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bebrico una severa lezione che si concluse con un clamoroso K.O., il
primo di cui, un giornalista sportivo di lusso, Teocrito ci rimanda la
cronaca. E’ impossibile attribuire la palma di miglior “pugile” (se così
si può definire) dell’antichità; oltre ad Amico e Polluce, furono ottimi
campioni Epeo, che trionfò nei giochi allestiti per la morte di Patroclo
durante l’assedio di Troia, Tisandro di Nasso, che vinse ben quattro
olimpiadi di seguito (572, 568, 564, e 560 a.C.), ed anche il siciliano
Entello di cui ci parla Virgilio nell’Eneide. La prima olimpiade antica
si svolse nel 776 a.C., ma il pugilato venne ammesso nei giochi solo
nel 688 a.C., data in cui si svolse la XXIII Olimpiade antica. Il padre
della regolamentazione pugilistica greca in uso alle Olimpiade fu
Amphodite che inventò le maschere di allenamento ed il paradenti di
cuoio; egli stabilì inoltre che i pugili potessero colpire solo al viso ed
alla testa e che il match durasse fino alla caduta definitiva di uno dei
due contendenti. Il primo vincitore delle Olimpiadi pugilistiche fu
Onomasto di Smirne, poi nel 333 d.C. l’imperatore Teodosio sospese i
giochi olimpici, e questa pausa durò ben quindici secoli.
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Le gesta di questi mitici combattenti sono narrate dai poeti, per cui i
contorni e le dimensioni non sono facilmente definibili. Manca, nella
narrazione, il rigore tecnico, abbonda per contro l’impeto retorico;
l’entusiasmo per questi campioni prendeva la mano dei cantori che ne
dilatavano le imprese, col precipuo scopo di farne personaggi da
leggenda.
Se in Grecia e nell’antica civiltà mediterranea il pugilato aveva goduto
di grande popolarità, in Roma ebbe una felice accoglienza. Furono gli
Etruschi ad importarlo, e durante i primi anni dell’Impero, questo sport
toccò l’apice della sua fortuna grazie al favore degli imperatori che ne
raccomandavano ed attuavano la pratica nelle palestre e nelle terme.
Ma non è nella sola civiltà mediterranea che noi troviamo tracce della
pratica pugilistica. Gli indiani, come testimonia il celeberrimo poema
sanscrito Ramayana, praticavano la boxe con entusiasmo; inoltre,
un’antichissima tavoletta (pare risalga al 3000 a C.) in cui sono
raffigurati due pugilatori, ci dice che a Bagdad la boxe era in auge
assai prima che non in Grecia. Ancora, antichissimi cimeli, risalenti al
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III e II secolo a.C., avvertono che anche in Babilonia, in Egitto e a
Creta erano praticate forme di pugilato.
Presso i romani, come detto, il pugilato, fomentato dagli imperatori,
costituì uno dei divertimenti offerti alla folla del Colosseo: pugilatori e
gladiatori si alternavano in spettacoli non di rado cruenti e sanguinosi.
Questo perchè le regole della noble art erano ancora sconosciute:
incontri disputati al limite delle possibilità e della resistenza umana
(sino a 100 riprese) tanto che, spesso si sconfinava nel “Pancrazio”
(lotta e boxe insieme). Tale attività, o definendolo impropriamente
sport, dava luogo a pestaggi impietosi in cui, il soccombente perdeva
la vita o subiva gravissime menomazioni.
Invece, inteso come attività sportiva, questa disciplina, era ben
considerata dai “plebei” sia per l’eccellente preparazione fisica , sia
perché stimolava doti di astuzia (oggi si direbbe tattica)
razionalizzando la difesa con l’offesa. Anche per i moderni valeva
il concetto di “Noble art”, tant’è che rilanciarono il pugilato intorno al
700 apportando notevoli innovazioni, e soprattutto, emanando una
serie di regolamentazioni, che comportò un notevole ampliamento sia
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della platea che dei praticanti. I combattimenti avvenivano
esclusivamente in spazi recintati con pali infissi nel terreno e da funi
tese da palo a palo (oggi il ring) e durante il combattimento ai pugili
era possibile chiedere al testimone (ora arbitro) alcune pause di riposo
(oggi il minuto di riposo tra una ripresa e l’altra); le mani dei
pugilatori venivano avvolte da un pellame morbido (oggi i guantoni) in
modo tale da attutire i colpi, evitando così sia la rottura delle ossa delle
mani e sia i danni fisici più consistenti.
Con il declino dell’Impero romano, la boxe cadde in disuso, così come
la maggior parte delle discipline sportive. Infatti, il basso Medioevo,
epoca di profonde trasformazioni, cancellò molte eredità del passato:
sparirono i “circenses” e tutte le attività violente perché non in linea
con la coscienza cristiana. A tale condizione ostativa per le attività
sportive tout court, contribuirono anche le invasioni barbariche,
portando miseria e oppressione.
Intorno all’anno mille la boxe rinacque in Italia, specie a Venezia, ove i
gondolieri, tipi maneschi, erano disposti a scazzottarsi nell’isola di
Torcello il cui “ring” era un ponte, denominato “Ponte del diavolo”,
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dal quale, chi cadeva in acqua, risultava perdente. La vera riscossa
venne dall’Inghilterra sul finire del XVII° sec. , dove il pugilato trovò
in terra albionica il terreno fertile per la sua nuova prosperità.
Ma dal 1800 in poi, a dispetto della crescente popolarità che questo
sport godeva presso le masse, iniziò una campagna implacabile, una
recrudescenza antipugilistica sia in Inghilterra quanto negli Stati
Uniti, tanto che in Gran Bretagna, dal 1803, la boxe fu dichiarata
illegale. A rompere per primo il fronte antipugilistico, dichiarandone la
liceità fu lo stato di New York nel 1896. Questo “revirement” fu
possibile grazie ad un nuovo regolamento, entrato in vigore l’anno
successivo, ad opera di John S. Douglas, marchese di Queensberry,
appassionato di boxe come tanti aristocratici. La riforma del nobile
inglese risultò fondamentale: studiò il modo di trasformare
definitivamente la boxe da zuffa o rissa, quale sovente era, in “noble
art of self defence” (arte nobile di autodifesa). La boxe deve la sua
salvezza al marchese di Queensberry da un lato, e il suo ingresso
ufficiale nella fase contemporanea dall’altro.
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CAPITOLO SECONDO
PERIODO CONTEMPORANEO
1. PUGILATO NEL TERZO IL MILLENNIO
Alle soglie del 2000, oramai completamente rinnovato, questo sport è
stato integrato nel sistema educativo scolastico di molte nazioni , dove
si ha una notevole considerazione del pugilato sia sotto l’aspetto di
attività motoria intesa come autodifesa, sia come sport agonistico;
inoltre, la figura dell’insegnante federale è una professione legalmente
riconosciuta. In Italia, invece, il pugilato non riscuote la dovuta
considerazione anche se, solo da circa quindici anni è stato inserito tra
le attività dei “Giochi della Gioventù” del C.O.N.I, e solo di recente in
Campania, con apposito protocollo d’intesa con il Ministero della
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Pubblica Istruzione, si è instaurata una collaborazione tra dodici
istituti di scuola media e superiore con alcune palestre di boxe,
riscontrando ottimi risultati, anche se permane un grande interrogativo
sul ruolo dell’insegnante di pugilato.
La negativa e dura critica mossa al pugilato, da parte degli organi di
informazione, in seguito ad episodi isolati, ha determinato, negli
ultimi decenni, una profonda crisi in un settore già soggetto a falsi
pregiudizi e poca considerazione da parte dei mass-media. Infatti, i
genitori malvolentieri accettano l’idea del proprio figlio - boxer perché
considerano il pugilato esclusivamente, ed a priori, uno sport brutale,
violento e pericoloso. Inoltre, pochi sono i ragazzi che si avvicinano a
questa pratica sportiva, vuoi perché invaghiti dai grandi campioni di
altre discipline ritenute meno pericolose e dai lauti guadagni , vuoi
perché non sono disponibili a trascurare i numerosi “impegni” che il
benessere sociale offre o, aggiungo, perché non bene informati su
questo sport, e pochi sono coloro che conoscono i numerosi risvolti
positivi che il pugilato offre, ed invece molti sono coloro che “non
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sono disposti a farsi rompere il naso”, ARS DICENDI , luogo comune
usato dai non addetti ai lavori.
Mi spiego.
“Avevo quindici anni, ed alcuni fatti e contrarietà avevano reso il
mio carattere irascibile, introverso e spesso un attaccabrighe furioso,
per cui avvertivo il bisogno di emergere, di uscire da uno stato
psichico negativo, di fare qualcosa di utile per me. Un giorno,
incontrai per caso il compianto Ernesto Centobelli, ex campione anni
’30, il quale mi invitò in una palestra di pugilato. Trovai un ambiente
strano ed attraente: tanti ragazzi ed adulti si allenavano in maniera
incessante, sul ring due grosse figure a torso nudo facevano a pugni,
altre persone a bordo ring discutevano della ristrutturazione della
palestra. Mi avvicinai sempre più al ring per ottimizzare la visuale del
combattimento quando, al suono del gong, uno dei due boxer mi si
avvicina allungando le potenti e sudate braccia. Terrorizzato, pensai:
“ora questo mi rompe il naso!”. Invece, con molta cortesia, mi chiese
solo di slacciare i guantoni. Da allora, praticando la palestra ogni
giorno avvertivo l’istinto ridimensionarsi, ero sempre più calmo e
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sicuro, motivato, scoprendo in me particolari doti, come
temperamento e distanza, che ben presto mi consentirono di vincere
molte gare e titoli anche grazie all’aiuto di numerosi campioni
(Todisco, Ardito, Borraccia, Maiorano, Ciotola, La Magna, riferiti
alla vecchia guardia con il maestro Camerlingo, e Oliva, Raininger,
De Leva, Bottiglieri, Picardi etc. riferiti alla nuova guardia con il
maestro Silvestri)”.
Da insegnante di pugilato prima ancora che da pugile, ho la
convinzione che questo sport presenti enormi peculiarità educative
con notevoli risvolti psicologici e pedagogici, che annullano
palesemente le dicerie qualunquistiche e mistificatorie che bistrattano
e dequalificano oltre misura il pugilato.
Non voglio “catechizzare” nessuno, né apparire retorico, ma sembra
qui opportuno chiarire alcuni concetti fondamentali di questo sport
molto discusso.
Innanzi tutto, come tutti gli altri sport, anche il pugilato si distingue in
due grandi categorie: il professionismo, che è una professione vera e
propria - a scopo di lucro - ed il dilettantismo, che non è a scopo di
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lucro, e che a sua volta si divide in varie categorie (1°, 2° e 3° serie)
secondo l’età. I più giovani, dai 12 anni in poi e fino ai 17 anni,
vengono distinti in novizi e canguri. La novità è che esiste oggi
l’amatoriale: cioè il praticante non agonistico, colui che, regolarmente
affiliato, svolge tutti gli allenamenti del pugile agonista ma con
assoluto divieto di gareggiare nonché di fare a pugni in palestra (in
effetti, pratica la palestra di boxe per l’autodifesa), ma che
diversamente dall’agonista (per il quale ogni onere è a totale carico
della FPI, e per questo motivo il pugilato viene definito lo sport che
raccoglie la massa di giovani appartenenti a famiglie indigenti), è
tenuto al pagamento di una esigua retta quale contributo per spese di
gestione.
Mi sembra doveroso aggiungere che, tra i praticanti di questo sport, da
qualche anno, si registra la presenza di numerose ragazze che, oltre ad
imparare la boxe come autodifesa, fanno una continua pressione per
ottenere anche l’accesso all’agonismo. In altre nazioni, ed in
particolare negli U.S.A., la partecipazione femminile alle attività
agonistiche del pugilato è da tempo pianificata. Infatti, le italiane più
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agguerrite si sono trasferite nelle vicine nazioni dove è possibile
ottenere l’ambito riconoscimento di “pugile”.
L’azione del “gentil sesso” volta ad una piena e totale “Parità dei
diritti” nei confronti dell’uomo appare oramai segnata in ogni campo.
Se discutibile appare l’accesso delle donne a tale disciplina, (per le
problematiche di tipo medico-sanitarie e non per le peculiarità fisiche),
pretestuoso e incoerente sembra l’ultima “trovata” degli organizzatori
americani: Un uomo contro una donna! Il primo (e spero ultimo)
incontro di pugilato tra uomo e donna svoltosi a Seattle (USA),
terminato con la vittoria ai punti di quest’ultima, ha tutta l’aria di uno
“Show” pubblicitario.
Uno degli aspetti da tenere in seria considerazione nell’ambito delle
possibili valutazioni sulle valenze educative della boxe è il senso
sicurezza dei genitori che sanno di avere il proprio figlio in palestra
(cioè in un luogo sicuro) ad allenarsi, il che costituisce, senza ombra
di dubbio, una delle strategie più funzionali a sottrarre “materiale”
fertile ai loschi affari della malavita, o preservarli da amicizie da
strada poco affidabili. Però non vorrei che qualcuno potesse
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fraintendere questo discorso: la palestra di pugilato non è e non deve
essere scambiata per un centro di assistenza sociale, ma è
semplicemente un ambiente sano ed integro dove i ragazzi, attraverso
l’attività sportiva, interagiscono, socializzano e si “formano” secondo
i canoni di una civile società.
“La palestra di pugilato come palestra di vita può modificare quella
convinzione popolare distorta e superficiale che classifica la boxe
come uno sport rischioso per la salute, violento e discutibile dal punto
di vista etico-sociale”.
1
Infatti, alcuni esperti del settore medico intervistati su questa
problematica si sono così espressi
2
:
- Il Prof. F. La Cava, in occasione del congresso dei medici sportivi
tedeschi tenutosi a Francoforte sul Meno, sul tema “Le lesioni della
boxe” asseriva che “... la impopolarità del pugilato in un vasto strato
dell’opinione pubblica, non è a nostro parere giustificata, ed è dovuta
soprattutto ad una mancata conoscenza dell’importanza educativa,
morale e fisica che il pugilato può avere sull’individuo” ;
1
F. Rondoni, Manuale di Medicina, 1996, pg.17
2
Il Pugilato nella scuola, 1985, pg.10
20
- la Dott.ssa M. Gilda De Cesare “...dall’analisi dei documenti statistici
rileviamo che il pugilato, rispetto alla frequenza media emersa dagli
infortuni nei vari sport (espressa in percentuale) si trova al sesto
posto, preceduto dal rugby, dall’equitazione, dal motociclismo, e
seguito a breve distanza dal ciclismo e dal pentathlon. Poiché la
frequenza con la quale si verifica l’infortunio negli sport non può
fornire una completa individuazione del suo grado di pericolosità
(esposizione al rischio) mi soffermo sulle conseguenze prodotte dagli
infortuni con postumi in ogni singolo sport, e cioè sull’esito degli
infortuni stessi:
a) analisi statistiche con postumi permanenti, la boxe si trova al 15°
posto con una percentuale del 2,83%, molto bassa se si considera il
20,31% dell’automobilismo, l’11,26% dell’equitazione, l’11,11% del
tennis;
b) analisi statistiche per mortalità troviamo il pugilato al 10° con una
percentuale dello 0,2% preceduto da sport che l’opinione pubblica
non considera certo violenti come la scherma, l’hockey e l’atletica
leggera;