7
Caratteristiche della Conservation Biology
La biologia della conservazione è una disciplina di crisi (analoga alla chirurgia) in cui le decisioni e
gli interventi devono essere prese prima che i dati raccolti permettano di raggiungere il massimo
grado possibile di conoscenza perché l’assenza di intervento comporta la “catastrofe” ecologica
(sensu Begon et al. 1989). La protezione della biodiversità è una scienza di sintesi che unisce
discipline accademiche come biologia (principalmente ecologia e biogeografia), antropologia,
sociologia, economia e filosofia alla pratica della gestione forestale e della gestione di caccia e
pesca. La sua azione si concretizza nella produzione di ricerca scientifica e nel tradurre le
conoscenze scientifiche in educazione dell’opinione pubblica ed in azione politica (intesa come
mezzo per il raggiungimento dei fini individuali e collettivi).
Risposta “scientifica” alla crisi della biodiversità
Nel 1978 l’ecologo Michael Soulé (University of Michigan) organizzò la “First International
Conference on Conservation Biology” in cui si iniziarono a definire le caratteristiche della
Conservation Biology. Nel 1985, Soulé con i colleghi Paul Ehrlich (Stanford University) e Jared
Diamond (UCLA - Università di Los Angeles) fondarono la Society for Conservation Biology che
produsse la rivista scientifica Conservation Biology (Primack 1993). Oggi, i corsi tenuti in
moltissime università e le riviste professionali (con revisione critica e impact factor) a diffusione
mondiale ed i testi specialistici rappresentano la risposta scientifica e accademica alla crisi della
biodiversità. Queste riviste, elencate in ordine alfabetico, sono: 1) Animal Conservation, 2)
Biodiversity Conservation, 3) Biological Conservation, 4) Conservation Biology, 5) Environmental
Conservation. Va inoltre ricordata Conservation Ecology consultabile su internet presso il sito
http://www.consecol.org. Tra i numerosissimi libri pubblicati si possono citare a titolo
esemplificativo “Principles of conservation Biology. 2° Ed.” di G. M. Meffe et al. (1997; Sinauer
Ass. Inc. Publishers; Sunderland Mass.), “Essential of Conservation Bilogy” di R. B. Primack
(1993; Sinauer Ass. Inc. Publishers; Sunderland Mass.) e “Conservation Biology: The Science of
Scarcity and Diversity” di M. E. Soulè (1986; Sinauer Ass. Inc. Publishers; Sunderland Mass.). Il
primo è un testo professianale ed universitario di livello avanzato mentre gli altri sono testi per
studenti (Meffe & Carroll 1997a; b).
8
Risposta “operativa” alla crisi della biodiversità
In generale, qualsiasi ricerca scientifica ha inevitabili ricadute applicative dirette o indirette per cui,
come affermato da Meffe & Carroll (1997b) “la dicotomia tra scienza pura e applicata è falsa e
dannosa”. Poiché la Conservation Biology è nata negli anni ’80 (Meffe & Carroll 1997a), i tempi
per un bilancio storico sono estremamente ridotti. Ciò che si può osservare è che il processo di
estinzione di massa non si è certo arrestato, anzi, la tendenza appare in crescita (per es. Myers
1997), ma una valutazione dell’efficacia della protezione della biodiversità va fatta in relazione a
quanto questo processo è stato eventualmente contrastato.
2 - LA BIODIVERSITA’
2.1 - Definizione
La biodiversità è la varietà degli organismi considerata a tutti i livelli di organizzazione, da quella
genetica, a quella delle popolazioni e delle specie, sino ai livelli tassonomici più elevati, inoltre,
questa parola indica la varietà degli habitat, degli ecosistemi e dei processi che in essi si svolgono
(Convention on Biological Diversity 1992; De Fontaubert et al. 1996; Downes 1996; Meffe et al.
1997a; Wilson 1997). Questo termine è stato definito in modo formale durante il National Forum on
BioDiversity, tenutosi a Washington D. C. nel settembre 1986 (Wilson 1997). Promotori
dell’iniziativa furono l’Accademia Nazionale delle Scienze degli USA e la Smithsonian Institution.
Gli atti di questo congresso furono pubblicati nel 1988 con il titolo “BioDiversity” e, a partire da
allora, verranno molto spesso citati come “Biodiversity” (Wilson 1997). In seguito, con la
Convenzione sulla Diversità Biologica sottoscritta da 145 stati intervenuti all’Earth Summit
(Summit Mondiale sull’Ambiente) di Rio de Janeiro dell’estate 1992 (noto anche come “Summit di
Rio”), la biodiversità è diventata un argomento centrale per la scienza e la politica di tutto il mondo
(Wilson 1997).
9
2.2 - Struttura e funzione della biodiversità
La biodiversità è strutturata in livelli individuabili in base ai componenti considerati, che si possono
classificare come componenti costitutivi o come componenti funzionali. I componenti costitutivi,
secondo Noss (1997), sono organizzati in base alla sistematica (dalle sottospecie ai phyla ed ai regni
o ai dominii
1
), all’ecologia (dai geni, alle popolazioni
2
ed agli ecosistemi), al tipo di scala spaziale
(dai microhabitat ai biomi) ed al tipo di scala temporale (dai nanosecondi alle ere geologiche).
Sempre secondo Noss, i componenti funzionali comprendono: i processi astronomici (per es.
interazioni gravitazionali e flussi di energia solare), i processi geologici e climatici, i processi
ecologici (flussi energetici e cicli degli elementi e dei composti quali C, N e H
2
O) ed i processi
evolutivi (dalla mutazione puntiforme alla macro e megaevoluzione). I componenti costitutivi e
quelli funzionali danno origine alla biodiversità e la mantengono in continuo cambiamento; in certi
casi tali cambiamenti possono costituire una minaccia per la biodiversità stessa, come avviene nel
caso delle attività umane. Data l’enorme complessità dei sistemi ecologici, i controlli e le
misurazioni degli effetti dei cambiamenti sono possibili solo ricorrendo ad una gamma più o meno
ristretta di indicatori. Un esempio di indicatori biologici sono le “specie indicatrici” definite in base
alla sensibilità agli effetti delle attività umane e, spesso, per i ruoli cruciali che svolgono negli
ecosistemi. Ovviamente non è realistico immaginare che una specie possa rappresentare in modo
completo una intera comunità. Tuttavia, poiché, come si è visto, i diversi componenti della
biodiversità si possono organizzare gerarchicamente, analogamente, gli indicatori considerati
saranno tanto più efficaci quanto più rispecchieranno correttamente tale organizzazione gerarchica.
L’individuazione degli indicatori della biodiversità può seguire un processo strutturato a “scatole
cinesi” che permetta di scegliere il livello più adatto agli scopi del tipo di ricerca e/o del tipo di
gestione prescelto. Un esempio dell’organizzazione gerarchica dei componenti della biodiversità in
relazione a 4 diverse “scale” (Pulliam & Dunning 1997) ecologiche è presentato di seguito (dati,
informazioni e terminologia sono tratti da Noss 1997 e da Orians 1997).
Variabilità genetica
Composizione: tutte le diverse varianti alleliche; a questo livello è particolarmente importante
determinare la presenza di alleli rari.
Struttura: i tipi e le frequenze delle varianti alleliche costituiscono l’eterozigosità e determinano o
influenzano il polimorfismo fenotipico.
Funzione: in base al tasso di scambio genetico (rapporto endogamia/esogamia) si determina il grado
di inincrocio e i gli eventuali sintomi di depressione da inincrocio.
10
La variabilità genetica si può considerare la base di ogni tipo di variabilità biologica.
Variabilità tra popolazioni e tra specie
Composizione: abbondanza assoluta e relativa delle specie o delle popolazioni, la loro densità e la
loro importanza per altre specie.
Struttura: rapporto tra sessi, rapporto tra classi di età, rapporti di particolare interesse ecologico con
gli altri componenti della comunità, tipo di distribuzione.
Funzione: tendenze demografiche (mortalità, sopravvivenza, tassi di accrescimento, di
reclutamento, di fertilità e di fecondità), stime del rischio di estinzione.
A proposito della variabilità tra specie, va sottolineato che la ricchezza specifica, cioè il numero di
specie in una determinata area, e la diversità specifica, misurabile tramite indici, sono parametri di
importanza fondamentale. L’indice di diversità specifica più usato è quello di Shannon-Wiener (H’)
che considera l’abbondanza (o la biomassa) relativa di una specie in rapporto alle altre in base alla
formula
H’ = - ∑ p
i
ln(p
i
)
Gli indici di diversità specifica e la ricchezza specifica sono entrambi utilizzati in ecologia e in
biologia della conservazione perché entrambi forniscono informazioni importantissime e
complementari. Per questo, l’ideale sarebbe poterli utilizzare assieme, ma in realtà, accurate stime
delle densità di popolazione riferite a scale territoriali grandi, sono raramente disponibili. Le liste di
specie sono spesso il solo tipo di informazione disponibile per alcune aree; anzi, in moltissimi casi
tali liste devono ancora essere compilate. In ogni caso, i dati sulla ricchezza specifica consentono di
individuare le specie di maggior interesse per la biologia della conservazione; i modelli di analisi
della ricchezza specifica sono tra le priorità più immediate di questa disciplina ed orientano la
maggior parte delle ricerche sulla biodiversità.
Variabilità tra comunità ed ecositemi
Composizione: tipi di specie e di “guilds” (gilde o corporazioni), loro abbondanza, frequenza,
diversificazione ed “eveness” (equitabilità o equiripartizione) nei diversi habitat; tasso di frequenza
e abbondanza di specie esotiche, proporzione di frequenza e abbondanza di specie endemiche e di
specie in pericolo di estinzione.
Struttura: modelli di distribuzione delle specie e delle “patches” (in questo caso traducibile come
“appezzamenti di habitat”).
Funzione: cicli dei nutrienti, dell’acqua, intensità e frequenza degli eventi di “disturbo”, grado di
stagionalità e livello di disturbo antropico.
11
Variabilità territoriale su ampia scala
Composizione: insieme delle comunità identificabili e loro estensione spaziale.
Struttura: distribuzione e grado di separazione delle diverse comunità nel territorio.
Funzione: frequenza e grado di interscambio dei vari cicli tra i diversi ecosistemi.
Note
1) I dominii sono categorie sistematiche individuate da Doolittle (1999) che rappresentano le principali divisioni
evolutive tra Archaea, Bacteria ed Eukariya.
2) Va ricordato che le differenze culturali rilevabili tra le diverse popolazioni di varie specie vanno considerate come
componenti non trascurabili della biodiversità (per es. Whiten et al. 1999; De Waal 1999).
12
2.3 - La specie nella protezione della biodiversità
I confini di habitat, biomi ed ecosistemi sono artificiali e validi solo in relazione all’accordo (spesso
molto labile) esistente tra gli studiosi. In effetti, sul nostro pianeta esiste un solo grande ecosistema:
la biosfera (Begon et al. 1989; Ricklefs 1993). Al suo interno non esistono limiti netti che separino
le popolazioni, le comunità e le altre suddivisioni create dagli ecologi per necessità di ricerca. In
certi casi (per esempio in alcuni organismi coloniali) è persino difficile capire se un’entità vivente è
costituita da un unico individuo o da un aggregato di individui diversi (Begon et al. 1989; Ricklefs
1993). Per questo, soprattutto in riferimento ad grandi scale spaziali o temporali, la forma di
biodiversità più facilmente e rapidamente individuabile è la ricchezza di specie - cioé il numero di
specie trovate in una determinata porzione di spazio - (Primack 1993; Orians 1997; Myers et al.
2000). Questo non significa che la specie sia un concetto privo di problemi. Darwin stesso, in un
passo di “L’origine delle specie” (1859), si dichiara nominalista. In realtà, solo considerando le
rassegne svolte sull’argomento da Minelli (1993) e da Meffe & Carroll (1997c), si possono censire
12 differenti definizioni di specie. Una di esse, la definizione “biologica” (Meffe & Carroll 1997c) è
particolarmente citata e, a partire dallo studio di Mayr et al. (1953), ha prodotto ben 9 varianti
(Zunino & Zullini 1995). Come si vede, anche questo argomento è estremamente complesso, ma,
per gli scopi della presente ricerca è sufficiente ricordare che la specie è uno strumento di lavoro e
di ricerca ancora indispensabile e insostituibile. Soprattutto, va ribadito che in una disciplina di crisi
(e quindi di urgenza) come la protezione della biodiversità, i dati sulla ricchezza specifica sono
comunque i più facili e rapidi da ottenere e, solitamente, quelli che forniscono più informazione in
relazione agli investimenti. Occorre infine ricordare che il fenomeno delle differenze spaziale e
temporali nella distribuzione della ricchezza specifica nella biosfera è uno dei problemi centrali
dell’ecologia evoluzionistica e della biogeografia (Gould 1984; Meffe et al. 1997b).
13
2.4 - Distribuzione tassonomica della ricchezza specifica
Sono state descritte ed è stato dato un nome scientifico a circa 1,5 milioni di specie viventi e 300
mila specie fossili (Orians 1997). Le stime sul reale numero di specie attualmente viventi sono
estremamente variabili perché basate su evidenze indirette e incomplete. Tali stime variano dai 10
ai 150 milioni di specie (May 1992; Primack 1993; Erwin 1997; Meffe & Carroll 1997c; Myers
1997), il che significa che non c’è nemmeno accordo sull’ordine di grandezza da considerare
(tabella 2.4.1).Un Universo biologico composto esclusivamente da virus, procarioti e protisti è
praticamente ignoto e i soli studi disponibili riguardano le pochissime forme che causano patologie
nella nostra specie o nelle specie importanti economicamente (Orians). Le “specie” descritte di
batteri sono circa 4.000 ma sono stati trovati campioni che contengono 4.000 “specie” batteriche in
un solo grammo di suolo o di sedimento marino (Primack). Anche in moltissimi gruppi di eucarioti
gli studi disponibili sono estremamente scarsi. La descrizione degli organismi mesopsammici dei
fondali oceanici è iniziata negli anni ’80, e praticamente nulla è noto della sua diversificazione. Il
regno dei funghi comprende circa 70 mila specie descritte, mentre si stima che ne esitano oltre 1
milione di specie. Per quanto riguarda i nematodi, si è scoperto che pochi centimetri cubi di terreno
possono contenere oltre 200 specie diverse, così si immagina che a fronte di 20 mila specie descritte
ne esistano in realtà almeno 1 milione (Orians); nelle comunità tropicali il numero di specie di
nematodi può essere incalcolabile ed è possibile che questo gruppo contenga più specie di quante ne
esistano nella classe degli insetti (Gould 1984). Si pensa che rapporti simili tra numero di specie
conosciute e numero di specie totali esistano per gli artropodi, in particolare per il vastissimo
mondo degli abitanti delle volte arboree delle foreste tropicali, un mondo che solo negli ultimi anni
si iniziato ad esplorare in piccolissima parte. Come si vede, l’intero pianeta rimane biologicamente
inesplorato, soprattutto se si considera che la grande maggioranza delle specie note sono state solo
nominate e descritte morfologicamente: praticamente nulla si sa della loro storia evolutiva o della
loro ecologia (Orians). Attualmente, il tasso di descrizione di nuove specie è maggiore che in ogni
altra epoca, tuttavia, rimane completamente inadeguato se si vuole ottenere un inventario
“ragionevole” prima della scomparsa della maggior parte delle specie.
14
Tab. 2.4.1 - distribuzione tassonomica della ricchezza specifica (modificata da Orians 1997)
__________________________________________________________________________________________
TAXON n° specie descritte n° specie stimate % descritta
__________________________________________________________________________________________
1 Protisti 100.000 250.000 40
2 Eumiceti 80.000 1.500.000 5,3
3 Briofite 14.000 30.000 46,7
4 Tracheofite 250.000 500.000 50
5 Poriferi 5.000
6 Cnidari 10.000
7 Ctenofori 100
8 Platelminti 25.000
9 Nemertini 900
10 Gastrotrichi 500
11 Kinorinchi 100
12 Priapulidi 16
13 Endoprocti 150
14 Nematodi 20.000 1.000.000
a
2
15 Rotiferi 1.800
16 Anellidi 75.000
17 Artropodi 1.250.000 20.000.000
a
18 Molluschi 100.000 200.000
19 Sipunculidi 250
20 Echiuridi 150
21 Pogonofori 145
22 Ectoprocti 5.000
23 Foronidei 70
24 Brachiopodi 350
b
25 Echinodermi 7.000
26 Chetognati 100
27 Emicordati 100
28 Urocordati 1.200
29 Cordati 40.000 50.000 80
a
, stime minime (Gould S. J. 1989. L’ordinamento della vita. In Luria S. E., Gould S. J. & Singer S, Una visione della
vita. Zanichelli, Bologna, pp. 625; Orians 1997; Meffe e Carrol 1997c).
b,
sono state descritte 26.000 specie fossili di Brachiopodi
Virus e Procarioti è possibile che rappresentino la maggior parte della biodiversità e, persino della biomassa del pianeta
(May 1992; Primack 1993; Gould 1997) ma, in questa tabella, non sono considerati perché è impossibile suddividerli in
unità specifiche (Orians 1997).
_____________________________________________________________________________
15
2.5 - Distribuzione spaziale della ricchezza specifica
La distribuzione degli organismi nella biosfera non è uniforme. Alcuni importanti principi che
regolano tale distribuzione sono conosciuti, altri rimangono ignoti, anche a causa della scarsità di
informazioni su “chi vive dove”. In generale sono stati identificati e studiati di più gli organismi
delle regioni temperate dove la maggior parte dei biologi vive e lavora. In confronto, le regioni
tropicali in cui si concentra la maggior parte delle specie del pianeta, sono pochissimo conosciute
dal punto di vista biologico.
In ecologia e in biogeografia è spesso risultato utile suddividere la ricchezza specifica in 4
componenti:
1) ricchezza puntiforme, riferita al numero di specie presenti in un luogo puntiforme;
2) ricchezza α , riferita al numero di specie presenti in una piccola area omogenea;
3) ricchezza β , riferita alle differenze di composizione tra comunità di habitat diversi;
4) ricchezza γ , riferita alle differenze di composizione tra comunità di grandi porzioni di territorio
(Orians 1997).
Soprattutto per quanto riguarda la ricchezza β , i valori indicano che il numero complessivo di specie
campionate varia rapidamente in aumento o in diminuzione in relazione all’aggiunta di nuove aree
campionate lungo alcuni gradienti ambientali. Sempre considerando questa scala e le variazioni
lungo i gradienti ambientali si può determinare il tasso di turnover (ricambio) specifico.
I modelli di distribuzione spaziale della ricchezza specifica sono statisticamente ben lontani dalla
casualità; essi, infatti, sono strettamente correlati a numerose variabili fisiche e ambientali. Di
seguito si esaminano alcune delle caratteristiche più evidenti.
1) Il numero di specie nelle alte categorie tassonomiche tende a crescere procedendo dalle latitudini
elevate verso l'equatore, sia sulle terre emerse sia in ambiente marino (gradiente latitudinale).
Questo andamento è stato ben documentato, ad esempio, nei molluschi Bivalvi (Stehli et al. 1969;
Orians), nei tunicati (Orians), negli uccelli, nei mammiferi e nelle specie arboree (per es. Briggs
1996; Orians). Esistono comunque eccezioni a questo principio: ad esempio le alghe marine, le
conifere, le api ed i pinguini raggiungono i massimi livelli di ricchezza specifica alle latitudini
intermedie.
2) La ricchezza specifica appare positivamente correlata alla complessità strutturale dell’habitat. Il
massimo di complessità strutturale è rappresentato dalle piante negli ambienti terrestri e dalle
barriere coralline negli ambienti marini. Queste complessità strutturali permettono la creazione di
microhabitat e di microclimi, e una diversificazione fine delle risorse e dei metodi di sfruttarle.
3) In relazione alla produzione primaria, la ricchezza specifica mostra il “paradosso
dell’arricchimento” (Rosenzweig 1971) per cui è bassa quando la produzione primaria è bassa,
16
raggiunge un massimo quando la produzione primaria è intermedia e decresce quando la produzione
primaria è molto alta (Huston 1994). La produzione primaria delle terre emerse è determinata dalla
temperatura, dalle precipitazioni e dalla fertilità del suolo, mentre nei mari è massima presso le
coste dove risalgono le correnti di profondità e dove la profondità media è minore.
4) In molti gruppi marini la maggiore ricchezza specifica si trova a profondità comprese tra 2000 e
4000 m. Importante eccezione a questa tendenza è rappresentata dai coralli che mostrano picchi di
ricchezza specifica tra 15 e 30 m., cioè entro la zona fotica in cui possono vivere le alghe
fotosintetiche con cui sono in simbiosi.
5) Le isole sono relativamente più povere di specie rispetto ad aree continentali di dimensioni
comparabili. In particolare, la ricchezza specifica appare positivamente correlata alla dimensione ed
alla diversificazione topografica dell’isola e inversamente correlata alla sua distanza dalle masse
continentali.
7) In alcune regioni si trova un elevato tasso di endemismi causati da radiazioni evolutive
verificatesi in aree limitate ed isolate. Succede spesso che, dove si trova un elevato numero di
endemismi, la ricchezza specifica in assoluto non sia alta. Considerando i luoghi in cui si ha elevata
concentrazione di endemismi si possono individuare delle zone particolari definite “hot spots” in
cui si stima sia concentrato il 20% della ricchezza specifica planetaria in una porzione
comprendente solo il 5% del territorio (Orians). Negli oceani il centro di massima concentrazoine di
ricchezza specifica è la regione di confine tra oceano indiano e oceano pacifico.
8) Le piante, grazie soprattutto alla poliploidia, possono speciare molto più facilmente dei vertebrati
in aree ristrette; per questo, zone ricche di endemismi per le prime appaiono relativamente povere
per i secondi. All’interno dei vertebrati di terraferma, sembra invece che ci sia una buona
correlazione tra la ricchezza di endemismi dei vari gruppi di amnioti, probabilmente perché tutti
richiedono aree relativamente ampie per potere dare luogo ai processi di speciazione. Riguardo alle
le specie arboree, le foreste tropicali, che hanno la massima α ricchezza, possono comprendere un
numero di specie per km
2
10 volte superiore rispetto alle foreste temperate, nonostante il numero di
alberi rimanga all’incirca costante. Si osserva quindi che dove è maggiore la ricchezza specifica
risulta minore la densità delle popolazioni.
17
2.6 - Ipotesi interpretative delle variazioni spaziali nella ricchezza di specie
Sulle cause determinanti le variazioni spaziali nella ricchezza specifica sono state avanzate
numerose ipotesi, delle quali solo alcune sono mutualmente esclusive. Di seguito, facendo
riferimento allo studio di Orians (1997) si analizzano sinteticamente alcune delle ipotesi più
accreditate.
1) Produttività. Il numero di specie è maggiore là dove la produzione primaria è costantemente alta.
Nelle foreste neotropicali si è rilevata una forte correlazione tra numero di specie di piante e
precipitazioni annuali, a loro volta fortemente correlate alla produzione primaria. Va tuttavia
osservato che molti ecosistemi dalla altissima produttività come le foci dei fiumi o le pianure erbose
risultino relativamente povere di specie, e che sono state trovate evidenze di correlazione inversa tra
fertilità del suolo e numero di specie di piante.
2) Complessità strutturale. Questa variabile si può considerare determinata dalla struttura delle
comunità arboree viventi in una determinata area. Effettivamente in molti taxa il numero di specie
appare correlato alla complessità della struttura vegetazionale. Ci sono comunque evidenze che
indicano che le differenze nella ricchezza specifica di certi taxa desertici siano determinate dalla
passata storia evolutiva dei singoli ecosistemi più che dalle attuali differenze tra le coperture
vegetazionali.
3) Pressione di predazione e competizione. In certi casi la competizione può favorire l’aumento del
numero di specie, tramite meccanismi di segregazione fine degli habitat. In altri termini si ipotizza
che la competizione ecologica causi la continua frammentazione delle nicchie ecologiche. Sono
peraltro documentati casi contrari, in cui la presenza di una specie impedisce l’insediamento di una
specie competitrice (esclusione competitiva). Analogamente, l’effetto della predazione può causare
un aumento della ricchezza specifica, eliminando una preda competitivamente dominante sulle
altre, ma è altrettanto possibile che una predazione particolarmente efficace causi la scomparsa di
una specie vulnerabile. Alcuni ricercatori ipotizzano che, sia nella competizione che nella
predazione, la prevalenza di uno dei due possibili effetti dipenda dalle condizioni complessive del
contesto ambientale.
4) Stabilità nel tempo. Questa ipotesi ha attratto a lungo biogeografi ed ecologi perché sembrava
che gli ecositemi più ricchi, essendo in latitudini intertropicali, fossero stati storicamente molto più
stabili di quelli delle regioni temperate che sono state ripetutamente “sconvolti” dalle glaciazioni
pleistoceniche. Attualmente, si sono accumulate numerose evidenze che indicano come le foreste
tropicali di Africa e Sud America siano state soggette a fasi alterne di espansione e contrazione.
Durante le fasi di contrazione si sarebbero prodotte delle isole forestali al cui interno sarebbe stata
18
favorita la diversificazione di endemismi che durante le fasi di espansione avrebbero fornito linee
evolutive aggiuntive (Ricklefs 1993). In generale si è ormai affermata una concezione “revisionista”
delle foreste tropicali, secondo la quale questo bioma è in realtà estremamente dinamico (Hartshorn
1997).
5) Disturbo intermedio. Si pensa che in ecosistemi ad elevata produttività ed elevata stabilità il
fenomeno dell’esclusione competitiva determini una diminuzione del numero di specie. Le stesse
conseguenze si produrrebbero in caso di disturbo ambientale molto elevato che favorirebbe solo le
poche specie resistenti. Si ritiene pertanto che il massimo della ricchezza specifica si abbia quando
il livello di disturbo è tale da impedire l’esclusione competitiva ma non così alto da eliminare le
specie più sensibili. Sembra che in certi casi, i dati sulle ricchezze specifiche delle barriere
coralline, delle comunità marine bentoniche e degli alberi nelle foreste siano consistenti con questa
ipotesi.
Rimangono ancora prive di risposte definitive alcune domande essenziali sulla distribuzione della
ricchezza specifica:
La guerra chimica tra piante ed erbivori è un limite o un incentivo alla ricchezza specifica?
E’ possibile che le complesse interazioni tra angiosperme ed impollinatori che fino ad oggi hanno
incrementato la ricchezza specifica abbiano ormai raggiunto il culmine del loro potenziale?
Più in generale: esistono limiti teorici al numero di specie? Ovvero: esistono limiti di saturazione
per un determinato ecosistema o la frammentazione delle nicchie ecologiche può procedere
indefinitamente?
La ricerca delle risposte a quest’ultima domanda ha prodotto due scuole di pensiero: la teoria
dell’equilibrio e la teoria storicista.
La teoria dell’equilibrio, secondo Ricklefs, si rifà al concetto di limite alla similarità ecologica
studiato da Hutchinson (1959) e sostiene che la diversificazione evolutiva è prevedibile sulla base di
insiemi adeguati di misure riferite a determinati parametri ambientali fisici e biologici (Gould
1984). Il numero di specie viventi in una determinata zona sarebbe pertanto sostanzialmente
svincolato dalla storia evolutiva pregressa. L’ideale seguito è quello di una scienza predittiva, “una
sorta di fisica ecologica” (Gould) in cui la diversificazione evolutiva è considerata una risposta a
condizioni ambientali misurabili esistenti in un preciso momento. Tali condizioni ambientali vanno
considerate indipendenti dalle condizioni pregresse (Gould). Ne consegue che in ambienti con
caratteristiche simili si trovino comunità simili. A questi principi si ispirarono gli importanti studi di
MacArthur & Wilson (1967) sulla biogeogafia delle isole. Le ricerche di questi autori hanno fornito
nuovi e potenti stimoli per l’analisi dei modelli di distribuzione e di evoluzione della biodiversità,
19
anche al di fuori degli ambienti insulari. In particolare, gli sviluppi della teoria dell’equilibrio hanno
riacceso il dibattito sul gradiente latitudinale della diversificazione (Gould).
La teoria storicista (Gould), enunciata originariamente da Wallace (1878), considera ogni
ecosistema come il prodotto unico ed irripetibile della propria storia. Benché possano esserci limiti
allo sfruttamento di ogni singola risorsa (principio di esclusione di Gause), l’adattamento reciproco
tra gli organismi porterebbe ad una suddivisione delle nicchie ecologiche sempre più fine. Tale
suddivisione potrebbe procedere anche indefinitamente. Ci sarebbe sempre la possibilità per
l’evoluzione di una nuova specie che viva in modo leggermente diverso dalle altre (Gould). In
questo contesto, il numero di specie in una comunità è una funzione complessa della storia della
comunità stessa e delle limitazioni anatomiche e fisiologiche dei singoli organismi. Per queste
ragioni, nella sua versione estrema, l’approccio storicista ritiene impossibile la formulazione di
teorie predittive in ecologia e considera ogni comunità un prodotto unico ed irripetibile della sua
storia.
Come è stato osservato da Gould, la realtà è troppo complessa per essere compatibile con le
posizioni estreme; nessuno scienziato ragionevole accetta un solo punto di vista come quello
“giusto”. Su scala planetaria, le variabili in gioco sono innumerevoli, spesso sono interdipendenti e
al di fuori delle possibilità di controllo dello sperimentatore (critica riduzionista). D’altra parte,
riducendo la scala rimane il problema che ogni ambiente non è realmente isolato e quindi è
influenzato in modo non trascurabile dal contesto in cui è inserito (replica olista). Quando manca la
possibilità di misurare l’effetto di ogni variabile separata (effetto “per se”) al ricercatore non resta
che cercare di intuire la presenza o l’assenza di un determinato effetto, senza poterne quantificare il
peso. Risulta pertanto arduo capire se, in generale, l’effetto della storia prevale sull’interazione
dinamica della distribuzione delle risorse. Probabilmente, in situazioni differenti, entrambe le teorie
possono essere utili. Quello che sembra chiaro è che ogni ricercatore sarà più o meno incline a
basarsi sull’una o sull’altra (Gould).
20
2.7 - Distribuzione temporale della ricchezza specifica
Gli organismi procarioti si pensa che popolino la terra da almeno 3,8 miliardi di anni; gli eucarioti
da circa 2 miliardi di anni. Anche se pochissimo si sa relativamente a queste epoche, si ritiene che
fino al Cambriano (570-505 milioni di anni fa) la ricchezza specifica dovesse essere relativamente
bassa. Durante il cambriano si ebbe la prima esplosione di ricchezza specifica che portò alla
massima diversificazione assoluta a livello di piani organizzativi fondamentali e di phyla (Gould
1989). Si ritiene (per es. Orians 1997) che, a partire dall’esplosione del cambriano, la ricchezza
specifica del pianeta sia alternativamente aumentata o diminuita in relazione ai 5 eventi di estinzioni
di massa e alle successive “riprese” che si sono succedute (si veda la tabella 2.7.1). Secondo alcune,
stime il 99% delle specie vissute sul pianeta si è estinto sia durante gli eventi di estinzioni di massa
sia durante gli altri periodi di “normale” estinzione di sottofondo. Si valuta che a seguito di un
evento di estinzione di massa siano necessari da 1 a 10 milioni di anni perché la ricchezza specifica
si ristabilisca ai livelli precedenti l’evento catastrofico. Complessivamente, gli eventi di estinzione
di massa, hanno interessato poco più del 10% della storia della vita sulla terra e, nonostante la loro
azione devastante, nel corso della storia la ricchezza specifica appare indirizzata verso l’aumento. Si
ipotizza che i motivi di tale incremento siano collegati alla frammentazione delle masse
continentali; alla competizione tra organismi che fornirebbe la spinta evolutiva verso lo
sfruttamento di nicchie ecologiche sempre nuove e alle complesse interazioni che si sono stabilite
tra piante e animali dopo che sulle terre emerse sono comparse le angiosperme. In altre parole, a
partire dalla frammentazione della Pangea, le masse continentali hanno costituito ognuna una sorta
di provincia di diversificazione evolutiva autonoma (Gould; Orians). A questo si sarebbe è aggiunto
l’effetto promotore di diversificazione che cararatterizza le comunità già diversificate: secondo
questa teoria, la presenza di molte specie diverse incrementa sia le possibilità di competizione sia di
mutualismo portando alla diversificazione delle nicchie. Quindi, si può dire che l’interazione biotica
è contemporaneamente causa e conseguenza dell’incremento della biodiversità (Riclefs; Orians).