8
indaga la crescita e il cambiamento dei due personaggi. La ricerca
della casa della nonna diventa così solo un pretesto per poter
“spiare” l’evoluzione del rapporto di questa strana coppia. In Alice
nelle città la storia si costruisce con il tempo, il caso è il vero
coordinatore delle loro vicende e i personaggi sono quasi costretti
ad adattarvisi. Nasce un film che si lascia il tempo di guardarsi
attorno creando diversi piani di lettura: dallo smarrimento e
l’angoscia dell’adulto alla semplicità e sicurezza dell’infanzia e
dalla ricerca d’identità dell’uomo moderno alla profonda riflessione
sui condizionamenti della società contemporanea.
“Au niveau du contenu manifeste, le film est centré sur l’errance, le
dèracinement, l’angoisse de l’age adulte et ses rapports avec
l’enfance. Considérée exclusivement en elle-meme, cette dimension
du récit fournit déjà matière à une profonde réflexion. Mais Alice
dans les villes révèle aussi à la lecture un contenu latent
symbolique, en rapport dialectique avec l’autre registre, qui touche
aux fondements meme de l’analyse de la société contemporaine. Le
second niveau de lecture met en évidence la difficulté structurelle
d’exister aujourd’hui quand les valeurs normatives au
traditionnelles se sont progressivement évanonies”.
1
Ciò che consente a Wenders questo ampio raggio d’azione è la
grande libertà che si concede durante le riprese. Se infatti il film
nella parte americana segue la sceneggiatura, questa nella parte
europea è stravolta dall’improvvisazione che permette ai due attori
di sviluppare un affetto sincero, sotto l’occhio vigile del regista. Da
1
J. F. BOULIN, Alice dans les villes à la recherche d’un moi perdu, in Etudes
Cinématographiques, n.156/164, 1989/1990, p.55
9
qui nasce la spontaneità che si rivela nella seconda parte dell’opera
e che fa dire a Wenders: “Rudiger e Yella si sono veramente
amati”. Egli si prende così una piccola rivincita sulla disastrosa
esperienza de La lettera scarlatta. In quel caso la sua scarsa
conoscenza delle leggi del mercato cinematografico, lo avevano
costretto ad arrendersi alla produzione portando a termine un film
che ormai aveva finito con l’odiare. Imparata la lezione Wenders
imposta Alice nelle città con tutte le precauzioni del caso: si accerta
di poter gestire il budget del film in completa autonomia (la
produzione è della Filmverlag der Autoren, un organismo finanziato
dai nuovi registi tedeschi), sceglie personalmente il cast e i
collaboratori ed infine si garantisce la possibilità di modificare la
sceneggiatura in qualsiasi momento, trattandosi appunto di un
soggetto originale.
Dopo le grandi possibilità finanziarie del film precedente, Alice
nelle città può essere considerato un film “povero”: 16 mm., bianco
e nero, budget limitato. Eppure la ristrettezza di questi mezzi
conferisce a Wenders l’autonomia tanto agognata l’anno prima, e
questa sensazione di libertà è riscontrabile in tutto il film.
LA STORIA
Philip Winter, giornalista tedesco, si trova negli Stati Uniti per
scrivere un pezzo sul paesaggio americano, ma l’impatto con la
società statunitense, omologata ed iterante, provoca la crisi che gli
impedisce di portare a termine il suo lavoro. Decide così di lasciare
l’America e di ritornare in patria, ma uno sciopero aereo lo
costringe a rimandare il viaggio e a prendere un’altra direzione:
10
Amsterdam. Nel lasso di tempo che precede la partenza per
l’Olanda egli conosce Alice e la madre con la quale passa la notte
assieme e che gli affida la bambina per il viaggio aereo,
promettendo di raggiungerli il giorno seguente, dopo aver risolto
una questione sentimentale. Intanto, durante il viaggio, Alice e
Philip approfondiscono la loro conoscenza. Dopo aver passato la
notte in albergo si dirigono all’aeroporto per accogliere la madre di
Alice, ma l’attesa è vana e di Lisa neanche l’ombra. La bambina si
dispera così Philip decide di accompagnarla a Wuppertal, città dove
Alice sostiene che viva la nonna. Ma anche questa ricerca cade nel
vuoto, anzi Philip scopre di essere stato ingannato da Alice che in
realtà non conosce il luogo dove abita la nonna, si risolve così di
portarla alla polizia. Alice fugge dal commissariato e raggiunge
Philip davanti al loro albergo e lo convince ad accompagnarla nella
Ruhr dove è sicura che si trovi la nonna; Philip questa volta si fida e
partono insieme. Dopo tanto girovagare trovano la casa desiderata,
che però ora è abitata da una famiglia italiana che non conosce il
nuovo indirizzo della precedente proprietaria. Philip allora consola
Alice portandola a nuotare in riva ad un lago; qui conoscono una
donna che darà loro ospitalità per la notte. Il mattino seguente
Philip propone ad Alice di andare a trovare i suoi genitori, ma la
polizia li ferma mentre s’imbarcano su di un battello, annunciando
il ritrovo della madre e della nonna di Alice. Giungono così alla
stazione dove la bambina deve prendere il treno per Monaco, e
mentre il poliziotto le compra il biglietto, lei dà a Philip i soldi che
gli permetteranno di accompagnarla in questo ultimo viaggio.
11
1.2 Le novità di Alice
Il pubblico italiano scopre Alice nelle città dopo aver visto ed
apprezzato Nel corso del tempo (1975), il film appare così come la
prova generale dell’ultimo lavoro della trilogia. Ma se Alice fosse
stato accolto nel 1973, data della sua presentazione, sicuramente
sarebbe stato visto come un’opera innovativa, che pur non
sviluppando a fondo tutte le tematiche che propone, tocca alcuni
argomenti di importante attualità, come la solitudine dell’uomo
moderno “condizione di vita di un numero sempre maggiore di
persone del “dopo famiglia”, “dopo la coppia”, “dopo la politica”.
2
Probabilmente, come spiega Goffredo Fofi, le cause di questo
ritardo ricettivo da parte del pubblico italiano non vanno ricercate
solo in problemi di tipo organizzativo/distributivi, ma soprattutto
nella mancata sensibilizzazione degli spettatori verso tematiche che
nel 1973 erano sconosciute e che diventeranno realtà solo nel 1977.
Alice presenta infatti un protagonista anomalo per quegli anni, in
cui le conseguenze della rivolta del ’68 erano ancora argomento
scottante. Philip Winter non si inserisce in nessuna corrente
politica, in nessuna protesta, la sua delusione non deriva da un
fallimento rivoluzionario, egli “semplicemente” è al di fuori di tutto
questo, sembra relegato in un angolo insignificante del mondo
contemporaneo. Osserva la realtà da lontano attraverso il mirino di
una polaroid e non trova nessun varco per potersi inserire nel
continuo movimento che essa propone, si limita ad esserne
2
G. FOFI, Alice nelle città, in Scena, n.2, marzo 1981, p.19
12
spettatore. Philip non si riconosce in ciò che lo circonda: è alla
ricerca della propria identità, che non ha smarrito a causa della sua
presenza in un paese straniero, ma che sembra aver perso
soprattutto in patria, in Germania.
Probabilmente l’America, per lui, era l’ultimo tentativo per avviare
un cambiamento della propria vita. Un paese che fin da bambino lo
aveva affascinato con i suoi miti e che poteva significare una svolta
in un’esistenza che in patria sembrava soffocare. Ma anche Philip
finisce con l’attuare un “falso movimento” come i protagonisti dei
film che seguiranno, cioè un tentativo di fuggire da se stessi
attraverso uno spostamento fisico che però finisce col sottolineare
l’immobilità dell’animo del protagonista. Non basta un viaggio per
lasciarsi alle spalle il proprio passato, anzi se si cerca un
cambiamento bisogna (ri)conoscere la propria storia. L’America
diventa così “luogo monotono dove il solo viaggio possibile è
quello interiore, e dove l’artista può solo attendere con pazienza che
il modo
apparentemente più oggettivo e tecnicamente adeguato per
rappresentarla, la polaroid, gli riveli la falsità di ogni immagine ma
anche l’insignificanza dei luoghi rispetto alle aspettative; essa è
tuttavia allontanata dopo il primo movimento: l’illusione
dell’altrove costruito dal proprio immaginario colonizzato non può
reggere all’esperienza diretta”.
3
Si ritorna così a girovagare in una patria che cambia e che rimane
ugualmente straniera, alla ricerca di una casa, di un punto fisso da
dove partire e dove tornare quando la vita ci porta troppo lontani;
3
G. FOFI, op. citata
13
ma la casa non si trova, non si può tornare indietro ed aspettarsi che
tutto sia rimasto invariato come nei ricordi: la vecchia casa non c’è
più bisogna costruirne un’altra, magari mobile come il camper di
Bruno; si deve continuare a vivere su di un terreno in continuo
cambiamento. Così Philip ed Alice viaggiano in continuazione e la
loro solitudine si smorza solo nei mezzi di trasporto che meglio
sembrano adattarsi ai cambiamenti del reale.
La condizione di Alice non è diversa da quella di Philip, anche lei
non ha una patria, non ricorda il proprio passato, ma la giovane età
le consente di adattarsi ad ogni realtà, la breve storia che ha alle
spalle le conferisce la possibilità di essere priva di ogni
condizionamento storico/culturale e di riuscire a vivere solo di
presente. I suoi punti fissi non sono luoghi, ma persone (la madre, la
nonna ed ora Philip) e quando una di loro viene a mancare, non
resta che cercarne un’altra di cui fidarsi, ma senza ingenuità. Quindi
Alice costruisce la sua identità sui sentimenti che, come si sa, sono
spesso volubili e proprio per questo aderiscono al continuo turbinio
del reale.
Il finale è sospeso (viene interrotto dalla polizia il viaggio dei due
verso la casa dei genitori di Philip), un non-finale, come senza fine
è il movimento dei due protagonisti costretti a girovagare in lungo e
in largo senza alcuna possibilità di trovare un luogo ristoratore.
Il tema dell’identità, intimamente legato a quello del viaggio,
diventa il protagonista di tutti i film della trilogia. L’identità non
nasce con l’uomo, ma va costruita ed inseguita; quando ciò non
avviene si finisce col subire ciò che ci accade senza capire quale
posto si ricopre nella logica delle cose.
14
1.3 I movimenti di macchina
Alice nelle città, si apre con un inquadratura dal basso verso l’alto
del cielo, poi una leggera panoramica verso sinistra segue
l’allontanarsi di un aereo che sprofonda tra le nuvole. La
panoramica, continuando, scopre un palo segnaletico con la scritta:
B 67, poi s’incurva verso il basso inquadrando un totale del mare e
della spiaggia. Segue un’inquadratura di un pontile lungo il mare.
Un carrello verso il basso evidenzia la postazione di un bagnino in
profondità di campo, di seguito una panoramica verso sinistra
scopre un uomo seduto sotto il pontile in un piano americano
chiuso.
Qui si è cercato di riprodurre a parole i movimenti di macchina
della prima sequenza per dar modo almeno di intuire la fluidità di
queste riprese che conferiscono al film un tessuto connettivo
semplice e definito.
Questa prima sequenza verrà ripresa nel film da quella finale
caratterizzata dagli stessi fluidi movimenti di macchina, ma da un
punto di vista opposto, cioè dall’alto verso il basso. Ecco dunque,
per un possibile confronto, la descrizione della sequenza finale:
totale dei due protagonisti al finestrino del treno, carrello verso
destra in plongée. Zoom all’indietro con carrello laterale ad
inquadrare il treno in campo totale. Grande movimento verso il
basso ad “incorniciare” i campi coltivati e le case isolate della Ruhr.
Il carrello laterale è sostituito da una panoramica verso destra che
segue il treno mentre si allontana e scopre il Reno in primo piano,
tenendo sul fondo le colline.
15
E’ la famosa ripresa aerea dall’elicottero con la quale Wenders
intendeva inquadrare tutta la Germania.
“La spazialità filmica di Wenders - con le sue riprese aeree, in
puntuale apertura e chiusura di film, didascalicamente vicine alla
cartografia, con la sua m.d.p. che aspetta fissa fino al momento
“giusto” e poi carrella all’indietro, ecc. - si pone decisamente sul
versante dello spazio concepito come convenzione, come
costruzione arbitraria”.
4
La prospettiva dall’alto con cui Wenders
chiude i film della trilogia si avvicina a quella dell’angelo Cassiel in
Il cielo sopra Berlino (1987), che dopo aver seguito da vicino le
vicende dei suoi “protetti”, li abbandona alla loro esistenza
spiccando il volo.
Altro movimento estremamente leggero e fluido lo si nota
nell’inquadratura dell’aereo che decolla dall’aeroporto di New York
e che atterra ad Amsterdam. Questa volta la m.d.p. è posizionata a
terra e con una panoramica verso destra segue l’aereo che si alza in
volo e, con lo stesso movimento ma verso sinistra, lo “accoglie” al
momento dell’atterraggio. Anche qui la circolarità dei movimenti è
sottolineata dalle due panoramiche di segno opposto che seguono
l’apparecchio, ma la fluidità questa volta è data da uno spostamento
esterno che la m.d.p. si limita ad inquadrare da terra.
Si nota un frequente uso del totale che acquista in questo contesto
una delle connotazioni più classiche: “...rende nel suo insieme un
determinato spazio, preesistente e già dotato per sé stesso di
determinati valori (culturali, mitici, simbolici), esalta la funzione
4
R. ROSETTI, Wim Wenders lo spazio, il viaggio e il confine, in Filmcritica,
n.273, 1977, p.103
16
denotativa del significante cinematografico....(Si) avverte la
tridimensionalità di uno spazio percorribile in tutte le direzioni”.
5
Ma all’interno del film si ritrovano anche movimenti più concitati,
sequenze caratterizzate da frequenti stacchi. Si tratta di quelle
sezioni in cui Alice e Philip sono in viaggio, dove si alternano ai
primi piani degli attori i totali dei paesaggi che attraversano. Il
ricorso al carrello abituale, in questi casi, è più limitato di quel che
si crede; infatti spesso la m.d.p. è posizionata all’interno di un
mezzo di trasporto che la “scarrozza” attraverso il paesaggio. In
questo modo viene a crearsi un falso movimento dato dal fatto che
la m.d.p. è ferma, ma nell’abitacolo di un veicolo che sta attuando
uno spostamento. La m.d.p. è fautrice del movimento nei casi in cui
si trova a seguire gli spostamenti che i protagonisti intraprendono a
piedi, oppure nei casi in cui rincorre dall’esterno l’auto di Philip che
gli sfreccia davanti. Si tratta comunque di movimenti piuttosto
concisi. Questo film infatti si caratterizza per la misura con cui il
regista utilizza i suoi espedienti tecnici: tutti finalizzati ad esaltare
sia protagonisti che paesaggi, senza per questo rivelarsi invadenti,
riuscendo così ad attuare un buon equilibrio tra forma e storia.
La m.d.p. è spesso costretta negli spazi angusti in cui si muovono i
due protagonisti: dalle piccole camere d’albergo agli abitacoli dei
mezzi trasporto; diventa quindi una vera e propria compagna di
viaggio, che li scruta da vicino con frequenti primi piani o piani
americani, tesi a carpire, dall’espressione del viso, ogni tipo di
sentimento. Li segue a distanza ravvicinata eppure si mantiene
5
A. COSTA, Campo totale, in Cinema & Cinema, n.47, dicembre 1986, p.39-
42
17
sempre discreta, coglie le loro parole e i loro silenzi con estrema
naturalezza. Così lo spettatore, grazie a questo modo di procedere,
si ritrova inserito tra Philip ed Alice, li conosce quasi intimamente,
si interessa alla loro situazione cercando di cogliere i loro stati
d’animo. Ma è anche una m.d.p. che può andare oltre la visione
reale, si può avvicinare a tal punto al personaggio da coglierne
anche i sogni. E’ il caso che si verifica quando Philip si addormenta
davanti al televisore allo Sky Way motel: si inserisce in
sovrimpressione un piano ravvicinato in leggero plongée del suo
viso su di un piano d’insieme di un ponte autostradale deserto
ripreso dall’interno di una vettura in movimento.
“Compare ora di frequente il primo e il primissimo piano che prima
sembravano sconosciuti a Wenders, indizio di una maggiore
confidenza e sicurezza nel trattare il personaggio e nel mettere in
luce i chiaroscuri; l’ellissi si fa sentire, segno di una nuova autorità
nel far procedere la storia. E’ come se l’incontro con l’infanzia
abbia avuto l’effetto di distendere il ritmo narrativo, il punto di vista
e il taglio delle inquadrature che prima non facevano che
assecondare su un piano linguistico la nevrosi del protagonista.
Compaiono controcampi, primo segno dell’affacciarsi di un “noi”,
di una implicazione relazionale, che fa seguito al disperato
solipsismo dei precedenti personaggi”.
6
La m.d.p. acquista però anche una propria indipendenza dai
personaggi, certo rimane sempre al loro fianco, ma la sua attenzione
non sempre si rivolge ai loro sguardi; si focalizza su punti diversi
6
L. ANTOCCIA, Viaggio nel cinema di Wim Wenders, ed. Dedalo, Bari, 1994,
p.59
18
del paesaggio e , soprattutto in auto, può rappresentare la
prospettiva di un terzo passeggero.
Nei momenti di maggiore tensione tra i personaggi si nota un uso
costante del campo-controcampo: quasi ad indicare la rottura tra i
due: “Au dèpart, de nombreux champs/contrechamps marquent la
séparation entre les personnages et leurs dialogue meme que de
nombreux fondus enchainés au blanc ou au noir suggèrent la
viscosité de l’existence, la reverie, la difficulté de la transition. Puis
un montage plus rythmé fait appel, parfois, à la technique de la
trasparence. Le recours aux plongées, contre-plongée et rapides
travellings latéraux, qui montrant la difficulté de Philip à saisir son
envirannement, se fait plus rare au fur et à mesure que progresse le
récit”.
7
Questo movimento lo si nota, in particolar modo, al bar di
Wuppertal quando Alice confessa di aver mentito e di non
conoscere realmente dove abita la nonna. Sembra incrinarsi
definitivamente un rapporto che, per certi versi, appariva
consolidato.
Philip: “Ma allora perché hai voluto venire qua? Primo piano di
Philip. Cosa pensi...pensi che io non abbia altro da fare che
percorrere la regione con una bambina spendendo i miei ultimi
soldi? Piano ravvicinato di Alice, in leggero plongée, a destra, le
mani di lui girano la tazza. Ritorna su di lui. Io ho altro da fare!”
7
J. F. BOULIN, Alice dans le villes à la recherche d’un moi perdu, in Etudes
Cinématographiques, Paris, n.156/164, 1989/1990, p.74
19
Alice: “Su di lei. Ma io volevo restare ad Amsterdam. Su Philip
off. Questo è quello che hai voluto fare tu. Su di lei dura. Non fai
che scarabocchiare sul tuo blocco. Su di lui che lecca la tazzina.
Su di lei, severa che lecca il gelato. Su di lui che decide.”
Philip: “Ti porto alla polizia. Su di lei che interrompe il gesto di
leccare il gelato, off. Loro potranno aiutarti più di me.”
Come si può notare un montaggio abbastanza serrato descrive
questi momenti di tensione e, spesso, illustra anche gli spostamenti
della coppia: si alternano immagini degli sguardi di Alice e Philip
con quelle del paesaggio. Questo modo di procedere tende a
restituire un più realistico scorrere del tempo: nei volti dei
personaggi come nelle inquadrature in movimento dello spazio
percorso. Questa tecnica di montaggio rimane comunque semplice e
lineare e si muove su raccordi creati dalla situazione reale.
IL BIANCO E NERO
In Alice nelle città Wenders sembra arrivato ad un uso del bianco e
nero sicuro e mirato. Infatti nella produzione precedente il cineasta
tedesco aveva alternato l’uso del colore e del bianco e nero, senza
arrivare a comprendere in profondità il criterio sul quale si
appoggiava tale scelta. In questo film le idee a riguardo sembrano
più chiare e testimoniano una motivata posizione stilistica, tanto che
l’anno dopo (1975) Wenders dichiarerà: “Trovo il bianco e nero più
realistico e naturale del colore”. E poi spiegherà: “Il bianco e nero
fa risaltare l’essenziale. E per me è associato al cinema
20
europeo...Quando penso ai primi film a colori, del resto, sono
Western...Per me il bianco e nero è la verità del cinema. E’ il
cinema che parla dell’essenza e non dell’apparenza delle cose.
Ogni tanto un film deve parlare dell’essenza”.
8
Le variazioni del bianco e nero dipendono dalla luce e da come
direttore della fotografia e regista riescano a domarla.
Negli esterni di questo film Wenders espone la pellicola alla luce
naturale creando un effetto d’illuminazione diffusa, quasi
abbagliante, tale da confondere i confini tra le cose e rendere il
paesaggio più sfumato; gli spazi tendono così ad ampliarsi e a
perdere i loro limiti.
Gli interni sono invece piuttosto scuri, animati dalla luce innaturale
della TV, delle lampade e delle insegne pubblicitarie che entrano
dalle finestre degli appartamenti; l’illuminazione risulta così
direzionata, sui volti dei personaggi compaiono zone d’ombra
sfumate e diverse a seconda della loro collocazione rispetto alla
fonte illuminante. Ma l’elemento di spicco rimane il buio che
confonde (come la luce esterna) contorni e figure, di conseguenza
gli spazi sembrano chiudersi in confini mal definiti.
Comunque non si tratta mai di una luce drammatica: si posa su visi
ed oggetti senza forzature, mantiene sempre una profonda
connotazione naturale sia in interni che in esterni. “...c’est que la
beauté nait de la tranquillite, cette nouveauté supreme, qui donne
leur mouvement si singulier à des images noir et blanc tant-à-fait
8
WIM WENDERS, Wim Wenders e..., riportato da Circuito Cinema, q.26,
Venezia, aprile, 1985, p.59
21
réalistes”.
9
Qui il bianco e nero corre sul filo dei sentimenti
rendendo palpabile ogni emozione con il suo gioco di sfumature,
che visita tutta la gamma dei grigi escludendo rigorosamente dal
campo visivo il nero e il bianco allo stato puro. Forse perché la
vicenda sembra sospesa tra reale ed irreale, tra l’immediatezza di un
fatto di cronaca ( l’abbandono di una bambina da parte della madre)
e la magia di una fiaba o di un sogno, proprio come quella
interminabile che Philip racconta ad Alice per farla addormrntare e
restituirla così a quel Paese delle Meraviglie dal quale sembra
essere uscita.
Da questo momento in poi i film a colori ed in bianco e nero si
seguiranno con regolare alternanza, come se, dopo ogni film
contente la “finzione” del colore, il regista tedesco si rigenerasse
con la “realtà” del bianco e nero.
9
J. GRANT, Alice dans les villes, in Cinéma, n.223, luglio, 1977, p.86