5
conoscenze di giovani lavoratori in merito alla loro situazione
pensionistica, e i comportamenti di risparmio veri e propri. L’intento è
quello di fornire una base alla ricerca futura sul comportamento di
scelta previdenziale, tenendo a mente i limiti cognitivi individuati
dalla psicologia della decisione, ed in particolare dalla teoria del
prospetto, dalla teoria dell’immagine e dalle euristiche cognitive.
Infine, nel quarto capitolo sintetizzeremo le conclusioni a cui siamo
pervenuti, e forniremo qualche indicazione per la ricerca futura.
6
Capitolo 1
I fondi pensione
Introduzione
Già da alcuni anni è in corso, in Italia, una riforma del
sistema previdenziale. In particolare, l’intento è quello di
ridurre il contributo statale, e fare in modo che i cittadini
sviluppino piani pensionistici di tipo individuale e collettivo.
Nel primo capitolo cercheremo di delineare i principali
aspetti che caratterizzano questa riforma.
Il paragrafo 1.1 tratterà brevemente gli sviluppi storici
che hanno portato all’assetto attuale. Il paragrafo 1.2
descriverà, in modo più puntuale, il sistema previdenziale
italiano, come si presenta dopo i disegni di riforma degli
ultimi anni. Il paragrafo 1.3 focalizzerà l’attenzione sulle
tipologie di fondi pensione attualmente disponibili. Il
paragrafo 1.4, infine, vuole fare una breve sintesi dei sistemi
previdenziali dei maggiori paesi occidentali, allo scopo di
apportare uno strumento di confronto con la realtà italiana.
1.1 Basi della riforma previdenziale in Italia: dal sistema a
ripartizione al sistema a capitalizzazione
In Italia, la riforma del sistema previdenziale è in atto da
circa un decennio: tra il 1992 e il 1995, i governi Amato,
Ciampi e Dini hanno compiuto uno sforzo significativo per
dare inizio alle prime modifiche, che si sono concluse con i
decreti del governo Prodi del 1997-1998 (Cesari, 2000). Lo
scopo primario di tali rinnovamenti consiste nel limitare in
modo sostanziale la generosità delle coperture previdenziali
7
statali, che caratterizza da sempre il sistema pensionistico
italiano (Borella e Platini, 2000). Nonostante il lavoro già
compiuto, continue modifiche e precisazioni sono all’ordine
del giorno, a dimostrazione del fatto che l’assetto non è
ancora del tutto completato.
In realtà, già dal primo secolo di unità del paese si
assiste a cambiamenti di carattere previdenziale in Italia
(Cesari, 2000): da un’iniziale regime a capitalizzazione, in
cui i contributi dei lavoratori vengono utilizzati per
investimenti allo scopo di finanziare le pensioni future,
percepite in quiescenza dagli stessi lavoratori, si è assistito al
graduale passaggio ad un regime a ripartizione, in cui i
contributi dei lavoratori vengono utilizzati subito per
finanziare le pensioni correnti.
Modi di finanziamento della pensione Modi di
determinazione
della pensione
A ripartizione A capitalizzazione
Retributivo Pensione pubblica
pre riforma
Fondi pensione a
prestazione definita
Contributivo Pensione pubblica
post riforma
Fondi pensione a
contribuzione
definita
Tabella 1.1 Determinazione e finanziamento della pensione.
Fonte: Cesari, 2000.
Come si può vedere dalla Tabella 1.1, il regime a
capitalizzazione e quello a ripartizione costituiscono le
modalità di finanziamento del trattamento pensionistico,
rispettivamente con i rendimenti degli investimenti finanziari
o con i versamenti correnti dei contributi dei lavoratori. Il
calcolo della pensione avviene invece tramite i cosiddetti
sistemi retributivo e contributivo, rispettivamente basati
8
sull’ultima retribuzione e sui contributi versati dal lavoratore.
La pensione statale e i fondi pensione privati si differenziano
a seconda dal metodo di calcolo: la pensione statale sarà
sempre finanziata a ripartizione, ma dopo l’entrata in vigore
della riforma (a regime), sarà calcolata col metodo
contributivo; i fondi pensione sono invece finanziati a
capitalizzazione, si dividono in fondi a prestazione definita,
se calcolati col metodo retributivo, e fondi a contribuzione
definita se calcolati col metodo contributivo. In seguito, nel
capitolo, tratteremo più approfonditamente questi aspetti.
È nel 1945 che si giunge formalmente al regime a
ripartizione, dopo che la crescita dell’inflazione ha provocato
l’azzeramento del potere d’acquisto del capitale accumulato
per finanziare le rendite pensionistiche e dopo che la
previdenza sociale si è estesa a categorie sempre più ampie di
lavoratori (nel 1969, a tutta la popolazione) (Cesari, 2000). Il
capitale non è quindi sufficiente al mantenimento finanziario
di tutti i pensionati, soprattutto di coloro che hanno pochi o
nulli contributi versati. Per risolvere tali problemi è d’obbligo
instaurare il regime a ripartizione, che permette al sistema di
sicurezza italiano, all’inizio degli anni ’70, di presentarsi
come previdenziale-assistenziale, con una pensione minima
garantita a tutti i cittadini, diritti pensionistici estesi a tutti i
lavoratori e con prestazioni proporzionate all’ultima
retribuzione media (Cesari, 2000).
La recente Legge 335/1995 (riforma Dini) ha lo scopo
di effettuare il passaggio inverso: dal sistema a ripartizione si
torna gradualmente al sistema a capitalizzazione (anche se il
regime a ripartizione non scomparirà del tutto, ma rimarrà
come sistema di finanziamento della pensione pubblica).
Alla base di questa svolta emergono tre cause (Cesari, 2000):
1) lo sviluppo demografico, che ha portato ad una società
formata per la maggioranza da anziani, il cui mantenimento,
in un sistema a ripartizione, graverebbe sempre più sulla
9
popolazione che lavora; 2) la crisi del mercato del lavoro,
che ha visto crescere il tasso di disoccupazione ad oltre il
12% alla fine degli anni ’80, provocando un forte aumento
dell’indice di dipendenza (rapporto tra anziani e occupati) dal
24% del 1960 al 50% dei giorni nostri (e le previsioni lo
situano intorno al 100% nel 2020, che vuol dire un rapporto
di 100 anziani per 100 occupati); 3) il disavanzo pubblico,
che vede un forte squilibrio tra entrate contributive e uscite
prestazionali, limitato da sacrifici effettuati dai lavoratori per
raggiungere entro il 1997 i valori preposti dal Trattato di
Maastricht.
Siccome sia il sistema a capitalizzazione che quello a
ripartizione possiedono vantaggi e svantaggi – il primo è più
equo mentre il secondo ha una valenza sociale superiore, ma
risente degli squilibri demografici – la scelta migliore è stata
quella di utilizzare un giusto mix, ovvero sostenere un
sistema di previdenza a tre pilastri, come è avvenuto in molti
paesi stranieri (Liera, 2000): il regime a ripartizione rimarrà a
finanziare il primo pilastro della previdenza pubblica, mentre
quello a capitalizzazione farà fede al secondo e terzo pilastro,
rispettivamente della previdenza complementare e
integrativa.
1.2 La riforma: i pilastri previdenziali
Di seguito, verranno descritti in breve i pilastri previdenziali
del nuovo sistema pensionistico italiano, per far comprendere
meglio i cambiamenti di struttura e di funzionamento
avvenuti dopo le riforme degli anni novanta.
10
1.2.1 Il primo pilastro
Si tratta della copertura pensionistica fornita dal sistema
obbligatorio di base (AGO, Assicurazione generale
obbligatoria) (Liera, 2000; Cesari, 2000). Tale sistema è
pubblico (tranne per alcune casse autonome privatizzate), ed
è finanziato con contributi che lavoratori e imprese pagano a
favore degli enti di previdenza e dell’SSN (Servizio Sanitario
Nazionale), per quanto riguarda l’assistenza sanitaria. La
copertura viene usufruita dalla quasi totalità dei lavoratori
(Liera, 2000).
Il maggior ente che si occupa della copertura
previdenziale pubblica è l’INPS (Istituto Nazionale della
Previdenza Sociale), ma esistono anche l’INPDAP (Istituto
Nazionale di Previdenza per i Dipendenti
dell’Amministrazione Pubblica), e istituti minori quali
l’ENPALS (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per i
Lavoratori dello Spettacolo), l’INPDAI (Istituto Nazionale di
Previdenza per i Dirigenti di Aziende Industriali) e
l’IP.SE.MA (Istituto di Previdenza per il Settore Marittimo),
che si rivolgono essenzialmente a singole categorie di
lavoratori, per non parlare delle molte piccole casse
autonome private (del Giudice e Mariani, 2001).
Il primo pilastro viene rinnovato nel 1995 con la Legge
335, la cosiddetta riforma Dini. Le novità apportate sono
diverse e importanti.
La prima consiste nell’introduzione del metodo
contributivo come sistema di calcolo dell’importo
pensionistico (Borella e Platini, 2000; Cesari, 2000; Liera,
2000): mentre in passato, col metodo retributivo, il calcolo
avveniva in base alle ultime retribuzioni versate prima di
smettere di lavorare, ora, col metodo contributivo, avviene in
base ai contributi versati, che variano al variare del PIL
11
(Prodotto Interno Lordo), ovvero al variare della totalità dei
redditi prodotti in Italia in un anno. La gradualità con cui
vengono applicati i disegni di riforma fa sì che al momento
esistano tre distinti regimi, a cui si può accedere in modo
differenziato in base agli anni di contribuzione posseduti dai
lavoratori al momento dell’entrata in vigore della riforma
(Cesari, 2000; Liera, 2000; del Giudice e Mariani, 2001):
• per chi aveva più di 18 anni di contributi al 31 dicembre
1995, i trattamenti vengono calcolati col metodo
retributivo (sistema retributivo);
• per chi aveva meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre
1995, i trattamenti vengono calcolati fino a quella data col
metodo retributivo, dal 1° gennaio 1996 col metodo
contributivo (sistema misto);
• per i nuovi assunti dopo il 1° gennaio 1996, i trattamenti
vengono calcolati col metodo contributivo (sistema
contributivo).
Inoltre, dal 1° gennaio 2001 (D.Lgs. 3/5/2001, n. 158, vedi
del Giudice e Mariani, 2001, p. 276), per chi ha almeno 15
anni di contributi, 5 dei quali nel sistema contributivo, i
trattamenti possono essere calcolati totalmente col metodo
contributivo dietro scelta volontaria del lavoratore.
La seconda novità emerge in merito all’età
pensionabile. La pensione d’anzianità, ovvero quella
pensione a cui si può avere diritto, se si è in possesso di un
minimo contributivo prima del raggiungimento dell’età per la
pensione di vecchiaia, scomparirà, anch’essa in maniera
graduale (Cesari, 2000; Liera, 2000; del Giudice e Mariani,
2001). Questa decisione è stata presa dopo aver valutato il
fatto che la pensione d’anzianità danneggia i giovani
lavoratori influendo su tre aspetti socio-economici (Cesari,
12
2000): 1) la diminuzione dell’importo delle pensioni future;
2) l’aumento dei contributi sociali, che scoraggia
l’assunzione da parte delle imprese; 3) l’incremento del
numero di baby pensionati sul mercato del lavoro, disposti ad
una retribuzione «in nero». A partire dal 2009, si farà fede
alle sole pensioni di vecchiaia. Le «regole» si differenziano a
seconda della categoria di lavoratori di cui si fa parte (Cesari,
2000; Liera, 2000; del Giudice e Mariani, 2001):
• i lavoratori del settore privato e autonomi iscritti all’INPS
potranno andare in pensione di vecchiaia all’età di 65 anni
per gli uomini e di 60 per le donne, con almeno 20 anni di
contributi (chi possedeva meno di 18 anni al 31 dicembre
1995) o con almeno 15 anni di contributi (chi possedeva
più di 18 anni alla stessa data). In alternativa dovranno
avere un’età minima di 57 anni nel 2006/2007 (a regime),
con almeno 35 anni di contributi, oppure potranno andare
in pensione a qualsiasi età, ma con anzianità di contributi
crescente fino ai 40 anni nel 2008 (a regime);
• i nuovi assunti dopo il 1° gennaio 1996 e chi opta per il
sistema contributivo sull’intera carriera (il suddetto D.L.
3/5/2001, n. 158) potrà andare in pensione dopo i 57 anni
d’età con almeno 5 anni di contributi, oppure a qualsiasi
età con almeno 40 anni di contributi.
Col calcolo contributivo si verificheranno penalizzazioni per
chi andrà in pensione dai 57 ai 62 anni, mentre sarà più
vantaggioso andare in pensione dai 62 ai 65 anni (Liera,
2000). I dipendenti pubblici necessiteranno di requisiti
inferiori rispetto ai suddetti, ma l’importo del trattamento
liquidato sarà minore, allo scopo di disincentivare la richiesta
di pensioni baby (Liera, 2000). Inoltre, la Legge finanziaria
2001, n. 388/2000, prevede incentivi per chi ha raggiunto i
13
requisiti per l’accesso alla pensione d’anzianità e vuole
continuare l’attività lavorativa (vedi del Giudice e Mariani,
2001, p. 280).
I lavoratori autonomi non iscritti all’INPS o a una cassa
previdenziale hanno tre opzioni, e a seconda della scelta
devono sottostare a specifiche normative. Essi possono
(Liera, 2000):
• partecipare a un ente previdenziale nel quale confluiscono
più categorie;
• entrare in una preesistente forma di previdenza per i
professionisti;
• accedere alla gestione separata INPS (solo per alcune
categorie; per un approfondimento vedi Liera, 2000, p.
67).
Una terza novità si riscontra nell’integrazione al
trattamento minimo (del Giudice e Mariani, 2001, p. 298),
un’integrazione che lo Stato, tramite l’INPS, corrisponde al
pensionato quando la pensione derivante dal calcolo dei
contributi versati è di importo molto basso, al di sotto di
quello che viene considerato il minimo vitale; in tal caso
l’importo della pensione spettante viene aumentato, o meglio
integrato, fino a raggiungere una cifra stabilita di anno in
anno dalla legge. Con la riforma Dini, le disposizioni
sull’integrazione al minimo non riguardano le pensioni
liquidate esclusivamente col sistema contributivo. Modifiche
vengono applicate anche al calcolo dei criteri minimi
reddituali, che saranno corretti successivamente con la Legge
385/2000.
La legge 335/1995 ha apportato altre novità, ma di
minor rilievo, o comunque relative a specifiche fasce di
lavoratori. Tutti i rinnovamenti previsti, ad ogni modo, hanno
14
lo scopo primario di limitare i livelli di copertura
pensionistica pubblica, che, in questo modo, diminuiranno
sostanzialmente nel tempo. Le previsioni, pur se non certe in
quanto non possono tenere conto dei futuri aggiustamenti che
avverranno sicuramente nei prossimi decenni, indicano che
(Liera, 2000):
• per gli impiegati statali, si passerà dall’87% nel 1995 a
poco più del 40% nel 2045, che equivale a meno della
metà rispetto al precedente valore;
• per i dipendenti privati, il valore della pensione media in
rapporto al salario medio salirà fino al 54% nel 2015 per
poi diminuire fino al 42-43% nel 2045;
• per i lavoratori autonomi, si passerà dal 36% del 2015 a
sotto il 20% del 2045.
In ogni caso, le riforme attuate fino ad oggi non sono
conclusive: il sistema previdenziale non è né in equilibrio,
ovvero i contributi non sono tuttora in linea con le
prestazioni, né sostenibile, cioè le prestazioni non sono in
linea con i contributi (Cesari, 2000). I tempi del riequilibrio
sembrano essere stimati intorno al 2030, quando il sistema
sarà tutto contributivo. Per la questione della sostenibilità,
diverse soluzioni sono state proposte in questi anni (per un
approfondimento vedi Censis/Area Life, 1999, p. 62; Liera,
2000, p. 70). Nel 2001, la Commissione Brambilla ha
effettuato un esame dell’andamento della spesa relativa al
pagamento delle pensioni con riferimento agli effetti prodotti
dalla riforma Dini: si è notata una sensibile riduzione del
tasso di crescita della spesa per le pensioni e la sua
stabilizzazione rispetto alla crescita del PIL dal 1996 al 2000.
Dall’esame di studi relativi a previsioni sull’evoluzione della
spesa pensionistica e sul suo rapporto col PIL, è emerso,
15
inoltre, che, se non si adotteranno ulteriori provvedimenti, il
rapporto riprenderà a crescere per raggiungere il livello
massimo nel 2031 e ridiscendere poi nel 2050. La
Commissione non ha formulato proposte d’interventi, in
quanto non era questo il suo compito, ma ha evidenziato i
vincoli e i fattori di criticità che possono rendere
problematico il raggiungimento degli obiettivi prefissati dalla
riforma. Attualmente è in corso il confronto tra le parti sociali
e il governo, che dovrà determinare se sono necessari
ulteriori correttivi e, nell’eventualità, definire gli interventi
più appropriati (per un approfondimento e per visionare il
testo della relazione vedi, tra gli altri, il sito Internet
www.pensionilex.kataweb.it ).
1.2.2 Il secondo pilastro: la pensione complementare
Sono le pensioni complementari. Vengono gestite in modo
collettivo, per lo più tramite fondi pensione e casse sanitarie
aziendali o di categoria (Liera, 2000), e sono finanziate da
contributi che lavoratori e imprese pagano in base ad accordi
contrattuali (Liera, 2000; Cesari, 2000). Nascono nel 1993,
con l’emanazione del Decreto legislativo 124 che, oltre a
regolarizzarne il funzionamento, ne presuppone il controllo
con l’istituzione della COVIP, la Commissione di vigilanza
sui fondi pensione (Borella e Platini, 2000). Alcune
modifiche sono incorse negli anni, soprattutto grazie alla
Legge 335/1995. A partire dal 1° gennaio 2001 è entrata in
vigore la nuova normativa fiscale della previdenza
complementare (D.Lgs. 47 del 18 febbraio 2000), che ha
16
interessato sia gli strumenti del secondo che del terzo pilastro
(polizze previdenziali).
I fondi pensione funzionano tipicamente secondo il
principio della capitalizzazione, come pure gli strumenti del
terzo pilastro (anche se ci sono esempi di casse aziendali che
funzionano a ripartizione). Come abbiamo già visto, nel
sistema a capitalizzazione, i lavoratori accumulano risparmio
durante la loro vita lavorativa per garantirsi un reddito per la
vecchiaia; i contributi versati vengono investiti per fruttare
un rendimento che costituirà una rendita vitalizia o, in
alternativa, un capitale, quando il lavoratore entrerà in
quiescenza (Liera, 2000). I fondi pensione a capitalizzazione
possono essere a contribuzione definita o a prestazione
definita (come mostrato in precedenza dalla Tabella 1.1). Nel
caso dei fondi a contribuzione definita, vengono prefissati i
contributi da versare nel fondo pensione, mentre l’entità della
rendita vitalizia o del capitale al momento del pensionamento
dipende dal rendimento ottenuto dalla gestione finanziaria di
tali contributi. Nel caso dei fondi a prestazione definita, è
l’importo pensionistico ad essere prefissato: questo è
determinato “in funzione del reddito […] o della pensione
pubblica […]” (Cesari, 2000). I contributi da versare vengono
adeguati nel tempo allo scopo di raggiungere il quantitativo
pensionistico stabilito (Liera, 2000). Per quanto riguarda il
rischio degli investimenti finanziari (Cesari, 2000), può
costituire una garanzia per i fondi a contribuzione definita la
possibilità di stabilire al momento della pensione una
prestazione minima in valore nominale (rendimento minimo
fisso) o reale (legato all’inflazione); se il risparmiatore
sceglie di non avvalersi di tale opportunità, allora il rischio
grava su di sé, e a seconda del risultato, ottiene somme più o
17
meno elevate. Nei fondi a prestazione definita, al contrario, il
rischio cade unicamente sul gestore. I fondi a prestazione
definita erano quelli più diffusi in passato, ma sono diventati
sempre più rari a causa dei problemi di equilibrio finanziario
cui hanno dato luogo sia in Italia che all’estero (Liera, 2000).
Per quanto riguarda l’utilizzo di una quota
dell’accantonamento annuale del TFR (Trattamento di Fine
Rapporto) per il finanziamento del fondo pensione, questo è
stabilito dalle fonti istitutive, almeno per i lavoratori assunti
entro il 1° gennaio 1996; per i neoassunti dopo questa data è
obbligatorio versare al fondo pensione tutte le somme
risparmiate per il TFR (Borella e Platini, 2000). Nella
trattazione di Liera (2000), “il TFR è un’indennità dovuta dal
datore di lavoro al dipendente, o agli aventi diritto, nel
momento in cui si ha risoluzione del rapporto per qualsiasi
causa (dimissioni, licenziamento per giusta causa, decesso del
lavoratore e così via)”. Per poter “adempiere a quest’obbligo,
il datore di lavoro deve periodicamente accantonare una”
determinata somma estratta dalla retribuzione del lavoratore,
che può investire come meglio crede allo scopo di creare la
prestazione dovuta (Liera, 2000).
Per ottenere le prestazioni al momento del
pensionamento, gli aderenti al fondo devono tenere conto di
alcune norme (Liera, 2000):
• la pensione di vecchiaia viene erogata all’età pensionabile
prevista dall’ente che gestisce la copertura previdenziale
pubblica e dopo almeno 5 anni di partecipazione al fondo;
• la pensione di anzianità viene rilasciata dopo 15 anni di
contributi e con non più di 10 anni in meno rispetto all’età
pensionabile prevista per la pensione di vecchiaia nel
regime obbligatorio;
18
• l’erogazione della pensione può avvenire o sotto forma di
capitale, come già accennato (l’importo non deve superare
il 50% di quanto maturato) o sotto forma di rendita
vitalizia, che può essere anche reversibile (dal 1° gennaio
2001, il pensionato può usufruire sia del capitale che della
rendita: se almeno i 2/3 di quanto maturato a scadenza
verranno erogati sotto forma di rendita, si avrà una
tassazione agevolata; il fondo pensione può infine
prevedere l’erogazione di una rendita in caso di invalidità
permanente).
La gestione del patrimonio dei fondi pensione è
affidata, secondo la legge, a intermediari autorizzati che siano
solidi e professionali. Questi si identificano in (Liera, 2000;
Cesari, 2000):
• banche;
• SIM (Società di Intermediazione Mobiliare);
• SGR (Società di Gestione del Risparmio);
• Compagnie di assicurazione.
Il patrimonio dei fondi è distinto da quello dei gestori, ed è
custodito “da una banca depositaria che vigila sull’effettiva
esistenza dei titoli” (Liera, 2000).
Dal 1° gennaio 2001, gli strumenti previdenziali del
secondo e terzo pilastro godono di nuovi vantaggi fiscali
(Liera, 2000):
• la possibilità di versare al fondo (o alla polizza vita),
sottraendolo dal reddito imponibile, “un contributo fino al
12% del reddito”, con un tetto massimo di 5.000,00 euro.
Per i lavoratori dipendenti, la detrazione “compete per un
importo […] non superiore al doppio della quota di TFR
destinata al fondo pensione” (Liera, 2000).