4
in queste situazioni gli operatori vengono accusati di essere intervenuti tardi;
il più delle volte la separazione di un minore dalla propria famiglia è invece
vissuta e propagandata come un sopruso, un abuso di potere avente come
unica possibile conseguenza la disgregazione di una famiglia e la inevitabile
sofferenza del bambino, che viene visto come la vittima delle istituzioni
anziché di un contesto familiare portatore di un forte disagio. Si è pertanto
creato un pregiudizio, un opinione preconcetta o quantomeno assai parziale,
che porta spesso a far assumere atteggiamenti ingiusti e visioni dei fatti
precostituite, spesso distorte e fuorvianti.
E’ proprio il pregiudizio in questa accezione del termine che spesso
porta i mass media e di riflesso l’opinione pubblica all’incapacità di cogliere
un'altra forma di pregiudizio, quello inteso come “danno” che questi minori
“allontanati” quotidianamente subiscono nel loro contesto di vita.
Un altro pregiudizio riguarda nello specifico le Comunità per minori.
Quando si affronta il problema dell’affidamento dei minori a soluzioni esterne
alla famiglia d’origine, ci si imbatte drammaticamente in un’ antinomia antica
ed ideologica fra l’affidamento a famiglie e l’affidamento a Comunità
residenziali. Questa contrapposizione si ripercuote sulle figure adulte che, in
entrambe le condizioni, si prendono cura dei bambini e che vengono investite
in un caso da un assunto aprioristicamente positivo fatto coincidere con tutto
ciò che è familiare, spontaneo, naturale, “affettivo”, e nell’altro da un
pregiudizio di distacco emotivo, proprio perché tecnico e professionale.
5
L’obiettivo di questa tesi è quello di dimostrare come la Comunità
possa ancora oggi rappresentare uno strumento importante nell’ambito del
panorama dei Servizi socio-assistenziali, ritagliandosi uno spazio ed un ruolo
non alternativo ma integrato nell’ambito delle strategie utili al reinserimento
del minore “socialmente svantaggiato” nel contesto sociale, e dunque dei
servizi che di tali strategie sono protagonisti attivi (consultorio familiare,
assistenza domiciliare minori, servizio affidi e adozioni, Tribunale dei
Minorenni, ecc.). In sostanza si vuole dimostrare come la Comunità Alloggio
non debba più rappresentare come in passato una realtà a sé stante
autonoma e “auto-finalizzata” come avveniva per i vecchi Istituti,
spersonalizzanti e unicamente in grado di rappresentare un alternativa alla
dimensione familiare per i minori ospitati, quasi sempre orfani o privi di una
risorsa familiare in grado di prendersene carico. Oggi la Comunità, che come
prevede la legge riproduce una dimensione il più possibile vicina a quella
familiare, ha un senso non come alternativa alla famiglia ma come passaggio
spesso imprescindibile in vista di un rientro del minore nella propria famiglia
o di un suo inserimento in una realtà familiare alternativa (famiglia affidataria
o adottiva).
E’ qui che si colloca la professionalità degli operatori (educatori,
psicologi, assistenti sociali) che in Comunità lavorano costituendo equipe
pluriprofessionali in grado di costituire per il minore ospitato un utile
strumento di rielaborazione delle proprie esperienze passate, un importante
fattore di stimolo e valorizzazione delle proprie risorse personali ed un valida
6
opportunità di conoscenza e valorizzazione di modelli alternativi a quelli fino
a quel momento sperimentati, creando le condizioni per un reinserimento
familiare.
Cercherò infine di dimostrare come l’affettività, l’emotività ed il
“maternage” cui normalmente è associata la dimensione familiare
contrapposto appunto al distacco “professionale” caratterizzante la
Comunità, non siano affatto dimensioni fra loro alternative ed inconciliabili:
anche la Comunità, pur non costituendo indubbiamente una soluzione
definitiva per la risoluzione dei problemi dei minori inseriti ma con il suo
mandato di “accompagnamento” del minore al reinserimento familiare e
sociale, può ed anzi deve a mio avviso integrare nelle proprie prerogative
anche la dimensione affettivo-emotiva, normalmente associata ai ruoli
genitoriali.
Dopo avere inquadrato le Comunità per minori dal punto di vista
normativo inizierò dunque ad analizzare brevemente il percorso storico che
ha segnato il passaggio dai vecchi Istituti, di cui evidenzierò le caratteristiche
salienti, alle moderne Comunità residenziali per minori, di cui cercherò di
descrivere la specificità, differenziandole per tipologia, soffermandomi sul
tipo di domanda cui esse rispondono ed evidenziando le caratteristiche
dell’utenza che attualmente viene accolta presso tali strutture (cap. 1).
Procederò poi evidenziando il significato educativo del quotidiano in
Comunità, soffermandomi sulle regole e sul loro significato, per concludere
con la descrizione del ruolo dell’educatore professionale e della sua
7
specificità nel contesto comunitario (cap.2). Passerò quindi ad una breve
descrizione dell’ex istituto “Fanciullezza” di Lodi (cap. 3), necessaria a
contestualizzare la successiva presentazione della Comunità Arcobaleno,
presso la quale si è concretizzata la mia esperienza professionale. Della
“mia” Comunità illustrerò il progetto, che ho elaborato personalmente insieme
allo staff educativo, e descriverò brevemente la strutturazione della giornata-
tipo, soffermandomi poi sulla specificità del ruolo dell’educatore (cap. 4).
Nell’ultima parte del mio scritto, molto personale, partirò dall’ analisi
della mia esperienza e dalla mia attuale consapevolezza dell’importanza
della dimensione emotiva nell’interpretazione del proprio ruolo educativo, in
un contesto così particolare come è appunto la Comunità per minori.
Prendendo spunto da alcuni momenti di “vita in Comunità” cercherò dunque
di rendere un’immagine poco convenzionale di tale contesto, non più
prevalentemente centrata sugli aspetti della problematicità dell’utenza, della
sofferenza e del disagio e della sua gestione (indubbiamente presenti e da
me non certo ignorati) ma basata su “tinte più vive e luminose” , su
sentimenti più caldi e rassicuranti, che pure in Comunità fanno parte del
quotidiano facendo della stessa un contesto in cui si può “respirare
appartenenza”, in cui attraverso la condivisione, il “fare insieme” ed il
confronto costante, si impara ad attribuire un senso nuovo alla propria storia
e ci si riappropria del proprio valore, della propria individualità ed unicità.
Non dipingerò dunque la Comunità come una soluzione ai problemi
dei tanti bambini con cui in questi anni ho condiviso un tratto di strada, che
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ho visto passare a volte molto rumorosamente, altre volte in punta di piedi,
ognuno lasciando le proprie orme, leggere ma indelebili, nei miei molti ricordi
e nel mio cuore; vorrei soltanto trasmettere a chi mi leggerà, un immagine più
“umana” della Comunità, che distolga per un attimo lo sguardo dalle tinte
fosche del disagio e della sofferenza, per aprirlo ai colori più caldi e vivaci
dell’allegria, della gioia, della voglia di scommettere su un futuro di speranza.
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CAPITOLO 1
LA COMUNITA’ PER MINORI COME SERVIZIO
SOCIO ASSISTENZIALE
1.1 Quadro normativo di riferimento
Le Comunità Alloggio per minori a livello nazionale fanno riferimento
principalmente alla legge 184/83
1
successivamente integrata ed in parte
modifica dalla legge 149/2001
2
.
All’art.1 della suddetta legge si afferma: “Il minore ha diritto a crescere
ed essere educato nell’ambito della propria famiglia” (comma 1) ed ancora:
“le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà
genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore
alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi
di sostegno e di aiuto” (comma 2).
Si sancisce dunque il diritto inalienabile del minore a vivere presso la
propria famiglia, sottolineando come la sola indigenza (difficoltà economica,
lavorativa, ecc.) di uno o entrambi i genitori non possa rappresentare valido
motivo di allontanamento del minore; in tali situazioni il mandato istituzionale
1
Legge 4 maggio 1983, n. 184 “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”
2
Legge 28 marzo 2001, n. 149 “Modifiche alla legge 4 maggio 1983 n. 184, recante “Disciplina
dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile”
10
del Servizio Sociale sarà dunque quello di occuparsi della risoluzione di tali
situazioni di indigenza.
Tuttavia nelle situazioni di “pregiudizio” del minore la legge prevede
l’attuazione di interventi anche contro la volontà dei genitori, proprio perché
l’unico obiettivo è l’interesse del minore. La tutela del minore viene intesa
come attenzione ai bisogni del bambino e salvaguardia del suo benessere
psicofisico, compito che deve essere di ogni operatore del Servizio pubblico.
All’art.2 della legge 184 si precisa infatti: “Il minore temporaneamente
privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e
aiuto disposti ai sensi dell’articolo 1, è affidato ad una famiglia,
preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di
assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive
di cui egli ha bisogno” (comma 1), e prosegue: “Ove non sia possibile
l’affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l’inserimento del
minore in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di
assistenza pubblico o privato, che abbia sede preferibilmente nel luogo
più vicino a quello in cui stabilmente risiede il nucleo familiare di
provenienza. Per i minori di età inferiore a sei anni l’inserimento può
avvenire solo presso una comunità di tipo familiare.” (comma 2).
Si prospetta qui la soluzione dell’affido ad altra famiglia o ad una
Comunità o istituto di assistenza come “soluzione ultima” cui ricorrere nel
caso in cui non sussistano le condizioni necessarie per consentire al minore
11
di permanere presso il proprio nucleo originario. Da ciò si desume dunque il
mandato “temporaneo” che eventualmente assumerà la Comunità (o
l’istituto) nei confronti del minore ospitato, la cui permanenza presso la
struttura socio assistenziale dovrà durare il tempo necessario affinché
vengano affrontati e, possibilmente, risolti i problemi familiari che hanno
determinato l’allontanamento. Inoltre si attribuisce grande importanza alla
territorialità dell’intervento, affinché venga salvaguardato il diritto del minore a
rimanere nel contesto socio-culturale di provenienza mantenendo,
possibilmente, le relazioni di rete precedentemente instaurate, anche in vista
di un suo possibile rientro nel nucleo familiare originario.
Per quanto riguarda la normativa regionale inerente le strutture
residenziali per minori, in Lombardia il principale riferimento è la L.R. n. 1
del 1986, “riorganizzazione e programmazione del servizio socio-
assistenziale della Regione Lombardia”. Essa dopo avere stabilito le
modalità con cui il Servizio Sociale deve occuparsi dell’assistenza ai minori e
agli incapaci nei rapporti con l’autorità giudiziaria (art. 80), parla dei “servizi
residenziali e di comunità” (art. 84), definiti come la soluzione proposta
dall’ente regionale per “far fronte alle esigenze di soggetti in condizioni di
non autosufficienza o di emarginazione che abbisognino di prolungati periodi
di interventi sostitutivi della famiglia”. Tali servizi devono essere “dotati di
idonee strutture residenziali e di operatori forniti della necessaria
professionalità” e realizzare “forme di trattamento finalizzate al recupero e al
reinserimento sociale degli utenti” e l’ utilizzo da parte di essi dei “servizi
12
scolastici, ricreativi, sportivi e culturali del territorio”, favorendo laddove ne
sussistano le condizioni, il “coinvolgimento delle famiglie degli utenti”
prevedendo anche la possibilità di “rientri del minore” presso di esse.
Nell’ambito di tali servizi residenziali, rispetto ai minori la legge
(sempre all’art.84) prevede due tipologie di servizi: gli “istituti educativo-
assistenziali per minori” e le “comunità alloggio”. All’articolo 85 queste ultime
sono così definite:
“Le comunità alloggio accolgono, nell’ ambito di normali strutture
abitative e con la presenza di operatori professionali, gruppi limitati di
persone appartenenti a determinate fasce di età e caratterizzate da
specifiche condizioni di difficoltà di rapporti, di devianza o di
emarginazione. I Piani Regionali socio-assistenziali individuano le
diverse tipologie di comunità alloggio, in rapporto alle categorie di
utenti e alle loro caratteristiche, ne definiscono gli standard strutturali e
organizzativi e indicano le eventuali esigenze di apporti specialistici
degli altri servizi sanitari e sociali”.
Attualmente in Lombardia è ancora vigente il vecchio Piano
Regionale Socio Assistenziale per il triennio 1988/1990
3
, parzialmente
modificato con Deliberazione del consiglio regionale della Lombardia del
19/06/1996
4
. Esso dà la seguente definizione di Comunità Alloggio:
3
tratto da: Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, Mercoledì 16/03/1988, 1° supplemento
straordinario al n.11
4
Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia Venerdì 4/10/1996, 3° supplemento straordinario al
n.40
13
“La comunità alloggio è la soluzione residenziale alla quale si
ricorre quando, per persone in particolari condizioni esistenziali, sia
impraticabile o improponibile l’ambiente familiare di appartenenza o
l’affido familiare, nel caso di minori o di handicappati, e non sia
necessario il ricorso a soluzioni residenziali particolarmente protette. In
positivo, la comunità alloggio è da considerarsi ambiente strutturato di
vita, temporaneo, caratterizzato da un clima di interrelazioni che
permetta la manifestazione di comportamenti differenziati o autonomi,
ma ancorati a motivazioni personali o di gruppo, nonché di progetti
articolati e realistici riguardanti l’organizzazione della vita di ognuno.
In tale ambiente strutturato è necessaria la presenza efficace di
un certo numero di “operatori su cui contare”, che condividano
necessità e bisogni, sia all’interno della comunità che, soprattutto, nei
rapporti col territorio senza per questo voler riproporre modelli culturali
precostituiti”.
La comunità alloggio ha funzionamento permanente nell’arco delle 24
ore, per l’intera settimana e per tutto l’anno e ha un’utenza che può variare
fra le 5 e le 10 unità, costituita da minori e persone in difficoltà, soggette o
meno a provvedimenti civili e amministrativi dell’autorità giudiziaria, persone
in situazioni di devianza e di disadattamento, persone portatrici di handicap.
Le ammissioni, le verifiche e le dimissioni degli utenti vengono decise
dall’unità operativa distrettuale e/o di secondo livello, di intesa con il
14
responsabile della comunità. Soltanto le comunità dotate di strutture
adeguate possono accogliere soggetti portatori di handicap.
La caratteristica principale della comunità consiste nella sua capacità
di costituire, nella quotidianità, un ambiente affettivamente ricco e in grado di
consentire legami duraturi e validi … offrendo quotidianamente agli ospiti
stimoli a maturare in senso psicologico, relazionale e sociale; inoltre essa
deve essere integrata nel contesto sociale, poter fruire di tutti i servizi e gli
spazi organizzati offerti dal territorio e, ove non esistano controindicazioni,
mantenere i rapporti con la famiglia d’origine dei suoi ospiti. Tutto ciò evita
una chiusura della comunità in sé e consente l’interscambio tra la realtà
sociale del quartiere e gli ospiti della comunità stessa.
Ogni comunità inoltre deve avere un responsabile nominato dall’Ente
gestore tra il personale con competenze educative e operante nella
comunità, in possesso dei requisiti tecnici e professionali necessari per
l’assolvimento delle funzioni da attribuire. Egli deve occuparsi delle attività,
della loro programmazione, della loro organizzazione interna, del loro
coordinamento con l’insieme degli altri interventi zonali, della verifica e del
controllo dei programmi attuati … il responsabile partecipa ai processi di
definizione delle strategie e delle modalità di intervento della comunità
alloggio; a lui spettano anche i compiti relativi sia alla gestione del personale
sia agli aspetti amministrativi inerenti la conduzione economica e
patrimoniale della comunità.
15
Infine il Piano suddetto dà anche precise indicazioni circa le
caratteristiche strutturali della comunità alloggio, le caratteristiche di spazi e
impianti, gli standard di personale, ecc. (v. allegati)
Attualmente è in fase di approvazione il nuovo “piano socio sanitario”
della Regione Lombardia per il triennio 2002/2004. Anch’esso è coerente con
le linee guida della legge 149/2001 sull’affido familiare e l’adozione,
soluzioni che sono valorizzate ed auspicate in alternativa all’affido del minore
a strutture residenziali. Parlando dell’affido familiare il nuovo Piano recita:
“Ove non siano disponibili famiglie affidatarie, il minore in difficoltà sarà
inserito in una comunità di tipo familiare. Il ricovero in istituto di assistenza
non è ammesso, afferma la legge 149/2001, per i minori di anni sei, ed in
ogni caso va superato per tutti i minori entro il 31 dicembre 2006”.
Non si hanno ancora precise indicazioni sul futuro delle comunità
alloggio, che dovrebbero comunque (entro il 2006) essere gradualmente
sostituite da “case famiglia” con un più basso numero di utenti (massimo 5) e
il cui asse educativo dovrà ruotare intorno alla presenza stabile di una coppia
residenziale.
16
1.2 Evoluzione del quadro istituzionale
L’evoluzione delle risposte ai bisogni dei minori in difficoltà in Italia, dal
dopoguerra ad oggi, ha visto il graduale passaggio dall’assistenza
all’educazione, ossia l’attenzione si è gradualmente spostata dai bisogni di
carattere assistenziale a quelli inerenti lo sviluppo della personalità del
minore. In tale ottica possiamo leggere anche la trasformazione dei servizi
residenziali deputati alla risposta a tali bisogni. Parallelamente vi è stata
un’evoluzione delle politiche sociali con il passaggio da un ruolo
predominante dello Stato all’assunzione di sempre maggiori competenze da
parte degli enti locali.
Già nella Costituzione (1948) si afferma il dovere da parte dello stato
di garantire al cittadino le condizioni di pieno sviluppo; nel ‘52 l’Inchiesta
parlamentare sulla miseria e sui mezzi per combatterla consente la presa di
coscienza della pessima condizione in cui si trovavano i minori inseriti nei
brefotrofi, auspicando l’avvio di istituzioni a carattere familiare.
Successivamente le Conferenze nazionali sui problemi dell’assistenza
pubblica dell’infanzia e dell’adolescenza (1954, 1955, 1958) fecero emergere
la necessità di un servizio sociale di base che affrontasse i bisogni
dell’infanzia, e indicarono la comunità familiare come auspicabile modello di
riferimento per l’organizzazione degli Istituti. Nacquero così i Focolari,
strutture sperimentali promosse dal Ministero di Grazia e Giustizia, che
ospitavano piccoli gruppi di adolescenti (10-12 anni) con adulti che
assumevano un ruolo educativo, accanto a quello (tradizionale negli istituti)
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di garanti della disciplina. Tuttavia tale esperienza rimase isolata e, col
tempo, la totale dipendenza dei Focolari da un’istituzione statale portò alla
loro istituzionalizzazione. Anche il dibattito sull’assistenza in questi anni si
ferma e non procede di pari passo con le grandi trasformazioni che stavano
avvenendo nel Paese. Solo negli anni ’60, l’enorme incremento del numero
dei minori in istituto (che raggiungono secondo i dati Istat le 249.753 unità nel
’62) portò ad individuare la necessità di riorganizzare i Servizi a livello locale,
ma la legge n. 685 del 1967 (Programma di sviluppo economico per il
quinquennio 1966-1970) di fatto prevede un riordinamento per il settore
sanitario, con l’istituzione dell’Unità Sanitaria Locale, senza che fossero
intraprese iniziative concrete in ambito socio assistenziale.
La legge n. 431 del 1967 sull’ adozione speciale e legittimante
riaffermando la diretta responsabilità della famiglia nella cura dei figli e
ribaltando le vecchie prassi assistenziali che ricorrevano sistematicamente
all’inserimento in istituto dei minori in difficoltà, di fatto portò ad una decisa
riduzione del numero dei minori istituzionalizzati. Di questi anni sono anche
la Conferenza mondiale sull’adozione e l’affidamento familiare (Milano,
1971), ed i movimenti di contestazione che, dal 1968, diedero un forte
impulso alla cultura della deistituzionalizzazione.