Capitolo I
FRANCESCO DALL 'ONGARO
NELLA SOCIETA DEL SUO TEMPO
Francesco Dall'Ongaro come artista e come uomo d'azione ebbe parte notevole e degna di ricordo, e
per il valore intrinseco della sua opera e per la nobiltà degli ideali che la ispirarono, e perche ben
riflette lo spirito dei tempi dei quali accompagna l'evoluzione. In arte i tempi si erano volti dal
romanticismo, dominante nella prima metà del secolo, al classicismo, che, non mai morto in Italia,
torna dopo il '50 animosamente e aggressivamente. In politica i tempi si erano volti dalla repubblica
ideale venutaci dalla tradizione classica e letteraria e caratteristica quasi di tutti i nostri conati di
libertà; dalla repubblica, che aveva già infiammato la passione politica di Alfieri e di Foscolo; dalla
repubblica vagheggiata col Mazzini, alla monarchia che, caldeggiata prima solo dai neoguelfi e
moderati, aveva verso il 1859 riuniti sotto la sua bandiera per amore d'indipendenza e di unità,
repubblicani e monarchici, da Garibaldi a Cavour. In religione i tempi si erano volti dallo
spiritualismo cattolico al positivismo e vago deismo dominante nei primi decenni della seconda
metà del secolo XIX, per l'indirizzo filosofico che ci veniva dalla Francia. Possiamo dire, però, che
l'evoluzione del Dall'Ongaro fu esteriore, non interiore, cioè egli si adattò ai tempi, ma il
mutamento di prospettive non toccò minimamente le convinzioni, le idee che si erano formate e ben
radicate dentro di lui: dal punto di vista letterario, egli fu definito e può dirsi uno degli ultimi
romantici; dal punto di vista politico, l'anima, l'aspirazione, la convinzione rimasero nel
Dall'Ongaro, pur nella lealtà dell'opera data in favore della monarchia, profondamente repubblicane;
dal punto di vista religioso, nel prete Dall'Ongaro del 1836-46 c'è già il fiero anticlericale e
anticattolico di dopo il '50. Nel campo sociale invece non vi è evoluzione nemmeno apparente: nato
dal popolo, amò e difese il popolo, ebbe da esso ispirazione d'arte e di vita e di volontà; compose
per esso versi e operò per la sua educazione morale e anche artistica, attendendo dall'opera
educativa soprattutto la redenzione e il benessere del popolo. Operò, combatte, scrisse contro ogni
oppressione, mantenendosi immutatamente fedele ai tre sentimenti che scaldano e pervadono tutte
le sue azioni e tutti i suoi scritti: l'amore all'Italia, l'amore al popolo, l'avversione al clero. L'arte non
è da lui considerata per se stessa, non costituisce la passione, il tormento, la gioia della sua anima,
che è occupata da altri ideali. L'arte per lui è strumento, è mezzo, non fine, e non solo perché questa
è la teoria romantica, che, dati i tempi, influisce su lui, ma anche per la forza che in lui hanno altre
idealità politiche e sociali, cui assoggetta l'arte e sacrifica quella gloria o almeno fama che avrebbe
potuto conseguire nel campo letterario. In lui la passione patriottica, sociale e laica occupa il primo
posto, l'arte rimane al secondo subordinata ad essa. Perciò le sue migliori qualità di artista si
rivelano non nella poesia ricercata, ma nell'impeto degli stornelli e di qualche canto patriottico e
nella semplice schiettezza della musa dialettale. Vi sono accenti di poesia e di arte vera quando il
sentimento vince il poeta, quando egli si ispira al popolo e scrive per lui, quando c'è la necessità di
combattere e di persuadere o quando, senza ambizioni, può schiettamente rappresentare se stesso.
Guardando alle virtù di cittadino e ai meriti dell'artista si può dire che egli è stato immeritatamente
troppo, e troppo presto, dimenticato: per andare verso l'avvenire, bisogna guardare anche al passato
e rivolgersi verso quelle personalità che ci devono essere di esempio e ci devono tramandare illustri
e nobili insegnamenti. Bisogna, quindi, «riconoscere la singolare virtù d'un uomo che, nato povero,
povero visse e povero morì per aver sempre tenuta la via retta »
1
. Possiamo collegare Francesco
Dall'Ongaro alla corrente della « letteratura popolare » e il « genere rusticale », che si sviluppa in
Italia intorno al 1840. L'origine della letteratura popolare risorgimentale è piuttosto profonda, e
mentre si riallacciava a quel moto umanitario che derivava le sue radici dal pensiero settecentesco,
mentre si complicava delle prime inquietudini sociali sospinte dal socialismo utopistico, in Italia
1
F.BOSIO, Francesco Dall’Ongaro, in Ricordi Personali, Tipografia Editrice Lombarda, 1878, Milano, p. 28.
accoglieva l'invito manzoniano ad una maggiore attenzione verso il mondo degli umili. Le strenne e
gli almanacchi, che trovarono nel Tenca uno straordinario storico nel 1845 e nel 1850, ebbero un
nuovo fiorire, uscirono dalla loro veste autenticamente popolare e tentarono di unire al diletto una
più solida istruzione, indirizzandosi ad un pubblico fino ad allora pressoché ignorato dagli autori.
Mentre in Toscana la letteratura popolare rimane ancorata al genere pedagogico ed educativo, in
Lombardia, nel 1846, dalla « Rivista Europea » sorse l'invito ad una letteratura artisticamente più
cosciente, più autonoma di fronte agli intenti didattici. È di quell'anno l'articolo di Cesare Correnti,
Della letteratura rusticale. Lettera a Giulio Carcano
2
, nel quale egli proponeva di sostare meglio
sulla vita dei contadini, di additarla con maggiore vigore agli occhi miopi dei cittadini viziati dalla
letteratura riservata ai privilegiati della cultura e si rivolse al Carcano per smuoverlo dalla sua
poetica ed avviarlo ad una più impegnata « letteratura rusticale ». Nel 1844 il Balzac aveva
pubblicato Les Paysans: nulla di idilliaco nel grande quadro ossessivo del Balzac, ma la realtà nuda
della cupa e ostinata psicologia di gente affamata di terra e stretta dai vincoli ferrei della fatica.
Ma la società italiana di allora non era preparata ad accogliere entro la cultura borghese simili
indagini realistiche rette, oltretutto, da tanta maturità artistica, e più adeguatamente fu assimilato
l'influsso di George Sand, ancora ricco di contemplazioni georgiche, indugi elegiaci, di
idealizzazioni rousseauiane della vita condotta a contatto della natura.
Frattanto al Carcano (1812-1882) si unirono altri scrittori, lombardi e veneti: i primi avevano come
archetipo Il curato di campagna (1841) di Carlo Ravizza (1811-1848), i secondi Il contadino
istruito dal suo parroco (1817) di Lorenzo Crico, parroco nel Trevigiano. Anche Francesco
Dall'Ongaro, friulano, si era impegnato a comporre novelle e racconti popolari: infatti le Novelle
vecchie e nuove (1861) e i Racconti (1869) mostrano a sufficienza la sua impronta civile ed
educativa. Insieme a lui composero racconti popolari e campagnoli Caterina Percoto (1812-1887),
friulana, vicina ai contadini delle sue terre e sensibile alle loro speranze e alle gioie, ma anche alle
loro sofferenze e dolori; Luigia Codemo (1828-1889), trevigiana, che volle essere scrittrice della
sua regione e ispirarsi alla vita dei ceti sociali più poveri, verso i quali provava simpatia; soprattutto
Ippolito Nievo, nel Novelliere campagnolo (1855-56) e nel romanzo contadinesco Il Conte pecoraio
(1857), che fu capace di maturare una coerente concezione sociale e politica nel Frammento sulla
rivoluzione nazionale (è, probabilmente, del '60 o del '61).
Nel 1873 moriva a Napoli triste e quasi dimenticato «per l'iniquità degli uomini e l'acerbità dei
fati»
3
Francesco Dall'Ongaro. L'uomo che aveva rivolto la sua molteplice attività, prima come prete,
e poi come maestro, giornalista, scrittore, soldato, al trionfo degli ideali di giustizia, di libertà, di
indipendenza, che aveva amato l’Italia e il popolo, che aveva accompagnato con il cuore e con
l'azione dal 1848 al 1870 l'opera della redenzione italica, finiva i suoi giorni in un pressoché totale
isolamento. Sulla sua bara, con la temperanza imposta dalla solennità della morte, la sincera e
imparziale parola del De Sanctis
4
deplorava l'atto ingiusto e crudele che aveva contristato gli ultimi
giorni del poeta, esaltava la pura nobile opera dell'uomo, fedele sempre ad una alta idea, accennava
il principale difetto dell'opera letteraria e artistica di questo fecondissimo scrittore, di essere cioè
opera non sempre sentita e ponderata abbastanza, perchè un troppo continuo e assillante bisogno
non lo aveva lasciato libero di scegliere il campo della sua attività, né, iniziato il lavoro, gli aveva
lasciato agio di approfondirlo, correggerlo, limarlo. Troppo egli scrisse e la sua opera è in gran parte
destinata ad essere dimenticata, e ciò che vi è di caduco ha trascinato con se anche ciò che si
sarebbe dovuto scernere e conservare dall'oblio ed egli fu, dopo la morte, troppo presto e troppo
interamente dimenticato con ingiustizia e ingratitudine.
Nato il 19 giugno 1808 in una regione, il Veneto, conservatasi libera per secoli e che tanto più
sentiva il peso del recente stato di servitù, in condizioni umili, mentre l'ingegno lo portava a più alti
gradi, egli sentì tutto il peso dell'oppressione politica, sociale e spirituale e contro tutte e tre si
ribellò e operò facendo sua la causa di tutti gli oppressi, similmente a quanto avevano fatto i nostri
2
In “Rivista Europea”, n. 3, marzo 1846, pp. 345-364
3
F. DE SANCTIS, Parole in commemorazione di F. Dall'Ongaro, in “La critica”, X, 1912, Pp. 151-153.
4
F. DE SANCTIS, ibidem
maggiori uomini del Risorgimento, Mazzini e Garibaldi, che egli conoscerà, ammirerà e seguirà
fino a sacrificare ogni cosa più diletta e fino all'amarezza dell'esilio. Sebbene fosse nato a Mansuè
di Oderzo, egli ci parla più volentieri di Tremeacque, come luogo nativo, avendo vissuto là per
secoli la sua famiglia, essendo là nato e vissuto suo padre fino al giorno in cui contrasse
matrimonio. Francesco era dotato di mente sveglia e di buona volontà e quindi bisognava farlo
studiare, e, secondo le consuetudini del tempo, per chi nato allo studio apparteneva al popolo,
avviarlo alla carriera ecclesiastica. Appena dodicenne fu condotto a Venezia per farlo entrare nel
Seminario e farlo diventare prete, unica posizione onorifica a cui si mirava allora nell'ambito
ristretto di un villaggio. Ma egli non era nato per essere prete, troppo vago e indeterminato era il suo
sentimento religioso; troppo vivo il desiderio di indipendenza personale, troppo viva la sua
aspirazione alla libertà, e l'immaginazione un po' sensuale del mondo. Tutte queste cause che gli
renderanno così dura la sua carriera di prete non gli sono ancora presenti e chiare, quando
giovinetto acconsente di entrare nel Seminario di Venezia, sono ancora oscuri i presentimenti che
gli si riveleranno a poco a poco. Egli conservò di quegli anni di collegio un buon amaro ricordo, di
cui abbiamo un riflesso in quel tetro quadro, a tinte molto scure, che della vita monastica ci fa nella
novella che ha tanti accenni autobiografici: La Rosa bianca
5
. Ed è anche certo che nel Seminario di
Venezia non era ben visto e si colse la prima occasione per allontanarlo. Espulso dal Seminario di
Venezia si recò in quello di Padova e vi compì i due prescritti anni di teologia. Attese
nell'Università allo studio della letteratura e contrasse buona amicizia col poeta Luigi Carrer e con
la poetessa Aglaja Anassilide. Francesco Dall'Ongaro sentì vivo il bisogno di studio, di quiete, di
contemplazione, e vestì l'abito sacerdotale. Ordinato sacerdote dal vescovo di Padova, il
Dall'Ongaro si consacrò alla predicazione. Egli credeva che la parola dall'alto del pergamo potesse
«gittar qualche seme di maschia virtù nel popolo»
6
. Alle sue prediche tenute in Santa Maria dei
Miracoli a Venezia assisteva un numero insolito di preti, accorsi con l'animo di coglierlo in fallo ed
egli si vide fatto segno della persecuzione del clero e, dopo un colloquio col vescovo di Padova, in
cui egli rifiutò di diventare curato, si vide interdetta la predicazione e costretto a prendere altra via.
Il Dall'Ongaro, lasciata la predicazione, si diede alla istruzione privata.
Fu dapprima ad Este, poi, dopo breve dimora, triste ed avvilito ad Andro, in casa Dandolo ad
insegnare la "calligrafia” ad un figlio del conte Tullio Dandolo. Assai breve fu il soggiorno ad
Andro, ma indimenticabile per il poeta: necessità di vita e forse comando del cuore lo fecero partire
ben presto; gli rimaneva il conforto della corrispondenza calda, sebbene assai rispettosa e contenuta
nei limiti dell'amicizia, con Giulia. Ma pochi mesi dopo Giulia muore improvvisamente, lasciando
di se largo e profondo compianto. Francesco Dall'Ongaro andò a Parenzo, dove educò il marchese
Paolo Polesini. Con questo passò a Vienna, quindi a Trieste, quale istitutore di filosofia e di
letteratura. Ma egli non era fatto per il ristretto campo dell'istruzione privata; egli anelava a più
larga arena anche per poter più liberamente e utilmente combattere le sue battaglie. E a Trieste
comincia a fervere aperta e concitata la sua vita di scrittore. Fonda un giornale “La Favilla”, che
dura dieci anni: cooperano con lui il cognato Pacifico Valussi, il tragediografo Antonio Somma di
Udine, e il poeta Antonio Gazzoletti di Trento, e da ogni parte d'Italia piovevano manoscritti. A
Trieste, mentre ancora tra contrasti si compiva l'evoluzione della sua fede, che terminerà col suo
uscire dal sacerdozio e poi dalla Chiesa, unirà alla lotta contro quella che egli sentiva come
oppressione spirituale la lotta contro l'oppressione sociale e politica, propugnando istituzioni a
favore del popolo, scrivendo del popolo per farne meglio conoscere alle altre classi la vita, le virtù,
le miserie, i dolori, per rivendicarne i diritti, per dimostrare la necessità di una migliore educazione,
di una più illuminata e più amata giustizia sociale. Nel 1847, festeggiandosi con un banchetto
l'economista inglese Riccardo Cobden, il Dall'Ongaro osò augurare il formarsi di una «lega
5
Cfr. F. DALL'ONGARO, Novelle Vecchie e Nuove, Firenze, Le Monnier, 1869.
6
R. BARBIERA, L'opera civile e le passioni di Francesco Dall'Ongaro, in Ricordi delle terre dolorose, Milano,
Treves 1918, p. 164.
doganale italica, primo anello dell'italica unità »
7
. L'accento troppo scoperto dispiacque all'Austria
che, trovato il Dall'Ongaro ospite non desiderabile nella città di Trieste, gli ordinò di allontanarsene.
Egli partecipa ai primi moti liberali in Toscana, poi a Roma. Alla notizia della sollevazione di
Milano parte con i volontari benedetti da Pio IX alla volta della Lombardia, dalla quale è inviato
con messaggi e incarichi nel Veneto. E per la sua repubblica diletta è prima soldato, poi giornalista
e tribuno, finche il Manin, trovatolo troppo appassionato, crede opportuno allontanarlo da Venezia e
mandarlo a Ravenna. A Ravenna, incontratosi con Garibaldi, che alla notizia dei moti italiani si era
imbarcato per correre in aiuto della patria, egli si fa mediatore per la costruzione di un corpo di
volontari agli ordini di Garibaldi e vi riesce e si ha così il primo nucleo di quelle legioni garibaldine
che resteranno luminose nella storia. Poi da Ravenna si reca a Roma, dove dà intera la sua opera e
dove ben presto è proclamata la Repubblica ed egli è nominato membro della Costituente,
commissario del popolo e aiutante di Garibaldi, membro permanente del Comitato per la pubblica
istruzione, e diventa fondatore e direttore del “Monitore Romano”. Ma la Repubblica Romana è
costretta a capitolare, come dovrà cedere Venezia, per le forze preponderanti degli Austriaci, e
Dall'Ongaro prende la via dolorosa dell'esilio, prima a Lugano, in Svizera, poi in Belgio.
In questi anni maturò la propria evoluzione filosofica e politica dalle idee repubblicane e
mazziniane a quelle monarchiche, ma se pure per il mutarsi degli eventi e forse dell'età, egli si
staccherà a poco a poco dal suo partito o si evolverà con gran parte di esso in modo che lo
troveremo nel 1858 inviato di affari in colloquio col conte di Cavour, non diserterà per questo dalla
battaglia e continuerà a combattere per l'Italia e per la libertà. Mentre si operava la sua evoluzione
politica, andava meglio determinandosi in lui anche il suo pensiero religioso. Nel '58, quindi, lo
troviamo in colloqui con il Cavour, nei quali per la convinzione formatasi nel Dall'Ongaro della
ferma volontà della monarchia di fare guerra all'Austria e di lavorare per l'unità d'Italia, sono vinte
le ultime titubanze del repubblicano e nel 1859 lo troviamo a Firenze a lavorare a favore della
nuova guerra, la seconda guerra d'indipendenza, con gli stornelli e canti di guerra lanciati al popolo
italiano e rimarrà d'allora in poi fino all'ultimo fedele alla causa lealmente abbracciata. Se non
mancarono le delusioni politiche che amareggiarono tutti gli italiani (Villafranca, Aspromonte,
Lissa, Custoza, Mentana), per il Dall'Ongaro ai dolori politici si aggiunsero le ostilità, le
persecuzioni all'uomo che finirono col fiaccarne la forte tempra. Al suo arrivo a Firenze il suo
passato di mazziniano lo fa apparire sospetto. Ma il Ricasoli, venuto a contatto con lui, non solo non
lo vuole più oggetto di persecuzione, ma gli conferisce una cattedra di letteratura drammatica. La
guelfa Firenze non vede di buon occhio su una sua cattedra l'uomo che aveva lasciato la veste
sacerdotale, che era stato commissario del popolo a Roma e tribuno di due repubbliche. Viene
condotta contro di lui una lotta aperta, fatta di ostilità che tendono a minare la sua posizione, a
rendere insostenibile la sua dimora a Firenze. Nominato Ministro della Pubblica Istruzione Cesare
Correnti, il Dall'Ongaro è chiamato come consigliere per le Belle Arti presso il ministro e promuove
opere buone e aiuta gli artisti che più hanno merito e necessità.
Ma l'invidia lo tormenta rappresentandolo come cortigiano di Ministri, e allora chiede di riprendere
le lezioni di letteratura drammatica, ma di poterle tenere invece che a Firenze a Napoli. Le sue
lezioni conseguono un grandissimo successo all'Università di Napoli, il ministro si rallegra con lui,
gli studenti si affollano ai suoi corsi. Il ministero di cui era membro il Correnti cade e lo Scialoja,
che gli succede, si lascia vincere dalle pressioni dei nemici del Dall'Ongaro, e compie l'iniquità di
trasferire il Dall 'Ongaro a Firenze. E il Dall'Ongaro scrive nel suo Epistolario al Massarani: « Forse
saprai che lo Scialoja soppresse il mio officio a Napoli, e mi rimette a Firenze, dove non c'è che fare
per me. E’ un modo indiretto per dirmi ch'io me ne vada, e cerchi altro pane: se fossi sano come
prima l'avrei già cercato. Ora indugio fino ch'io sappia fin dove spingeranno la celia »
8
.
7
R. BARBIERA: op. cit., p. 170.
8
A. DE GUBERNATIS, F. Dall'Ongaro e il suo epistolario scelto. Ricordi e spogli, Firenze, Tipografia Editrice
dell'associazione, 1875, pp. 255-256.
Infatti il poeta è malato, si tratta di un tumore al ventricolo: il corpo è vinto dal male, l'anima invasa
dall'amarezza. È malato e lo mandano via da Napoli e dovrebbe ancora prepararsi a lottare.
Domanda una proroga, su consiglio di Settembrini, rettore dell'Università, con la speranza di far
revocare il decreto. Ma prima che arrivi la proroga, il 10 gennaio 1873 muore, dopo aver cercato
fino all'ultimo di nascondere alla sorella e ai nipoti la gravità del suo male, i dolori fisici e morali
che lo affliggevano. Qualche separata onoranza gli fu tributata qua e là, ma ben presto cadde
nell'oblio. Edizioni e accenni alla sua opera non si fanno più; solo più tardi, verso il 1911, e poi
durante la seconda guerra mondiale, ci vengono, dal Friuli specialmente, raccolte parziali dei suoi
versi e cenni di lode, qualche separata edizione abbiamo del Fornaretto e degli Stornelli, ma per i
più è un dimenticato. Mentre i preti e i conservatori lo avversavano per il suo spirito laico
anticlericale democratico, non era sostenuto dai mazziniani puri che non gli perdonavano il suo
accostarsi alla monarchia e l'essere divenuto professore e consigliere di ministri.
Francesco Dall'Ongaro è stato tra coloro i quali più convintamente incoraggiarono il diffondersi di
una letteratura popolare, del genere rusticale, che si sviluppò in Italia, maggiormente nel Lombardo-
Veneto, verso la metà dell’Ottocento. Infatti un tratto nuovo della letteratura italiana degli anni
dopo il 1840 è che essa comincia, per la prima volta, a riflettere in modo cosciente ed attivo le
questioni sociali, quali si presentavano nell’Italia del tempo, protesa alla costruzione di uno stato
nazionale “borghese”, ma già lacerata dalla presenza di un ceto operaio e di larghissime masse
rurali. Si pone così l’esigenza di una moderna letteratura “popolare”, anche se gli sforzi per
realizzarla non erano cosa nuova: infatti già i romantici avevano parlato di letteratura popolare e la
richiesta di una letteratura moderna capace di parlare al popolo era stata al centro, una ventina di
anni prima, delle polemiche romantiche. La letteratura popolare veniva ad essere espressione
dell’anima nazionale, dell’anima di una nazione che, dopo le battaglie egualitarie e dopo la
Rivoluzione Francese, si era ormai allargata a comprendere tutto quell’insieme di ceti e di strati
sociali che con una parola si dicevano <<terzo stato>>, tutto quel mondo di intellettuali, piccoli
proprietari, artigiani, impiegati, che ormai erano la parte viva e attiva di una nazione. Conseguenza
sarà l’ingresso nella poesia italiana non solo degli umili manzoniani, ma di una folla di personaggi
vicina a quegli umili per ceto sociale, per sostanziale affinità di costumi e di lingua: è il terzo stato
che sostituisce aristocratici e re. Ma dopo il 1840 gli artigiani del terzo stato cedettero il posto agli
operai, ai braccianti e l’evoluzione della narrativa italiana è nella progressiva conquista del quarto
stato alla dignità della letteratura, il che significava la progressiva scoperta del posto che esso
occupava ormai nella struttura sociale italiana. Le cause sono naturalmente sociali: lo sviluppo
progressivo dell'industria, l'eco della questione sociale che in Francia e in Inghilterra si va facendo
scottante, la coscienza, nell'avvicinarsi della rivoluzione nazionale, che il problema non è solo
politico, ma politico e sociale ad un tempo, il primo affacciarsi della paura del socialismo dopo il
1848. Politici, critici, giornalisti sono tutti concordi nel chiedere a narratori e poeti un arte
popolare., il che ora significa attenzione a certi problemi squisitamente sociali, e la descrizione della
vita degli umili, e una partecipazione attenta e impegnata a quelle questioni che preoccupavano
ormai tutto il paese. E intanto anche i poeti chiedevano, come faceva il Dall'Ongaro, che la stampa
periodica pubblicasse scritti "popolari", « sempreché sian dettati con fede e affetto da gente che non
isdegni studiare le abitudini, la lingua, le virtù, e i difetti del popolo stesso per rappresentarli sotto
un punto di vista vero e poetico, insegnando agli oppressi a soffrire con dignità e mostrando alla
nostra eletta società come anche il povero ha una anima capace di virtù e di grandezza e tale sovente
da far vergognare coloro che nacquero in alto stato e dalle ottime discipline in cui vennero istituiti,
non furono fatti migliori »
9
. La borghesia più intelligente prese, di fronte alla questione operaia e
contadina, una posizione paternalistica ed illuminata, e questo fu il suo merito ed il suo limite, come
anche per il carattere dell'arte che stava nascendo. Abbiamo detto che ci fu la scoperta all'arte delle
plebi italiane, e la rivendicazione della loro dignità sociale ed umana; ma l'astratezza di questa
rivendicazione e la volontà di modificare il tenore di vita e l’incultura di quelle plebi solo quel tanto
9
In “La Favilla”, a. VII, n. 13, 15 luglio 1842.
che s’accordasse alla struttura borghese, come soffocarono, in politica, la rivoluzione sociale, così
soffocarono, in arte, la nuova letteratura popolare, dando origine ad un genere la cui nota dominante
è l'idillio. L'idillio è una sostanziale evasione dalla realtà, significa incapacità di sentire e
rappresentare tragicamente la vita, rinunzia ad approfondire i caratteri, volontà di addolcire i
contrasti, moralismo facile e lieto fine obbligato. Dal punto di vista socia è l’interclassismo, la
collaborazione, più sentimentale che politica tra le classi, e quindi una mancanza di autonomia delle
classi contadine, viste sempre in rapporto a quelle dominanti. Dal punto di vista letterario l'idillio è
il manzonismo di un Manzoni in cui, spenta quell'energia di fede nell'intervento operoso della
Provvidenza, il lieto fine diventa gratuito. Dal punto di vista linguistico l'idillio è la rottura di
quell'equilibrio tra il familiare e l'elegante, per una lingua che se non è più di tono alto, non è ancora
decisamente moderna, e ricalca nella prosa quelle mescolanze di tono, quella oscillazione tra
sciatteria e accademismo
10
. Ma il Verga sarebbe stato in grado di romperla con tutta la secolare
tradizione letteraria italiana, proprio perché avrebbe avuto il coraggio di romperla con la visione
idillica del mondo subalterno. Nelle sue opere non più idillio, ma tragedia, non più ottimismo con o
senza Provvidenza, ma un fiero virile pessimismo; e il mondo subalterno sarebbe stato visto nella
sua autonomia, non mondo più di buoni selvaggi o di buoni popolanti, ma mondo di uomini, senza
paternalismi. E appunto per questo egli avrebbe potuto dare all'Italia, dopo l’epopea del terzo stato
che le aveva data il Manzoni, l’epopea del quarto stato realizzando quella letteratura popolare e
realistica che era stata, per vari decenni, così tenacemente auspicata e tentata.
10
Cfr. G. PETRONIO, Nievo e la letteratura popolare, in “Società”, XII, n. 6, dic. 1956, pp. 1094-1103.