3
personaggio di grandissima statura. Quest’uomo era Luigi Albertini. Egli era
entrato al “Corriere” nel 1896 come segretario di redazione e ne divenne il direttore
nel 1900, prendendo in mano l’eredità ideale del fondatore, Eugenio Torelli Viollier.
Albertini oltre ad essere stato un grande giornalista, fu uno dei più influenti uomini
politici italiani di inizio secolo. Di salde convinzioni liberali e senatore dal 1915, egli
fu tra i principali protagonisti della battaglia politica che portò l’Italia all’intervento
nella prima guerra mondiale. Le sue opinioni, venissero espresse dallo scranno
senatoriale o dalle colonne del “Corriere”, erano tra le più ascoltate dalla classe
dirigente dell’epoca proprio perché egli stesso faceva parte di questa classe in una
posizione non secondaria. Il “Corriere” quindi orientava, e allo stesso tempo
rappresentava, gli umori di buona parte dei detentori del potere politco-economico
in Italia. Esso rappresenta, quindi, un osservatorio privilegiato per capire come la
borghesia italiana percepì gli avvenimenti legati alla nascita e all’avvento del
fascismo e può aiutarci a comprendere meglio le motivazioni che stettero dietro
all'atteggiamento dei politici e degli imprenditori dell’epoca di fronte alle vicende
dei Fasci di combattimento.
Nelle pagine che seguono si è scelto di far parlare quanto più possibile gli articoli del
giornale, siano essi commenti, resoconti di fatti di cronaca o sunti di discussioni
parlamentari e di discorsi politici. Non sono infatti solo le opinioni espresse nei
commenti che fanno luce su quali fossero le linee guida del “Corriere”, ma è anche
dal tono delle corrispondenze, dai titoli degli articoli della cronaca, dal rilievo dato a
certe notizie a scapito di altre che si può far luce sulla direzione verso cui il
quotidiano milanese orientava il proprio cammino.
Per capire meglio le vicende di cui ci si occuperà è stato necessario consultare i
risultati delle ricerche cui i migliori storici contemporanei sono giunti, sia per quanto
concerne l’avvento del fascismo sia per quanto concerne la storia del “Corriere della
Sera”. In questo senso sono stati particolarmente preziosi i diari e l’epistolario di
Luigi Albertini.
Il punto di partenza di questo studio è il 1919, anno in cui vennero fondati a Milano i
Fasci di combattimento. Il punto d’arrivo é il 1925, anno in cui Luigi Albertini venne
definitivamente estromesso dal “Corriere della Sera”. Dopo quella data il “Corriere”
perse anche la libertà di giudizio che gli era stata consentita fino ad allora e venne
4
affidato a mani sicure, per lo meno dal punto di vista fascista. Dal 1925, e
precisamente dal 29 novembre, il più diffuso e autorevole quotidiano italiano
divenne , come tutti gli altri giornali nazionali di cui veniva permessa la
pubblicazione, un mero bollettino incensatorio del regime fascista e del suo “duce”.
L’opinione pubblica non andava più informata, ma solo indottrinata. La funzione di
fucina di idee del giornale veniva sospesa e passava in mano all’autorità politica la
quale decideva cosa e come andava scritto e portato a conoscenza della popolazione.
Solo la caduta del regime avrebbe restituito all’informazione la sua dignità e al
Corriere della Sera la libertà e l’autorevolezza che l’avevano portato ad essere il più
importante quotidiano italiano.
5
CAPITOLO 1
LA NASCITA DEI FASCI DI COMBATTIMENTO NELL’AMBITO
DELLA CRISI ITALIANA DEL PRIMO DOPOGUERRA
? La crisi italiana nell’immediato dopoguerra
Il 1919 fu l’anno della pace in Europa. Dopo i 5 anni della prima guerra mondiale,
che avevano insanguinato il continente, la coalizione austro-tedesca era stata
sconfitta dalle potenze alleate. L’Italia, al fianco di Francia, Gran Bretagna e Stati
Uniti d’America, aveva conquistato una vittoria bellica che apriva, agli occhi di
buona parte dell’opinione pubblica e della classe politica dell’epoca, nuove
prospettive per il paese nel contesto internazionale. Innanzitutto era scoccata l’ora
tanto attesa nella quale si sarebbe aggiunto il tassello mancante all’opera di
unificazione iniziata quasi un secolo prima dalla dinastia sabauda: con la sconfitta
austriaca, Trento e Trieste diventavano finalmente italiane. Ma aldilà delle
acquisizioni territoriali, si aveva la convinzione che l’Italia, avendo dimostrato con
la sua partecipazione alla grande guerra la sua forza morale e militare, avesse
acquisito lo status di potenza internazionale. Al tavolo al quale si prendevano le
decisioni riguardanti l’assetto internazionale si sarebbe dovuto ora tenere conto
anche dei suoi interessi.
La lotta politica, durante il 1919, vertè quindi in buona parte, su quello che era stata
la guerra e su quello che avrebbe dovuto essere la pace. Era ancora forte la
contrapposizione tra coloro che erano stati favorevoli all’intervento italiano nella
grande guerra e i paladini del neutralismo. Nel primo campo era schierata la grande
borghesia italiana (e quindi buona parte della classe dirigente) , il movimento
nazionalista, una parte dei socialisti che si era staccata dal partito negli anni
precedenti (la quale era capeggiata da Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi), una parte
del sindacalismo (rappresentata dalla UIL di Alceste De Ambris) e, infine, Benito
Mussolini, che dal Partito Socialista era stato espulso proprio per la sua posizione
6
interventista. I neutralisti comprendevano invece: il Partito Socialista, una parte
minoritaria della classe dirigente liberale capeggiata da Giovanni Giolitti e la CGL , il
sindacato che allora rappresentava e organizzava la grande maggioranza dei
lavoratori italiani. Se durante la guerra lo schieramento interventista fu compatto
nonostante le diverse concezioni politiche degli elementi che lo componevano, con il
termine delle ostilità belliche si crearono al suo interno diverse crepe. Queste fratture
furono in buona parte dovute al fatto che, concluso il conflitto, veniva meno l’unico
elemento che tenesse unito un insieme così eterogeneo di persone. Per dirla con
Renzo De Felice, nell’immediato dopoguerra “I vari partiti e gruppi interventisti nei
loro reciproci rapporti, presero a smussare sempre meno gli angoli, si richiamarono sempre
più esplicitamente ai loro principii ideali e politici”
1
. Soltanto su un punto gli interventisti
ritrovavano una certa coesione, “Se un minimo comune denominatore sussistette ancora
fu un minimo comune denominatore esclusivamente negativo, l’avversione, l’odio per i
neutralisti”
2
. Il riappropriarsi della propria visione politica, portò gli interventisti a
dividersi innanzitutto su quello che era il primo problema del dopoguerra: le
sistemazioni territoriali. Le due concezioni che si contrapposero furono quella di
coloro i quali auspicavano che il riassetto geopolitico europeo portasse l’Italia ad
espandersi solo verso le zone che erano etnicamente italiane, secondo i principi del
diritto di nazionalità, e quella di coloro che invece avrebbero voluto un’acquisizione
territoriale più cospicua, di stampo imperialistico, che testimoniasse la raggiunta
grandezza dell’Italia. Questi ultimi bollarono i primi come “rinunciatari” e fecero
propria la parola d’ordine coniata da Gabriele D’ Annunzio: “Vittoria nostra, non
sarai mutilata”
3
.
Il tema dominante sulle pagine dei giornali italiani nel 1919 e quindi anche del
“Corriere della sera” , fu perciò la conferenza di pace di Parigi, nell’ambito della
quale si sarebbero dovuti decidere i destini dei vincitori e dei vinti . Si trattava, dopo
aver vinto la guerra, di vincere la pace. Era venuto il momento di far valere il ruolo
che l’Italia si era conquistato durante gli anni del sacrificio bellico, facendolo fruttare
sia dal punto di vista delle rivendicazioni territoriali che da quello politico.
1
R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, 1965, p.437
2
Ibidem
3
Cfr. D. Mack Smith, Storia di cento anni di vita italiana visti attraverso il Corriere della Sera, Milano, 1976, p. 220
7
Sul “Corriere della sera ” , che nel 1915 era stato tra i massimi sostenitori
dell’ingresso dell’Italia in guerra
4
, molto spazio fu, di conseguenza, occupato dalla
questione dei nuovi confini dell’Italia e dai commenti all’azione dei plenipotenziari
italiani a Parigi, ai quali si chiedeva di esercitare un’azione diplomatica che
concretizzasse le aspirazioni di tutti quegli italiani che avevano voluto l’intervento in
guerra, che l’avevano combattuta e che adesso si aspettavano di raccoglierne i frutti.
Però, come detto sopra, non c’era identità di vedute su quali dovessero essere i frutti
che avrebbero dovuto ripagare adeguatamente il sacrificio italiano.
Il “Corriere” non tardò a prendere posizione. Il 1° gennaio 1919 pubblicò, in prima
pagina, un articolo nel quale venne esposta la visione del quotidiano milanese
riguardo alla sistemazione dei confini. Una frase di questo articolo riassume bene ciò
che in via Solferino si pensava della questione
A oriente l’Italia finisce al Quarnaro, come a settentrione finisce al Brennero
5
.
Quindi, secondo questa concezione, il territorio italiano si sarebbe dovuto allargare
fino a comprendere i territori redenti (Trento e Trieste), il sud Tirolo, l’Istria e Fiume
(città abitata in grande maggioranza da italiani), lasciando perdere la rivendicazione
della Dalmazia. Questa rivendicazione era portata avanti dal ministro degli esteri
italiano Sonnino e si basava sui termini del cosiddetto Patto di Londra (l’atto che
sancì l’ingresso del nostro paese in guerra), stipulato tra l’Italia e le potenze alleate
nel 1915. Il patto prevedeva che l’Italia, a guerra vinta, avrebbe avuto diritto
all’annessione della Dalmazia, ma non a quella di Fiume.
Proprio per le divergenze sulla politica da seguire a Parigi, alla fine del 1918 si era
dimesso dalla carica di ministro dell’assistenza militare e delle pensioni di guerra
colui che era considerato il leader dell’interventismo democratico: Leonida Bissolati.
Egli, auspicando un’applicazione del principio di autodeterminazione, sosteneva
una posizione sostanzialmente analoga a quella del “Corriere” (l’unica divergenza
riguardava l’acquisto del Sud Tirolo, che il direttore del giornale, Luigi Albertini,
riteneva necessario per dare sicurezza ai confini italiani, al contrario di Bissolati)
4
Sull’atteggiamento e sul ruolo avuto dal “Corriere della Sera” nell’ingresso dell'Italia in guerra, cfr D. Mack Smith, op. cit.
pp. 183 e sgg.
8
tanto che, in un editoriale di Albertini apparso sempre sul numero del 1° gennaio a
commento del rimpasto governativo appena avvenuto si legge
Forse l’On. Orlando avrebbe ancora trovato l’eloquenza necessaria per persuadere
l’On. Sonnino, come l’aveva trovata in altre circostanze. Senonchè stavolta c’è la folla
che applaude all’On. Sonnino.
6
La folla cui si riferisce Albertini è rappresentata da una buona parte del popolo
italiano ( in particolare dai reduci dal fronte) che, ubriacato da 3 anni di retorica
bellica e imperialista (necessaria a tenere alto il morale durante la guerra), si era
impregnato di nazionalismo e sognava un futuro imperiale per l’Italia, sull’esempio
di Francia e Gran Bretagna. I nazionalisti e una parte dei liberali italiani,
contribuirono a tenere vivo questo sentimento anche nel dopoguerra, arrivando a
sostenere delle tesi che si contraddicevano fra di loro. Essi continuarono a
rivendicare l’annessione della città di Fiume in nome della sua italianità etnica,
auspicando quindi, in questo caso, l’applicazione del principio di nazionalità e di
autodeterminazione dei popoli, ma nello stesso tempo chiedevano che la Dalmazia
(abitata in stragrande maggioranza da popolazioni slave) diventasse italiana,
evocando un patto (il patto di Londra appunto) che quel principio negava e che la
potenza che era stata decisiva per la vittoria della guerra, gli Stati Uniti, non
avevano mai sottoscritto né, tanto meno, riconosciuto.
Nel prosieguo dell’articolo sopra citato Albertini scrisse
Noi che durante la guerra fummo considerati oltranzisti e non volemmo mai udir
parlare di pace e di compromesso e mantenemmo sempre alta la fede nella vittoria
integrale, noi crediamo di poter sorridere di fronte all’agitazione di tutti i
germanofili, austrofili e neutralisti di ieri mascherati da patrioti, assegnanti all'Italia
territori e confini che la tradizione costante del nostro Risorgimento mai pretese e
reclamò. Ecco perché ci consideriamo wilsoniani autentici contro gli spuri
7
.
5
“Corriere della sera”, 1° gennaio 1919, p.1
6
“Corriere della Sera”, 1° gennaio 1919, p. 1
7
“Corriere della Sera”, 1° gennaio 1919, p. 1
9
Da queste righe si può quindi aver conferma che la posizione del “Corriere” aveva
come base teorica l’adesione al principio di nazionalità. Questo principio, per quanto
riguardava le rivendicazioni dell’Italia, andava ricercato nelle teorie che durante il
risorgimento erano state sostenute da Mazzini e da Garibaldi, ma l’entrata in guerra
degli Stati Uniti lo aveva portato alla ribalta anche nel contesto internazionale
dandogli una legittimazione politica importantissima.
Il richiamo all’autodeterminazione dei popoli non era in effetti tema nuovo per il
giornale che rappresentava la voce più importante del liberalismo in Italia; infatti,
nell’aprile del 1918, fu organizzato, dai più importanti uomini del “Corriere”
8
, un
Congresso che venne denominato, delle nazionalità oppresse. Al Congresso
intervennero i rappresentanti dei popoli balcanici che si trovavano sotto la
dominazione austriaca, i quali discussero, insieme ad alcuni rappresentanti politici
italiani (tra i quali vi fu anche Benito Mussolini), dei principii che avrebbero dovuto
guidare il riassetto europeo dopo la guerra. Da questo confronto scaturì il Patto di
Roma, una dichiarazione d’intenti che stabiliva l’accordo dei balcanici e degli
italiani intervenuti, sul principio di autodeterminazione dei popoli come principio
guida nella nuova geopolitica europea. Negli auspici di Albertini, la politica delle
nazionalità, avrebbe permesso all’Italia, sostenendo la creazione delle patrie
balcaniche, di allacciare buoni rapporti con i nuovi stati che si sarebbero formati e
conseguentemente di poter avere una grande influenza su di essi, sottraendoli così al
controllo franco-britannico, dopo che la guerra li aveva sottratti al dominio
austriaco
9
. La creazione di questa zona di influenza avrebbe dato concretezza alle
velleità dell’Italia di essere una grande potenza in Europa.
La fine della guerra portò con sé anche numerosi problemi all’interno del paese. Una
grave crisi economica e, di conseguenza, sociale , si abbatté sull’Italia, mettendo a
dura prova la sua classe politica.
Le componenti di questa crisi furono molteplici. Il tutto partì dalla fine
dell’economia di guerra, che causò diverse conseguenze nefaste per il sistema
economico italiano. Innanzitutto, le industrie pesanti, che durante gli anni della
guerra avevano spinto la propria produzione a livelli mai raggiunti prima e avevano
8
Tra gli organizzatori del Congresso vi furono lo stesso Luigi Albertini, Giovanni Amendola , Andrea Torre, Borgese e
Francesco Ruffini. Cfr. G. Licata, Storia del Corriere della Sera, Milano, 1976, p. 186
10
assorbito numerosissima manodopera grazie alle commesse governative, dovevano
ora riconvertirsi all’economia di pace. Questo passaggio cruciale però, non fu
affrontato in maniera efficace e tempestiva e ciò ebbe come immediata conseguenza
il licenziamento di molti operai, il che creò una forte conflittualità sociale.
Conflittualità che ebbe un altro focolaio nella forte crescita dei prezzi al consumo
che andava a colpire i ceti più umili, ma anche la classe media
10
e i percettori di
redditi fissi (era stato imposto, durante la guerra, il blocco del prezzo degli affitti di
stabili e di terreni agricoli)
11
che costrinse il governo ad imporre il prezzo politico del
pane ed un calmiere sui prezzi agricoli. Questi provvedimenti peggiorarono la
situazione del bilancio dello Stato, già gravato dal forte indebitamento contratto con
gli alleati (specie con gli Stati Uniti) per sostenere le spese di guerra, e che
continuava a peggiorare anche a causa della lenta smobilitazione dell’esercito,
lentezza che aveva come conseguenza il protrarsi di forti spese per le truppe che non
avevano ormai più ragion d’essere.
Smobilitazione significava anche e soprattutto, il rientro in Italia di centinaia di
migliaia di combattenti ai quali erano state fatte molte promesse quando erano
ancora al fronte, ma che in realtà, tornando a casa, trovarono una situazione generale
che difficilmente avrebbe permesso loro di ritrovare presto un posto nella vita civile.
Quest’insieme di cose, unito alla prospettiva, indicata come inevitabile da importanti
esponenti della classe politica, non solo italiana, di importanti cambiamenti sociali
che il dopoguerra avrebbe portato con sé
12
, provocò in Italia una forte tensione
sociale, che si manifestò attraverso una forte conflittualità sindacale. Gli scioperi si
moltiplicarono, ma le lotte sindacali non riguardarono solo il proletariato urbano;
anche nelle campagne la tensione fu alta. Tutto ciò fu causato anche da un altro
aspetto della retorica di guerra che si unì al mito nazionalistico, e più in particolare
dalle “promesse più o meno esplicite che, specie negli ultimi anni della guerra,
9
Cfr. Ibidem
10
Per farsi un’idea di quanto i prezzi fossero saliti possiamo riportare alcuni dati sul valore reale degli stipendi nel 1919:
fatto 100 il valore degli stipendi nel 1914 lo stipendio medio di un operaio valeva 64,6 e quello di un impiegato dello Stato
valeva 57,9 (addirittura 47,1 per chi aveva un incarico direttivo!) E valori analoghi si avevano per le retribuzioni degli
impiegati del settore privato. Dati tratti da G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna - vol.VIII, Milano 1978, pp 236, 237
11
Il valore della lira nel 1919, fatto 100 il suo valore nel 1914, era 61,2. Dato tratto da G. Candeloro, op. cit., p 228
12
Ad esempio il primo ministro inglese, Lloyd George dichiarò che “Dopo la guerra i lavoratori devono essere audaci nelle
loro rivendicazioni”. E, nello stesso senso, una dichiarazione di Vittorio Emanuele Orlando, presidente del consiglio fino alla
metà del 1919, che subito dopo la conclusione della guerra, il 20 novembre, 1918 disse: “Questa guerra è al tempo stesso la
11
erano state fatte, proprio e soprattutto ad opera degli interventisti di sinistra, ai
contadini. La parola d’ordine ‘ la terra ai contadini ’ era stata intesa dai più come un
esplicito impegno di cui ora si chiedeva l’adempimento”
13
Di fronte a una crisi di tale portata, Il “Corriere” si rese conto che il sistema così
com’era non reggeva più e che si rendeva necessaria una politica di riforma dello
Stato la quale permettesse nell’immediato di rimettere in ordine i conti dell’erario e
in prospettiva di creare una macchina statale efficiente e funzionale. Preminenti in
questo senso furono gli articoli scritti sul quotidiano milanese dal più importante
economista italiano dell’epoca: Luigi Einaudi. Egli propose nei suoi scritti la
liberalizzazione dei mercati, affinché le imprese italiane imparassero a camminare da
sole senza avere bisogno del sostegno di una politica protezionistica; la tassazione
dei sovraprofitti di guerra per colpire i cosiddetti pescecani, coloro, cioè che avevano
tratto enormi guadagni approfittando della guerra; una riforma fiscale basata
sull’imposta progressiva sui redditi e sulle successioni, perché il peso
dell’imposizione indiretta non gravasse troppo sui ceti più bassi
14
; la nominatività
dei titoli al portatore.
Ma oltre alla riforma del sistema economico e fiscale in senso liberale, si suggerì
anche una riforma della burocrazia e venne altresì ingaggiata una battaglia per la
trasformazione del sistema elettorale in senso proporzionale. Questa modifica nel
modo di elezione della camera dei Deputati avrebbe avuto, nelle previsioni del
giornale, il salutare effetto di rinnovare la classe politica italiana, depurandola dagli
elementi che si preoccupavano solo del proprio interesse di parte trascurando quello
della nazione e che dovevano la loro elezione a pratiche poco limpide, il che avrebbe
ridato credibilità alle istituzioni. Come si può leggere in un commento del 10 agosto
sull’approvazione della legge elettorale proporzionale
Ma i vantaggi dell’approvazione della riforma non sono soltanto esteriori ed
estrinseci: la riforma ha anche i suoi intrinseci pregi. Il sistema del collegio
più grande rivoluzione politico-sociale che la storia ricordi, superando la stessa rivoluzione francese”. A. Tasca “Nascita e
avvento del fascismo”, Bari, 1976, p.18
13
R. De Felice, op. cit., p. 435
14
Cfr “Corriere della Sera”, 1° novembre 1919, p 1
12
uninominale aveva dato luogo ad elezioni scandalose per brogli, per corruzioni, per
pressioni governative
15
.
E’ un attacco al sistema di potere che Giovanni Giolitti aveva creato nell’Italia
prebellica. Il sistema si basava sulle pressioni che i prefetti esercitavano nei vari
collegi per far eleggere i candidati graditi al presidente del consiglio, che quindi
poteva disporre di una maggioranza parlamentare docile ai suoi voleri. Ma adesso
la riforma sembrava avere messo termine a questo stato di cose. L’elezione della
Camera dei Deputati col sistema proporzionale ebbe però un effetto che Luigi
Albertini aveva sottovalutato e la consultazione elettorale del novembre successivo
ne sarà una testimonianza concreta: la nascita di un nuovo scenario all’interno della
vita politica italiana. La riforma elettorale ebbe infatti come effetto principale
l’ingresso prepotente dei partiti che si rivolgevano alle masse popolari nelle sedi
della rappresentanza politica del paese. Il liberalismo non era più l’unica forza che
esprimesse una classe dirigente e non fu capace di adattarsi alla nuova situazione. I
suoi capi, non ebbero la capacità di tenere conto dei mutati equilibri politici e alla
fine ne furono sopraffatti . Le elezioni del novembre 1919 furono in pratica il primo
passo della crisi del sistema di potere liberale, basato sulle clientele e sul notabilato,
che reggeva l’Italia fin dalla sua unificazione e che perse la bussola davanti
all’avvento delle masse popolari nella vita politica fino a venire spazzato via dalla
rivoluzione fascista dell’ottobre 1922 .
∡ La nascita dei Fasci di combattimento
La lotta al “rinunciatarismo”
16
nella questione dei confini fu per Benito Mussolini il
tema principale che guidò la sua azione politica all’inizio del 1919. É in questo
ambito che egli si mosse alla ricerca di alleati e di consensi. La prima occasione nella
quale si concretizzò questa tendenza fu data da un discorso che Leonida Bissolati
15
“Corriere della Sera”, 10 agosto 1919, p. 1
16
Con “rinunciatarismo” i nazionalisti indicavano coloro che nella questione dei confini italiani erano per una soluzione
minima, che escludesse ad esempio la rivendicazione della Dalmazia
13
tenne a Milano al teatro Alla Scala l’11 gennaio del 1919. L’ex ministro avrebbe
voluto esporre il proprio punto di vista sulle questioni territoriali in modo da poter
far sentire la presenza di tutti quegli italiani che non condividevano una politica
estera imperialista e che si opponevano alla marea trionfante del nazionalismo.
Bissolati non riuscì però a a esprimere in maniera efficace il proprio pensiero a causa
di una forte contestazione che fu organizzata tra gli altri da Benito Mussolini e dal
fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti . Numerosi elementi futuristi e
nazionalisti dettero vita ad una gazzarra che interruppe continuamente il discorso di
Bissolati, tanto che alla fine si parlò dell’azione di disturbo più che del discorso
stesso, in modo tale che l’azione di disturbo raggiunse in pieno il suo scopo.
17
La rete di contatti che Mussolini instaurò nei primi mesi del 1919 si concretizzò il 23
marzo 1919 quando a Milano, presso il salone del Circolo Interessi Industriali e
Commerciali, nacquero i Fasci di Combattimento. Il “Corriere della sera” se ne
occupò il giorno successivo riportando, nella cronaca milanese, il resoconto della
riunione che sancì la fondazione del nuovo movimento politico (anche se
nell’articolo parlava ancora di “Fasci regionali fra gruppi d’interventisti”). Subito venne
messo in rilievo il ruolo preminente di Benito Mussolini nella nascente
organizzazione
Il prof. Mussolini illustrò i capisaldi su cui dovrebbe svolgersi l’azione dei Fasci e
cioè: valorizzazione della guerra e di chi la guerra ha combattuto, dimostrare che
l’imperialismo di cui si fa colpa agli italiani, è l’imperialismo voluto da tutti i popoli
non esclusi il Belgio e il Portogallo, e perciò opposizione agli imperialismi esteri a
danno del nostro paese ed opposizione ad un imperialismo italiano contro le altre
nazioni: infine accettare la battaglia elettorale sul “fatto” di guerra e quindi opporsi a
tutti quei partiti e candidati che la guerra hanno avversata.
18
Come si può notare, questa parte delle intenzioni programmatiche è molto vicina
alle posizioni sostenute dal “Corriere”, sia nell’avversione alla politica imperialistica
(del resto come accennato sopra Mussolini era stato tra i partecipanti del Congresso
17
Per conoscere tutti i dettagli sull’episodio vedere R.De Felice , op cit., pp. 487, 488
18
“Corriere della Sera”, 24 marzo 1919, pag. 3
14
delle nazionalità oppresse), che per quanto riguarda la difesa delle ragioni
dell’intervento nella grande guerra. Era al partito socialista, al partito popolare ed a
Giovanni Giolitti che Mussolini si rivolgeva quando parlava di “partiti e candidati
che la guerra hanno avversato”; e questi stessi erano stati i bersagli contro cui più
frequentemente il “Corriere della sera” aveva lanciato i suoi strali, fin dal 1915
19
,
nell’ambito della contrapposizione tra interventisti e neutralisti. Questa
contrapposizione non aveva fatto altro che acuire le ragioni di fondo del dissenso
del liberale Luigi Albertini nei confronti degli scenari bolscevichi auspicati dai
socialisti, del clericalismo dei popolari e della politica clientelare e protezionistica
praticata dallo statista di Dronero nei suoi anni di governo. Ma il programma
elaborato da Benito Mussolini comprendeva anche altri elementi che non potevano
definirsi che socialisteggianti; nel suo discorso tra le altre cose il capo fascista disse :
“ Il controllo sulle industrie? Noi lo appoggeremo, anche perché vogliamo abituare le classi
operaie alla capacità direttiva delle aziende, anche per convincere gli operai che non è facile
mandare avanti un’industria o un commercio”
20
. Anche l’abolizione del Senato, il
suffragio universale (anche femminile) con rappresentanza proporzionale e la
concezione repubblicana erano richieste piuttosto indigeste per i moderati di allora.
E un altro dei fondatori dei Fasci di Combattimento, Michele Bianchi, uno dei futuri
quadrunviri della marcia su Roma, annotò questo sbilanciamento a sinistra degli
oratori che l’avevano preceduto, Mussolini compreso, con queste parole: “A me
sembra che essi, in confronto del Partito socialista ufficiale, facciano a chi corre di più nel
largheggiare con promesse che sarà difficile mantenere”
21
Il 2 aprile si svolse, a Milano, una nuova riunione del Fascio di combattimento alla
quale intervennero anche i rappresentanti di organizzazioni consorelle nate in altre
parti del nord Italia e più precisamente in Piemonte, Liguria e Veneto. L’articolo che
ne riferì, apparso il giorno successivo sul “Corriere milanese” (la parte del giornale
dedicata alla cronaca locale), sottolineò il carattere antibolscevico che animava i
fasci:
19
In realtà il Partito Popolare nacque nel gennaio 1919, ma molti dei suoi esponenti si erano schierati, nel 1915, tra le file
dei neutralisti
20
R.De Felice , op. cit.”, p. 508
21
Idem, p. 509
15
Nel salone di via San Paolo 10 si è tenuta un’affollata adunanza del Fascio milanese
di combattimento sorto per opporre un programma di azione alla propaganda e alle
minacce leniniste...
22
Ancora più interessante è la parte dell’articolo che si occupa delle dichiarazioni
programmatiche fasciste:
Si passò poi alla discussione del programma e l’assemblea escluse una precisa
pregiudiziale politica, riconoscendo tuttavia necessario dichiarare che
l’organizzazione non sarà di conservazione delle vecchie classi e dei vecchi privilegi.
Essa si propone un programma di realizzazione, tale cioè da poter essere modificato
da fatti nuovi e da nuove situazioni che si venissero creando.
23
Sono chiare fin da queste righe le direttive che avrebbero guidato l’azione fascista
nei mesi successivi e cioè il perseguimento di una politica pragmatica e non
imbrigliata da incrostazioni ideologiche e che, pur muovendosi nell’ambito
dell’interventismo di sinistra, non poneva pregiudiziali a nessun soggetto che avesse
voluto percorrere con i Fasci un cammino politico. Questa strategia politica era
diametralmente opposta a quella dei partiti di massa, i quali ponevano al centro
della loro azione un programma preciso sul quale chiedevano il consenso agli
elettori e sul quale basavano poi le loro politiche di governo o di opposizione, a
seconda dei casi. Era, secondo quanto lo stesso Mussolini avrebbe avuto modo di
dire in numerosi discorsi, l’opposizione di una politica dell’agire secondo il contesto
in cui ci si trova ad operare ad una politica delle pregiudiziali ideologiche.
Ma da un punto di vista critico, questa concezione può essere interpretata come il
tentativo di tenere aperte quante più porte possibili ad un movimento appena nato e
non ancora abbastanza forte da poter camminare da solo. Un movimento, quello
fascista, che cercava di pescare i suoi aderenti principalmente nella galassia
eterogenea dell’interventismo di sinistra, ma che non rifiutava l’adesione di
elementi nazionalisti
24
. Più di ogni altra cosa esso sembrava essere nato per cercare
22
“Corriere della Sera”, 3 aprile 1919, p. 4
23
“Corriere della Sera”, 3 aprile 1919, pag. 4
24
Alla loro nascita, i Fasci di combattimento permisero la doppia iscrizione, in pratica chi era iscritto ad altri partiti o
movimenti politici, poteva conservare questa iscrizione pur aderendo al fascismo, cfr. R. De Felice, op. cit., p. 500
16
di ottenere un’affermazione elettorale piuttosto che per elaborare una proposta
politica precisa
25
.
Il movimento fascista, in questa sua fase nascente, non fu tra i soggetti che il
“Corriere della sera” considerava rilevanti nello svolgersi della vita politica italiana.
Altri erano i protagonisti sulla scena in quel momento, innanzitutto i socialisti, i
popolari e i liberali e tra le forze emergenti spiccava l’Associazione combattenti, che
era un’organizzazione la quale aveva in dote numerosi iscritti e che rappresentava
quindi un elemento di cui non si poteva non tenere conto nell’ambito della
situazione politica. E in effetti grande spazio fu riservato al suo Congresso di giugno
in cui venne deliberata la partecipazione dell’associazione alle elezioni politiche. Ad
ulteriore conferma della scarsa considerazione riservata ai mussoliniani da parte del
giornale di Albertini, si può confrontare lo spazio riservato all’atto di fondazione dei
Fasci di combattimento, con quello dedicato alla nascita dell’Unione antibolscevica,
un movimento che in seguito non lascerà tracce; se per Mussolini e i suoi, i due
articoli sopra citati, quello del 24 marzo riguardante la fondazione e quello del 3
aprile sulla definizione del programma, non arrivano insieme a coprire più di un
quarto di colonna, l’Unione antibolscevica solo per la sua fondazione ottenne quasi
una colonna nel numero del 10 aprile.
Probabilmente in mezzo al fiorire di fasci di ogni sorta (tra gli altri il fascio di
educazione sociale , il fascio wilsoniano, il fascio dei postelegrafonici!) non si
pensava che quest’ennesima organizzazione potesse avere un ruolo importante nel
paese. Questa convinzione poteva essere suffragata, in buona parte, dal fatto che i
Fasci di combattimento avevano una tendenza a sinistra e che quindi loro
prospettive di sviluppo apparivano poco incoraggianti, essendo quello spazio
politico già saldamente occupato dal Partito socialista e dall’Unione socialista
italiana . Ed infatti nel 1919 il ruolo dei fascisti nella politica italiana sarebbe stato
marginale, come avrebbero dimostrato, tra le altre cose, i risultati delle elezioni
politiche del novembre successivo.
I Fasci di combattimento rifecero la loro comparsa sul quotidiano milanese il 17
aprile.
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Cfr. A. Tasca, op. cit. pp. 41 e sgg.