5Paul Krugman, “la stella nascente di questa fine di secolo e del prossimo”
1
, ha senza
dubbio saputo riconciliare fra loro le istanze di geografia ed economia. Fin dai suoi
primi scritti della fine degli anni Settanta, si è occupato di una serie di problemi che
toccano lo sviluppo regionale e locale: gli scambi interregionali, le esternalità, la
localizzazione industriale, la politica industriale strategica, il ruolo della Storia e le
conseguenze dell’integrazione economica e monetaria sulla crescita a livello
regionale e locale. Nel suo celebre testo del 1991, Geography and Trade, egli divide
con i geografi lo stesso interesse sia per il fenomeno della agglomerazione regionale
e locale sia per le conseguenze geografiche degli scambi.
Pertanto, tra i geografi e Krugman persistono importanti differenze, prima di tutto
metodologiche: il lavoro di Krugman è molto formalizzato, appoggiandosi sempre a
dimostrazioni matematiche; se esso seduce é anche per tale rigore concettuale. I
geografi (Martin/Sunley, 2000), al contrario, prediligono modelli reali e qualitativi, a
cui collegano sempre esempi concreti. I loro studi hanno preso atto, all’inizio dello
scorso decennio, dell’avvenuto passaggio dalla produzione di massa fordista ad una
produzione più flessibile e delle ripercussioni di questo cambiamento sul tessuto
locale e regionale. Krugman (1989), su tale frattura, è molto più sfumato. Egli
descrive l’ambiente produttivo locale rifacendosi piuttosto ai modelli formali
tradizionali del mercato monopolista ed oligopolista
2
: per lui, la concorrenza
imperfetta che comporta, a livello macroeconomico, il fallimento di mercato, inizia
ad agire proprio a livello locale. A livello locale, la grande impresa controlla
comunque la piccola, cui impone i propri standard produttivi e la propria
organizzazione del lavoro
E’ su questo punto che si consuma la prima sfida tra le due scuole di pensiero: i
geografi della scuola della “nuova geografia industriale”, infatti, non vedono in tale
convivenza tra piccola e grande impresa a livello locale una posizione dominante di
quest’ultima, ma piuttosto un rifiorire della concorrenza perfetta. Le esigenze di
1
Samuelson, P. prefazione a “the age of diminished expectations” di Krugman, P. , Londra, Ed. MIT
Press VII, 1994
6produzione flessibile invitano, infatti, i grandi a non riassorbire i piccoli; i piccoli,
dal canto loro, godono della presenza dell’impresa leader e riescono ad avere una
produzione industrialmente organizzata che finisce per renderle indipendenti dalle
esigenze della stessa grande impresa. In questo caso, la taglia dell’impresa diventa un
dato non rilevante per comprendere l’equilibrio locale: le imprese si comportano così
come se fossero tutte uguali.
Le due scuole hanno altri luoghi di scontro oltre al problema della concorrenza, or
ora descritto come rapporto tra struttura industriale e struttura di mercato: in
particolare, le ripercussioni tecnologiche dell’agglomerazione, le esternalità, le
caratteristiche sociali e culturali delle comunità locali
3
. Tuttavia è il dibattito
suscitato dal processo di agglomerazione che ci permette di terminare l’abbozzo del
quadro teorico internazionale in cui inserire la presente tesi.
Krugman (1993) dice a chiare lettere che l’agglomerazione locale, che spinge verso
la specializzazione industriale, è un’arma a doppio taglio: se l’economia locale è
molto orientata allo scambio, l’agglomerazione pone le basi di una crescita sostenuta
e durevole; tuttavia, qualora la domanda che sostiene tale produzione si orientasse
verso altre economie locali concorrenti, solo un sistema fiscale federale e
meccanismi di stabilizzazione automatica potrebbero evitare la recessione. Nessuna
possibilità che il mercato possa rioganizzarsi da sé, senza ripercussioni sulla crescita
nel lungo periodo. La nuova geografia industriale a tale dilemma della crescita
risponde, invece, portando esempi di sistemi economici locali che, grazie alla
particolare flessibilità dei fattori produttivi impiegati (tutti: lavoro, capitale,
tecnologia), hanno un’elevata capacità di adattamento alle trasformazioni
economiche indotte da variazioni della domanda. Le politiche pubbliche, in tale
occasione, devono solo riconoscere tali sistemi ed accompagnare le loro
ristrutturazioni con legislazioni snelle: preservando la rapidità di trasmissione degli
impulsi esterni all’economia locale, nessuna politica di spesa pubblica è necessaria.
In questo caso, tuttavia, all’assenza di forma propria dei geografi si aggiunge anche
una particolare eterogeneità degli esempi portati. Il problema che fin qui ha
7indebolito le tesi dei geografi è, infatti, a nostro avviso, un problema terminolgico.
Nel testo di Benko e Liepiez, dal quale il dibattito è stato tratto, si mettono insieme
vecchi sistemi di produzione locale storici (Route, attivo in Francia fino alla crisi
degli anni 70’, e la Sylicon Valley) regioni industriali particolarmente ricche (L’Ile
de France), le imprese coreane di Los Angeles, le zone industriali brasiliane e
portoghesi, le vecchie regioni industriali cinesi, l’Inghilterra del Nord-Est, la città di
Marsiglia. L’intento è quello di confortare la teoria di come un sistema locale
lasciato libero di esporsi alla concorrenza internazionale possa risolvere da sé i propri
problemi congiunturali. Ma questo è il risultato:
“local productive systems”,“clusters”, “industrial districts”, “enterprise
agglomerations” – while the terminology varies, the phenomenon remains the same:
all refer to geographical grouping s of firms in related lines of business.
4
Diventa difficile, di fronte ad un concetto così slavato, non elogiare il rigore
matematico di Krugman: con tale confusione, le sue tesi piaceranno sempre di più.
Con il presente lavoro non ci prefiggiamo tuttavia di risolvere gli ormai decennali
problemi di definizione che affliggono le entità produttive locali. Questo imporrebbe
di analizzare ogni realtà locale in cui tali sistemi sono presenti, il che non è nei nostri
mezzi. Dalle ricerche svolte, è tuttavia emerso un fatto importante che merita, a
nostro giudizio, un’analisi di ampio respiro.
Si è a lungo insistito sull’eterogeneità delle agglomerazioni locali e forse si andrà
anche oltre, nel corso del lavoro, evidenziando le mancanze politiche e organizzative
che impediscono attualmente a tali entità di trovare modelli generali sufficientemente
esplicativi. Oggi, tuttavia, succede che due paesi nel cuore dell’Europa, l’Italia e la
Francia, si ritrovino al loro interno con sistemi di produzione locale pressoché
identici. Questo potrebbe essere solo un caso indotto da difetti descrizione degli
stessi: per esempio, se lo stesso studioso si trovasse ad analizzare sia i distretti
4
World Congress on local clusters, Paris – La Villette, 23-25 gennaio 2001 – Issue paper, capitolo 1,
paragrafo a, linea 1.
8italiani sia gli SPL francesi, è probabile che dai suoi scritti emergano delle
somiglianze in realtà non presenti. Ma questo non è il nostro caso: nessun
distrettualista italiano ha ancora osservato molto attentamente l’esperienza
transalpina, e non si ricordano neppure contributi di particolare pregio sui distretti
italiani fatti da esperti francesi di SPL.
Il punto è però un altro. Fino al 1997, nessun francese sapeva cosa fosse un SPL.
Semplicemente, non ne esistevano. In Italia, al contrario, nel 1997 già si disponeva di
accurati strumenti per misurare le esternalità presenti in un distretto industriale, e si
distingueva tra distretti storici e distretti di nuova costituzione. Come si vedrà più
avanti, i distretti industriali erano 199, ed avevano già un peso notevole sulla nostra
economia. Cosa ha fatto dunque la Francia? In parole molto grosse, ha copiato
l’Italia. Così facendo essa potrebbe aver dimostrato che un distretto industriale –
Système Productif Local (SPL) nell’esperienza transalpina- può non essere solo un
fatto spontaneo e miracoloso, ma può essere creato anche con politiche pubbliche
adeguate.
Tuttavia, solo l’analisi comparata dei due sistemi industriali permettere di risolvere
l’interrogativo. Con il presente lavoro ci prefiggiamo quindi di studiare l’esperienza
dei distretti industriali in Italia (Capitolo 2) e di compararla poi con la recente storia
della nascita degli SPL in Francia (Capitolo 3). La comparazione sarà resa possibile
anche in grazie all’analisi di alcuni strumenti teorici sviluppati principalmente da
studiosi italiani, ma che tuttavia sono validi per ogni sistema locale che possieda le
caratteristiche del distretto industriale (Capitolo 1). L’idea di fondo è che da tale
comparazione possano trarsi degli spunti di riflessioni validi non solo per le relazioni
industriali franco-italiane: lo scopo ultimo (Conclusioni) sarà quindi quello di
corredare di argomentazioni convincenti l’ipotesi che quanto avvenuto tra Italia e
Francia possa avvenire anche con altri Paesi europei, magari in un quadro di
programmi comunitari di politica industriale.
9CAPITOLO 1: TEORIA DEI DISTRETTI INDUSTRIALI
L’inquadramento generale della teoria dei distretti industriali nel filone
dell’approccio geografico allo studio dell’economia non può distoglierci dal fatto che
il distretto rimane un sistema di organizzazione industriale della produzione: una
ricostruzione coerente della teoria deve dunque partire dai principi base
dell’economia industriale per poi muoversi verso l’applicazione degli stessi ad
un’idealtipo di realtà industriale.
Per quanto riguarda la base, il riferimento più sfruttato è quello al trattato di Alfred
Marshall del 1919, un attacco diretto e ficcante all’economia fondata sul mercato di
concorrenza pura e perfetta e sull’equilibrio generale walrasiano. Come vedremo, gli
influssi di tale pensiero sulla moderna teoria dei distretti sono ancora notevoli (sez.
I). Al contrario, l’idealtipo di distretto industriale, dopo i distretti di Sheffield e del
Lancashire cui Marshall fa riferimento, è fornito dal sistema industriale italiano:
“plusieurs auteurs ont traité au cours des années 80’ la problématique de la
croissance endogène, en liant entre eux l’identité territorielle e la capacité de
production collective; toutefois, les chercheurs italiens (…) ont donnée à cette façon
de produire le plus de crédibilité, en demontrant son efficacité
5
”.
Rispetto agli altri paesi industrializzati, il tessuto industriale italiano si distingue per
due caratteristiche originali. Da un lato si registra, infatti, il predominio delle piccole
e piccolissime imprese, nonché dei settori cosiddetti “tradizionali”, nell’industria
manifatturiera; come meglio argomenteremo in seguito
6
, tale distribuzione interna
non incide peraltro sulla quota totale dell’industria nell’economia italiana, che
rimane prossima alla media dei paesi dell’OECD. Dall’altro, invece, si constata il
permanente dualismo Nord-Sud che, nonostante il particolare dinamismo mostrato
5
Maillat, D. “Organisations productives territorialisées et milieu innovateur” in DATAR (acd)
“Réseaux d’entreprises et territoires: regards sur les systèmes productifs locaux”, La Documentation
française, 2001 pag.45
6
§ Capitolo 2, sez.I, par.1
10
negli ultimi tempi da alcune regioni meridionali, come la Puglia, continua ad avere
un peso notevole nelle relazioni industriali della penisola: come ben mostrato da
Viesti (2001), tale frattura ha avuto ed ha ripercussioni anche nell’introduzione del
modello distrettuale nel Sud del Paese.
A queste caratteristiche strutturali si somma il fatto che l’industria italiana é da
sempre specializzata in produzioni a bassa intensità di capitale, a bassa quantità di
tecnologia e ad alto sfruttamento del fattore lavoro. Limitandosi a queste poche
evidenze, sorge allora il paradosso di un paese senza dubbio avanzato (per PIL pro
capite, per ripartizione e struttura del consumo, per grado di scolarizzazione, per
livello di salute pubblica, per protezione sociale dei lavoratori), ma dotato di una
struttura industriale apparentemente da paese in via di sviluppo. Per usare uno
schema caro ai teorici della crescita (Rostow, 1960), si potrebbe dire che l’Italia è un
paese che socialmente ha superato la fase del consumo di massa, ma che dal punto di
vista delle strutture produttive sembra essersi fermata allo stadio del take-off, il
decollo verso la produzione “matura”. Questo la mette in competizione, a livello
internazionale, non con i propri principali interlocutori politici, bensì con le
economie emergenti che trovano margini di alta competitività proprio in quella
struttura dei salari che in Italia è, al contrario, molto rigida.
L’arcano è in parte svelato dalle analisi qualitative del fattore lavoro, ben esposte
negli studi di Brusco e Fortis
7
; in effetti l’Italia, rispetto ai suoi concorrenti a livello
internazionale, ha saputo finora gestire i buoni margini di vantaggio risultanti dalla
particolare abilità degli addetti (produttività e qualità del prodotto finito). Peraltro, il
problema della competitività si fa sempre più forte con la globalizzazione dei mercati
sicché è compito della teoria economica fugare i dubbi sulla capacità di resistenza
dell’Italia alla concorrenza internazionale.
Chi si meraviglia che un paese retto da sistemi di piccole imprese possa competere
con economie basate sulla grande impresa, dà spesso per scontato che le economie di
scala associate al fattore dimensionale siano sempre desiderabili e importanti per tutti
7
§ Capitolo 2, sez.I
11
i settori produttivi e che esse, comunque, operino indisturbate senza mai trovare
compensazione in diseconomie di qualche tipo. La realtà produttiva, invece, è in
genere meno lineare.
Di fronte a un sistema di PMI, la sfida teorica diventa quindi capire dove avviene il
cambio di segno tra economie di scala da una parte e costi di transazione dall’altra: in
altre parole, quando un’unità addizionale di fattore produttivo fa diminuire i costi
produttivi di meno di una unità? Alternativamente, si può ragionare in termini di
costi di transazione e diseconomie organizzative; lo scopo diventa allora capire
quando un’impresa troppo grande ha costi di gestione organizzativa tali da annullare
il vantaggio di un prodotto meno costoso.
Le recenti evoluzioni della teoria dei distretti industriali si gioca dunque sul filo della
falsificazione empirica. Nei primi anni Novanta, il modello distrettuale italiano è
particolarmente colpito dalla cattiva congiuntura economica: tra il 92’ e il 93’,
quando l’Italia conosce prima l’esclusione dal sistema monetario europeo, poi un
crollo del PIL reale (-1,5%), alcuni
8
non esitano a pensare che un sistema industriale
fondato su una realtà spontanea come il distretto avesse ben poche speranze di
sopravvivere alla concorrenza internazionale. La crisi, tuttavia, indotta in gran parte
dall’annessione della Germania dell’Est alla RFT, ovvero all’Unione europea di
Maastricht, non riguarda solo la produzione italiana. Sicché nella successiva fase di
riorganizzazione, aiutati da un lira particolarmente debole sul mercato delle divise,
tutta l’industria nazionale si risolleva e i distretti riescono a riconquistarsi in pieno le
loro rispettive quote di mercato, nazionale ed internazionale. Aiutati dal
completamento del mercato unico, i distretti riescono in un altro piccolo miracolo:
convincono della loro efficienza altri Stati europei, esportando quindi non solo i
propri prodotti, ma anche un immagine particolarmente florida dell’industria italiana.
La sua immagine internazionale non si limita più solo alla serie dei prodotti del Made
in Italy, ma si allarga con l’esportazione di un sapere industriale, un italian way of
doing.
8
Onida, F./ Viesti, GF/ Falzoni, AM “I distretti industriali: crisi o evoluzione?”, EGEA, 1992, Milano
12
La teoria ha seguito questo sapere pratico, organizzandosi essa stessa: tale processo
si è svolto sulla base di dati quantitativi, che tanto erano mancati alle prime
teorizzazioni del modello. Nel corso degli anni Novanta, gli studiosi non si sono
preoccupati, infatti, di apportare nuovi studi di caso, che creano sì ricchezza di
materiale, ma pure eterogeneità: dei distretti non si metteva più in dubbio l’esistenza,
tanto più che pure la legislazione nazionale li aveva identificati
9
. Essi hanno invece
puntato sul continuo affinamento degli strumenti in grado di rilevare gli elementi
quantitativi del distretto, nel tentativo di rendere questi dati più omogenei possibili:
non tutto ciò che è produzione locale è produzione distrettuale.
Con l’indagine della Banca d’Italia sui distretti industriali, di recente pubblicazione,
il modello entra così nella sua fase adulta. L’obiettivo è dunque quello di percepire al
meglio l’origine e l’ammontare dei costi (per minimizzarli non a livello dell’impresa,
ma di distretto) e l’incidenza dei fattori di scala sull’efficienza complessiva del
distretto.
Il presente capitolo si propone quindi di sintetizzare tale slancio, affrontando prima il
problema delle esternalità interne al distretto [I], poi il fattore moltiplicativo della sua
efficienza complessiva (la civic-ness) [II], per concludere sull’incidenza della leva
del credito sulla produzione distrettuale [III].
9
§Capitolo 2, sez.II, par.1
13
SEZIONE I: Economie di scala e costi di transazione
1 Il distretto industriale in Alfred Marshall
Il nuovo slancio della riflessione sui fattori che possono spiegare le elevate capacità
competitive e di sviluppo di insiemi di imprese di non grandi dimensioni e
territorialmente concentrate non può che partire da una sintesi degli studi di Alfred
Marshall
10
sui distretti industriali inglesi alla fine del XIX secolo.
Mettendo in rilievo i caratteri di efficienza di cui godono le imprese dei distretti da
lui esaminati, ossia i vantaggi in termini di produttività, Marshall sembrò per lungo
tempo contraddire una convinzione radicata tra gli economisti classici: fornendo
un’interpretazione semplicistica della teoria dei rendimenti crescenti, i sedicenti
fautori della concorrenza pura e perfetta argomentavano, infatti, in palese
contraddizione con i loro convincimenti teorici, che solo imprese di grandi
dimensioni potevano appropriarsi in pieno dei vantaggi derivanti dalle economie
esterne (di scala o di sviluppo).
Inserendosi su una linea di pensiero creata da Adam Smith e dalle sue considerazioni
sulla divisione del lavoro, Marshall ipotizza di risolvere tale paradosso mettendo in
relazione alcuni tipi di economie di scala non tanto con la dimensione di singole
organizzazioni aziendali, ma piuttosto con una dimensione complessiva di sistemi di
imprese di taglia differente. Peraltro, tale relazione non è sempre vera, necessitando
di un’opportuna ripartizione del lavoro tra le imprese del sistema.
Il fatto di “non approfondire le implicazioni dei temi richiamati, lasciando
all’immaginazione gli sviluppi
11
” ha per lungo tempo privato delle necessarie
attenzioni tali intuizioni dell’economista inglese: solo con la lettura del corpus delle
10
per una rassegna dei contributi di A.Marshall sui distretti industriali, si veda Bellandi,M. “Il
distretto industriale in Alfred Marshall”, in L’industria, n°3, 1982, nota 2
11
Bellandi,M. art-cit
14
sue opere effettuata da Giacomo Becattini nel corso degli anni Settanta si è potuta
dare così una visione completa del concetto di economia di scala, la personale
dichiarazione di guerra di Marshall ad una visone troppo semplificata del mercato
puro e perfetto e della concorrenza.
In un primo momento, dettaglieremo quindi i differenti aspetti che può assumere
l’organizzazione territoriale di un processo produttivo (1.1); individuato così
l’antenato del distretto industriale italiano, analizzeremo poi i tre tipi di economie di
scala che interessano tale sistema produttivo locale (1.2).
1.1 La concentrazione di industrie specializzate in località particolari
Il mondo di Marshall è molto più concorrenziale di quanto la scienza economica non
arrivasse allora a dimostrare; i distretti industriali inglesi, come quello metallurgico
di Sheffield o quelli tessili del Lancashire, gli offrono così esempi eclatanti di sistemi
di imprese non grandi altamente competitivi e non effimeri. Volendo seguire le
vicende di gruppi di operai specializzati raccoltisi negli stretti confini di una città
manifatturiera (come Sheffield) o di una zona industriale (i distretti del Lancashire)
densamente popolata, Marshall si concentra così sulle interazioni interne, da una
parte, ad un sistema di imprese territorialmente concentrate, e, dall’altra, tra tale
sistema e la popolazione che risiede nel medesimo territorio.
Questo rende possibile un affinamento della nostra unità di ricerca, il sistema
produttivo locale: una precisazione urbanistica (1.1.1) ed un inquadramento
settoriale si impongono (1.1.2).
1.1.1 Prima distinzione: la città manifatturiera e il distretto industriale
“Quasi tutte le regioni industriali si sono accentrate in una o più grandi città. Da
principio, ciascuna di tali grandi città è stata alla testa della tecnica dell’industria
come del commercio e la maggior parte dei suoi abitanti erano stati, in passato,
artigiani; dopo un certo tempo, tuttavia, le fabbriche, richiedendo più spazio di
quanto si potesse avere dove il valore dei terreni era alto, si spostarono verso i
15
sobborghi della città. Nuove fabbriche crebbero in un numero sempre maggiore nelle
regioni industriali vicine e nei paesi minori. Nel frattempo, le città svilupparono le
loro funzioni commerciali
12
”
Nel vocabolario di Marshall, città manifatturiera e distretto industriale non sono
dunque sinonimi: il suo distretto industriale é così una realtà industriale, sociale e
territoriale simile ai distretti industriali attivi nelle campagne “urbanizzate”
(Becattini, 1975) italiane dal secondo Dopoguerra.
La differenza tra città manifatturiera e distretto industriale risiede nel fatto che la
prima gode di un’unità amministrativa abbastanza precisa, ha una rilevante ricchezza
di funzioni terziarie ed è territorialmente molto compatta; nel distretto industriale,
invece, i centri amministrativi sono plurimi, le funzioni terziarie sono ridotte al
minimo e l’insediamento umano ed industriale più diluito nello spazio.
1.1.2 Seconda distinzione: il distretto monosettoriale e il distretto
plurisettoriale
Il primo livello dell’analisi di Marshall mostra un sistema produttivo distrettuale
caratterizzato da un certo numero di imprese specializzate in un certo settore
dell’industria manifatturiera. Tuttavia, non è possibile pensare che tali imprese
producano tutte lo stesso bene: in tale contesto, nessun imprenditore sarebbe disposto
a sostenere i costi di avviamento di una nuova unità di produzione e fatalmente si
ritornerebbe, per la legge dei rendimenti crescenti di scala, all’impresa unica.
L’analisi dei vantaggi dell’agglomerazione di imprese in un tessuto industriale
specializzato impone così vari livelli di comprensione: la fabbricazione di un
prodotto spesso si compone di diversi stadi distinti, a ciascuno dei quali è riservato
uno spazio separato nella fabbrica; se però il volume complessivo della produzione è
molto grande, può convenire destinare piccole fabbriche separate a ciascuna fase.
Così facendo, si sfruttano in modo virtuoso i benefici di una divisione razionale del
lavoro.
12
Marshall,A. “Industria e commercio”, in Masci, G. (acd) “Organizzazione industriale”, Torino,
1934; vedasi anche Becattini, G. “Marshall”, Bologna, Il Mulino, 1981
16
Tab.1 I quattro livelli di analisi dei vantaggi di un distretto industriale marshalliano
Orizzontale
L’impresa distrettuale è più efficiente di quella non distrettuale per una stessa fase del medesimo
processo produttivo
Verticale
L’impresa distrettuale è più efficiente di quella non distrettuale limitatamente all’integrazione di
fasi collegate dello stesso processo produttivo
Laterale
L’impresa distrettuale è più efficiente di un’impresa non distrettuale specializzata nella
produzione di specie diverse di una stessa classe di prodotti
Diagonale
Quando si considerano i rapporti tra impresa produttrice e impresa fornitrice di servizi ausiliari
(manutenzione macchinari, trasporto, servizi commerciali), l’agglomerazione distrettuale di tali
imprese contribuisce ad aumentare l’efficienza della collaborazione rispetto ad imprese non
distrettuali
Fonte: elaborazione deontologica da Bellandi, M. Il distretto industriale in Alfred Marshall, op.cit.
La riflessione sulle economie di scala tipiche dei sistemi di produzione
territorializzati, di cui parleremo nel successivo paragrafo, parte dall’analisi
dell’efficienza dei distretti monosettoriali.
E’ dunque come promemoria che ricordiamo, quindi, come già abbiamo fatto per le
città manifatturiere, le caratteristiche dei distretti industriali plurisettoriali. Per
Marshall, i vantaggi della plurisettorialità rispetto alla monosettorialità si riducono a
due ordini. Il primo fa riferimento all’ottimizzazione dello sfruttamento dell’offerta
di lavoro che viene dalle famiglie operaie residenti sul territorio: “nei distretti
meccanici, in cui è difficile trovare occupazioni leggere per le donne ed i ragazzi, i
salari sono alti ed il costo per l'imprenditore è elevato, mentre i guadagni monetari
medi delle famiglie sono bassi. Lo sviluppo di industrie complementari nelle
vicinanze (tessili o, come succede oggi, imballaggio, confezione ed editoria) sembra
il rimedio più ovvio
13
. Il secondo ordine di vantaggi, facilmente ottimizzato nelle
città manifatturiere, fa invece capo al rischio di shock asimmetrico sulla domanda del
prodotto: “una regione che dipende in gran parte dall’esecizio di una sola industria
è esposta ad una grave depressione qualora venga meno la domanda del suo
prodotto; al contrario, in zone industriali dedite alla produzione di diverse classi di
13
Marshall, A. “Principles of economics”, op-cit
17
prodotti, se una produzione decade per un po’ di tempo, le altre la sosterranno
indirettamente
14
”
1.2 Le economie esterne nei distretti industriali marshalliani
Il concetto di economie di scala (esterne o di sviluppo) spiega in Marshall l’alto
grado di efficienza riscontrato nei distretti industriali inglesi del XIX secolo.
Tuttavia, immergere tale concetto in un sistema industriale in cui le connotazioni
sociali e territoriali assumono un ruolo chiave nella compresnsione della rete di
interdipendenze che legano fra loro le imprese del sistema impone una qualificazione
ulteriore.
Le economie esterne, ove si verifichino certe condizioni tecniche, permettono ad un
sistema di imprese non grandi di godere dei vantaggi della produzione su larga scala:
un sistema integrato di imprese può acquisire tali economie esterne a condizione che
il processo produttivo sia scomponibile e le sue componenti siano opportunamente
divise fra le imprese del sistema stesso (Bellandi, 1982). Il punto di partenza di
un’analisi delle economie esterne che interessano un distretto marshalliano è dunque,
nuovamente, il vantaggio della specializzazione e della razionale divisione del
lavoro.
Semplificando molto le argomentazioni proposte dalle nostre fonti, ridurremo gli
effetti virtuosi che interessano un sistema produttivo distrettuale ad economie esterne
di tipo agglomerativo (1.2.1), economie esterne dovute alle favorevoli condizioni di
intermediazione (1.2.2) e, infine, alla particolare atmosfera che caratterizza i distretti
marshalliani, felicemente riassunta dalla metafora della industrial atmosphere
(1.2.3).
14
Marshall, A. “Principles of economics”, op-cit
18
1.2.1 Le economie esterne di agglomerazione
Con tale prima qualificazione delle economie di scala di un distretto si indicano le
diminuzioni nei costi medi di produzione e commercializzazione di un’impresa,
dipendenti positivamente dal livello a cui è condotta una certa produzione in un
luogo identificato. L’industria gode dei vantaggi della specializzazione e della
divisione razionale del lavoro quando le imprese di un sistema organizzato si
ritrovano agglomerate in particolari località.
Questo è un elemento fondamentale per capire la superiore efficienza di un sistema
industriale distrettuale: tuttavia, per mettere a fuoco i vantaggi di una configurazione
territoriale del sistema urgono alcune precisazioni.
Prima di tutto, sui costi di produzione, che si riducono con la concentrazione
territoriale: tale riduzione è, infatti, causata da aumenti della produttività marginale
dei fattori impiegati nel processo e non da variazioni del loro prezzo. Le tecniche
produttive in un distretto si migliorano anche perché legate ad alcune “irreversibilità”
che stimolano la loro razionalizzazione: “quando un’industria si sceglie una propria
località, è probabile che vi rimanga a lungo..
15
” Successivamente, emerge tuttavia
come limitarsi all’approccio delle economie di agglomerazione non consente di
capire come si forma il nucleo originario di un distretto: è infatti evidente che la
disintegrazione della produzione in imprese diverse possa conservare i vantaggi della
larga scala solo se il sistema mantiene la caratteristica dell’agglomerazione, espressa
in massimo grado dalla grande impresa integrata; ma quando affronta il tema della
nascita di un distretto, Marshall parla di fattori diversi dalla tecnologia e dalla
diminuzione dei costi: anche le condizioni fisiche e climatiche, la disponibilità di
materie prime e di vie di comunicazione hanno un loro peso, soprattutto quando un
distretto industriale nasce.
E’ vero: anche questi elementi citati hanno un evidente influsso agglomerativo
sull’attività industriale.
15
Marshall, A. “Principles of economics”, op-cit