 9 anni fino ad
arrivare a categorie internazionali come la FSA (Formula Super A) e la
FC (Formula C) che spesso rappresentano il trampolino di lancio per
l’automobilismo professionistico. Posso citare nomi importanti
dell’automobilismo che hanno costruito la propria carriera partendo
proprio dal Kart: Michael Shumacher, Mika Hakkinen, Pablo Montoya,
Giancarlo Fisichella, Jarno Trulli e ripensando al passato: Alain Prost,
Riccardo Patrese, Ayrton Senna e molti altri. Quest’ultimo è
considerato, dagli esperti del settore kartstico, il pilota che ha dato vita
ad una nuova era; adottando una tecnica di guida “pulita”, ovvero con
movimenti dello sterzo minimi e rapidi, così da limitare la sbandata del
mezzo a favore della velocità di percorrenza della curva. Senna è stato
anche il primo che ha imparato ad inserire il go-kart in curva con una
sola mano sullo sterzo, usando l’altra per tappare l’ingresso dell’aria
nel carburatore, così da “ingrassare” il motore, fornendogli cioè più
benzina per avere più spunto in uscita di curva.
Attualmente il karting è considerato quindi una tappa indispensabile
per la carriera di un pilota.
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Attraverso le competizioni con questi veicoli il pilota viene
costruendosi fin da bambino, allenando non solo la tecnica di guida, i
riflessi, il sorpasso e il fisico stesso, ma anche caratteristiche più
strettamente psicologico-coratteriali: la gestione della propria
aggressività facendo uso dell’autocontrollo, la lucidità mentale, durante
il tempo di qualifica e la gara e il corretto uso dell’istintività. Questi
sono esempi che dimostrano come questa disciplina sia per il pilota una
vera e propria palestra per lo sviluppo del carattere e per la gestione
della propria emotività.
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1.2 Sport e Aggressività
Lo sport è considerato da molti autori come un’attività dove gli
uomini possono scaricare le loro pulsioni aggressive.
Andrè Redna sostiene che lo sport sarebbe “un mezzo per esorcizzare
le potenze dell’aggressività” e attraverso di esso “l’istinto di
aggressività…..diventa un fattore di valorizzazione personale” cosicchè
lo sport finisce per essere “un sistema che organizza, tratta e produce
aggressività…esso dà alla nozione di aggressività la forma della
competizione”.
Queste idee si appoggiano in parte su alcuni concetti dell’opera di
Freud che sosteneva l’esistenza nell’uomo di due pulsioni: quelle di
vita e quelle di morte, Eros e Thanatos (vita e morte, amore e odio ) in
perenne lotta fra loro.
Konrad Lorenz, etologo, sostiene che lo sport è una forma
culturalmente ritualizzata del combattimento la quale “impedisce gli
effetti dell’aggressione socialmente dannosi…e assolve il compito
incomparabilmente importante di educare l’uomo al controllo cosciente
e responsabile della sua istintiva reazione di lotta…La cavalleria
sportiva che viene mantenuta anche sotto effetti stimolo fortemente
innescanti l’aggressione, è una grande acquisizione culturale
dell’umanità”.
Quindi mentre Redna sostiene che attraverso lo sport si scarica e si
produce aggressività, Lorenz sostiene che lo sport permette di
controllarla. Ma entrambi mettono in stretta relazione lo sport con le
pulsioni aggressive.
Siegfried Stohr, psicologo e ex pilota di Formula Uno, nel suo libro
“La mia Formula Uno” riprende questi concetti considerandoli parziali
per due motivi.
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Innanzitutto il considerare che nell’attività sportiva si scaricano
esclusivamente le pulsioni aggressive è frutto di un’osservazione
superficiale dell’attività stessa; in effetti è più corretto ritenere che in
essa trovino scarica e soddisfacimento entrambe le pulsioni, quella
libidica e quella aggressiva. In secondo luogo (e questo vale in
particolare per la tesi di Redna) perché il considerare lo sport come
un’attività che serve a scaricare una pulsione è un modo riduttivo e
ristretto di intendere l’attività sportiva e quella umana in generale.
Stohr continua dicendo che questo concetto di sport come attività di
scarica viene da lontano ed è molto diffuso. Basti ricordare quanto si è
sempre detto della funzione dello sport per i giovani, considerandolo
come sostitutivo di altre attività, quelle sessuali, che se ci si scarica a
fare dello sport non lo si fa in altri campi. Questo modo di considerare
lo sport è ancora vivo se si pensa di portare i giovani allo sport per
strapparli alla droga o dai bar.
Per Stohr queste concezioni sono fortemente riduttive e
svalorizzanti l’attività sportiva, ci impediscono di coglierne i
multiformi aspetti e non ci permettono poi di capire quel che succede e
riporta una sua esperienza in pista.
Durante una gara di go-kart, come risposta alle numerose tamponate
dell’avversario che lo seguiva Stohr, gli fece capire con un gesto di
ammonimento di non riprovarci più. Di tutta risposta l’avversario lo
tamponò ancora più forte, così in piena accelerazione e in mezzo al
rettifilo Storh frenò di colpo facendolo rovesciare oltre le protezioni.
Ciò che ha scatenato il gesto rabbioso non è stata la tamponata
(aggressione) dell’avversario, ma la sua risposta al segnale di
avvertimento, di minaccia. Non solo non l’aveva considerato ma lo
aveva sfidato mettendo in crisi la fiducia e la sicurezza che Stohr
nutriva in sé stesso. Se voleva conservare dentro di sé la sua immagine
di pilota forte e grintoso doveva rispondere a quella sfida. Era una
questione di sopravvivenza (sopravvivenza appunto dell’immagine che
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aveva di sé stesso), perdere la sua stima o eliminare l’avversario; la
posta in gioco era alta e adeguata fu la sua risposta.
Da questo esempio si può capire come quello che succede nella
testa di uno sportivo sia sempre complesso e le motivazioni diverse.
L’idea dello sport come attività e luogo di scarica delle pulsioni è
un’idea basata su un primitivo approccio psicoanalitico che svalorizza
l’attività sportiva perché la banalizza definendola occasione di scarica
dove si consuma energia invece di pensare che nello sport si possa
costruire, perfezionare qualcosa.
Questa idea ha poi delle conseguenze pratiche nei modi con cui gli
sportivi hanno cercato di perfezionarsi o nei metodi usati dai loro
allenatori; infatti era ed è ancora diffusa l’idea del campione che si
allena e si perfeziona dedicandosi esclusivamente al suo sport.
Il campione ha soppiantato l’uomo; e la sua personalità, i suoi
bisogni, sono visti con diffidenza e il suo mondo degli affetti come una
cosa che può turbarlo.
Questo perché non ci si pone il problema di sviluppare la
personalità dell' atleta, l’unica preoccupazione è quella di tenere
sgombra la sua mente da tutto il resto e caricarlo in vista della gara
quasi che per la propria prestazione non avesse bisogno di tutto se
stesso ma di una sola parte di sé.
Una bella gara, una bella prestazione sportiva la possiamo
paragonare ad un bel quadro, ad un’opera d’arte. In entrambe noi
ammiriamo il risultato di un’attività dove sono impegnate l’estro,
l’inventiva, l’abilità e le creatività umane. Meglio potremmo
ammirarle se lo sport fosse ancora quello concepito da coloro che lo
inventarono come tale: i Greci.
Oggi la bellezza dell’atto sportivo passa in secondo piano rispetto al
risultato. Quello che conta è vincere, non importa come. Il migliore non
è il più bravo ma il vincitore.
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È normale quindi, come è successo nel calcio, che la gente non si
diverta più, il gioco diventa statico, ripetitivo, scarsi i goal. La gente
che va allo stadio spesso non lo fa per vedere il bel gioco ed essere in
grado di ammirarlo e apprezzarlo anche negli avversari, ma spesso per
il fenomeno più deteriore del tifo.
E lo sportivo si adegua. Non cerca di superare l’avversario in
bravura ma di fregalo, il doping, le scorrettezze, gli sgambetti, i trucchi
sono all’ordine del giorno. Ecco, invece di migliorarsi per superare
l’avversario si cerca di peggiorare le proprie capacità, invece di
costruire si distrugge.
Anche nel karting e nell’automobilismo è facile assistere a fatti che
rovinano questo sport e che sono un vero e proprio insulto per la
passione di molti piloti e spettatori. Il pilota è considerato al giorno
d’oggi più come una fonte di denaro, indipendentemente dalle sue doti
e dalla sua personalità, l’importante è il suo budget il prestigio di
vincere e di essere o di sembrare competivi. Sembrare perché non
sempre chi vince lo fa senza scatenare dubbi sulla regolarità del mezzo
meccanico in suo possesso, esistono troppi modi per aggirare i
regolamenti tecnici e i preparatori migliori li conoscono tutti. C’è poco
spazio per la sportività, la lealtà, il rispetto e la sana competitività.