2
suo un classico principio dei Gesuiti: “Le masse non devono sapere, ma
credere!”
1
.
A partire dagli anni ’30 vengono gradualmente istituiti rituali patriottici e
commemorazioni ufficiali, oltre ad una serie di segni come il fascio littorio,
il manganello e la camicia nera. Mussolini combatte l’immagine di un’Italia
pasticciona, disordinata, inefficiente; compresa l’importanza dell’immagine,
egli pensa di costruirla attraverso l’inevitabile canale della comunicazione,
per questo si serve della propaganda. Egli dedica la maggior parte dei suoi
sforzi proprio a questo lavoro, la cui importanza considera assoluta.
1.2 INTELLETTUALI, AVANGUARDIE E FASCISMO
Ottenere il consenso è un’arte; è appunto per questo che il regime chiama
a raccolta gli artisti che via via vengono “normalizzati”, cioè inquadrati. E
una volta che un artista o uno scrittore viene inserito nell’appropriata
istituzione fascista, è relativamente libero di produrre ciò che vuole.
L’inizio del rapporto tra fascismo e cultura figurativa risale però agli inizi
degli anni ’20, cioè all’inizio della presa del potere. Agli artisti viene chiesta
una collaborazione in termini di supporto visivo ed immaginifico alla causa
del nuovo governo. In altre parole, il regime ha ben compreso che oltre al
verbo scritto, al pensiero del Duce diffuso a mezzo stampa, è altrettanto
importante per giungere a larghi strati della popolazione, ancora fortemente
sotto-letterata, l’apporto visivo, proprio per un’immediata presa anche
emotiva. Il contributo degli artisti, dei cartellonisti, dei grafici e dei
fotografi, si sostanzia quindi nella realizzazione di opere in linea con le più
recenti tendenze, e questo anche per rapportare il regime alla modernità, alla
1
Cfr. M. Cirulli, M. Scudiero, L’arte per il consenso. Dipinti, manifesti, riviste. La Grafica
s.r.l., Mori (TN), 2001.
3
contemporaneità, ma, ancora meglio, a quel futuro verso il quale è protesa
tutta l’arte d’avanguardia.
A questo proposito è opportuno accennare al rapporto della
comunicazione fascista col futurismo: da tale corrente artistico-letteraria il
fascismo prende molto, non solo in campo ideologico, ma anche in quello
della pratica. Futuristi sono gli slogans “marciare non marcire” e “guerra
sola igiene del mondo” che il fascismo fa propri. Dal futurismo il fascismo
mutua anche forme di comportamento, tuttavia tra le due correnti non si può
stabilire una vera e propria identità. Nel 1918 i futuristi fondano il Partito
Politico Futurista e si schierano a fianco dei Fasci, anche se in posizione
autonoma, spesso precorrendone le posizioni. Molti futuristi partecipano ad
azioni squadriste e alcuni loro fogli, “Roma futurista”, “I nemici d’Italia”,
“Testa di ferro”, sostengono il movimento di Mussolini.
I futuristi escono dai Fasci nel 1920 per diversi motivi: molti aderenti al
movimento scompaiono o si mettono comunque in disparte durante la
Grande Guerra, i futuristi aderenti al fascismo o loro fiancheggiatori,
quando si rendono conto che in taluni punti i programmi non combaciano, si
ritirano, inoltre molti di loro non si sono mai iscritti ai Fasci, o assumono
nel periodo fascista una parte secondaria. A dimostrazione di ciò, il 29
Maggio 1920 si legge in “Futurismo e Fascismo” (1924) al capitolo “I
futuristi nella lotta fascista”: <<Marinetti e alcuni capi futuristi escono dai
Fasci di Combattimento non avendo potuto imporre alla maggioranza
fascista la loro tendenza antimonarchica e anticlericale>>.
I futuristi si riavvicinano al regime solo dopo il 1926, mentre
quest’ultimo finisce con l’assorbirne i militanti neutralizzandoli o
mettendoli ai margini. Balla, Depero, Tato, Thayaht e Forlin dipingono e
scolpiscono il Duce, le squadre d’azione e i legionari. Marinetti può quindi
affermare a buon diritto che: “Il fascismo nato dall’interventismo e dal
4
Futurismo si nutre di principi futuristi”
2
. Ma soprattutto dopo la svolta dei
Patti Lateranensi e la ripresa dei miti della “Romanità”, i futuristi sono
messi in disparte, se non proprio invisi, dal Fascismo ufficiale e Mussolini
nominando Marinetti Accademico d’Italia, neutralizza la spinta modernista
del movimento futurista
3
.
Spesso si richiama l’articolo di Ardengo Soffici, intitolato “Il fascismo e
l’arte” che nell’Ottobre del 1922 la rivista di Mussolini, “Gerarchia”,
pubblica e che rappresenta il primo precoce intervento di politica culturale
del fascismo. E’ poi nella seconda metà degli anni ’20 che la politica
artistica del regime si viene definendo con maggior precisione. Si ha così
una svolta nella cultura fotografica italiana, almeno per ciò che riguarda i
grandi studi legati alle pubbliche committenze, ma progressivamente anche
nei piccoli studi. Tale svolta indica l’imporsi di un modello retoricamente
diverso, che porta alla riorganizzazione del sistema delle precedenti
esperienze culturali, per rendersi funzionale all’organizzazione del
consenso.
E’ il caso di richiamare l’interesse che il futurismo mostra anche per la
fotografia: la fotodinamica con cui Anton Giulio Bragaglia teorizza la
fotografia del movimento, si trasferisce nel “Manifesto della fotografia
futurista” del 1930 a firma di Tato e Marinetti, apparso nella rivista “Il
Futurismo”. Già Bragaglia ha dato esempi di fotografia del movimento nel
“Falegname che sega”, “Uomo che cammina”, “Lo schiaffo” etc…, opere in
cui la traiettoria del gesto dovrebbe rappresentare il movimento (pubblicate
nel suo libro “Fotodinamica futurista”). Il manifesto di Tato e Marinetti, che
giunge circa 15 anni dopo, conferma certe costanti futuriste:
compenetrazione d’oggetti, trasparenze… fino al procedimento del
2
T. Marinetti, Futurismo e Fascismo, in La Civiltà Fascista, Utet, Torino,1928, p.173.
3
Cfr. M. Verdone, Che cosa è il Futurismo, Casa Editrice Astrolabio- Ubaldini Editore,
Roma, 1970.
5
montaggio, tecnica che d’altro canto ritorna in ogni attività espressiva
futurista.
A questo punto vale però la pena di definire i termini del problema con le
parole di A.C. Quintavalle che ha inquadrato così i vari aspetti della
questione del rapporto tra fascismo e fotografia: <<Le analisi delle
immagini della cultura del tempo fascista sono state portate avanti da diversi
autori in generale nella prospettiva della negazione, nell’ottica del rifiuto.
Ma anche se il rifiuto deve volere dire indagine sugli strumenti di questa
retorica della persuasione, certamente efficace, come i fatti hanno
confermato, tale indagine non risulta essere stata ancora condotta a fondo.
Non lo è stata nei manifesti, per cui la costruzione del rapporto tra manifesto
e pubblico nel periodo fascista, la differente funzione della pubblicità da
quella della persuasione politica, risulta data per scontata a livello di
contenuti mentre non viene costruito un discorso sugli strumenti attraverso i
quali questa differenza contenutistica si evidenzia… Di fronte a queste
difficoltà di una lettura corretta dei problemi non dovremo limitarci alla
costruzione pura e semplice del discorso fotografico, chiudendo dunque la
fotografia nel suo sistema di scrittura, nelle sue tecniche, ma dovremo
allargare l’analisi ad altri ambiti. Per comprendere la funzione nuova che
viene attribuita alla fotografia del regime fascista, si deve compiere
un’operazione strutturale, un taglio orizzontale nel sistema della
comunicazione, integrazione e reciproco chiarimento dei differenti strumenti
linguistici, dalla radio al film, dalla fotografia al manifesto, alla cartolina
illustrata, all’immagine sulle pagine dei settimanali di grande diffusione
come “La Domenica del Corriere” e “La Tribuna Illustrata”>>
4
. Si intende
collocare questo lavoro all’interno di tale problematica presentando,
ovviamente dal versante della fotografia, un contributo documentario
4
A.C. Quintavalle, Messa a fuoco. Feltrinelli, Milano, 1983, p.68-69.
6
attraverso un corpus di immagini le quali, benché desunte dalla cultura di
provincia, appaiono fortemente indicative.
1.3 IL FASCISMO PREDILIGE IL LINGUAGGIO DEL REALISMO
FOTOGRAFICO
Riandando rapidamente alla vicenda della diffusione dell’immagine
fotografica, fino a diventare il più popolare strumento della comunicazione,
è utile ricordare che il primo modo che la storia ha usato per rendere
funzionale la fotografia al sistema, è stato la carte de visite ‘ottocentesca:
essa ha permesso le prime diffusioni a livello popolare delle immagini di
famiglie reali o personalità celebri. In Italia illustrazione satirica e
settimanali illustrati quali “La tribuna illustrata” e “La Domenica del
corriere”, dal 1918 al 1924 offrono una ricostruzione narrativa e mitizzante
delle vicende che raccontano, usano uno stile realista e descrittivo, una
mimica accentuata ed espressa concentrando l’immagine in un momento di
sintesi dell’episodio. La cartolina si va trasformando da souvenir di viaggio
a strumento di penetrazione nell’universo dell’immagine familiare
5
. In realtà
all’inizio il regime non adotta una politica unitaria per le sue immagini:
alcune sono di derivazione cinematografica, altre utilizzano l’iconografia
religiosa, altre la tradizione preraffaellita, altre ancora fanno ricorso a
forzature grafiche. Certe fotografie vanno inserite nel contesto
dell’immagine ufficiale aulica del regime e sono quindi costruite con una
lingua più colta e raffinata, altre invece, dirette ad altre classi sociali,
sfruttano tradizioni d’immagine diverse.
Sicuramente si può parlare di legame in sequenza delle immagini anche
per le cartoline e questo le collega al fumetto e al racconto, nonché al
5
Cfr. A.C. Quintavalle, La morte di Sigfrido. In: G. Vittori, C’era una volta il Duce. Il
regime in cartolina. Savelli, Roma, 1975.
7
manifesto e all’illustrazione dei volumi che hanno sempre carattere
sequenziale e scopo narrativo. Lo stile fotografico collega in sequenza vari
pezzi anche attraverso l’uso del fotomontaggio: questa tecnica riprende i
manifesti del costruttivismo russo di El Lissitzky e le creazioni dada di
Heartfield, anche se il regime cerca di esorcizzare con ogni mezzo i tentativi
di mettere in rapporto diretto le realizzazioni italiane con quelle
avanguardiste
6
. In questo modo si stabilisce nelle immagini una retorica
gestuale disponibile ad essere resa in più stili e tra questi prevale il
realistico. Così cartoline e fotografie diventano uno strumento funzionale
alla propaganda delle idee del regime e vengono pianificate come una
sequenza e come un sistema.
Nel corso degli anni ’30 prende forma la politica dell’immagine, quando
cioè la ricerca del consenso diviene il fulcro centrale della politica del
fascismo; si assiste così all’unificazione dei modelli di costruzione del
racconto per icona. La programmazione del regime coordina l’intero
insieme dei media e stabilisce che un certo tipo di scritture scelte tra le altre
è quello che deve farsi portatore dell’immagine stessa del fascismo. La
principale azione di Mussolini dal punto di vista della comunicazione,
consiste nell’attivare una vasta parte della popolazione, la maggior parte.
Egli vede gli italiani come consumatori politici, così il fascismo non si
rivolge all’individuo in quanto persona, ma all’individuo in quanto
cittadino. Si fa così appello alle varie forme dell’immagine di massa.
L’immagine rurale diventa protagonista perché è immediatamente
percepibile e la si trova sui francobolli, nei film dell’Istituto LUCE, nella
6
Alcune citazioni relative alla cultura del fotomontaggio, dai dadaisti come Heartfield e
Hannah Hoch, all’avanguardia russa dei fotofregi di El Lissitzky, compaiono nelle mostre
fotografiche del regime, ma per cancellare ognuno di questi possibili riferimenti, il termine
fotomontaggio viene eliminato dalle recensioni e dai cataloghi e sostituito col termine
fotomosaico, probabilmente più coerente con la ricerca di una tradizione artistica italiana.
(Cfr. A. Russo, Il fascismo in mostra. Editori Riuniti, Roma, 1999).
8
letteratura infantile e nel fumetto
7
. Anche il tema della Romanità si fa
ricorrente: fasci, aquile romane e lupe occupano illustrazioni infantili, opere
architettoniche e ancora una volta i francobolli.
1.4 CONTENUTI, MODELLI E FINALITA’ DELLA FOTOGRAFIA
FASCISTA
Negli stessi anni anche le mostre d’arte e quelle fotografiche entrano a
far parte di questa politica, trasformandosi in eventi culturali e occasioni
celebrative del regime. Soprattutto le mostre fotografiche, organizzate in
musei o padiglioni espositivi, diventano un importante tassello della
strategia del consenso del fascismo, che le utilizza soprattutto per celebrare
la propria storia
8
. Queste mostre non sono più destinate ad un pubblico
elitario, ma diventano riti programmati per attirare milioni di visitatori
9
.
Non è difficile indurre che lo sviluppo delle mostre fotografiche, e
comunque la preferenza accordata a questo tipo di immagine, si debba alla
facilità di un tale strumento comunicativo. Popolare e al tempo stesso
documento culturale a futura memoria, la fotografia fissa i momenti della
vita nazionale, ma definisce anche i modelli del comportamento che il
regime intende imporre. Non si tratta di una persuasione “occulta”, ma di un
diretto tramite che tiene il luogo della persuasione scolastica o comunque
7
Il vecchio universo contadino diventa un modello da seguire e viene reso familiare dalle
immagini di massa veicolate soprattutto dai film LUCE. Il tema rurale si diffonde presso
nuovi destinatari sociali come il pubblico femminile. La massaia rurale diventa la
protagonista di tutti i giornali dedicati al pubblico contadino.
8
Le maggiori mostre fotografiche organizzate dal regime sono: la Mostra della Rivoluzione
Fascista del 1932, dello stesso anno la Prima Mostra Nazionale delle Bonifiche, la Mostra
Nazionale dello Sport del1935 e la Mostra Autarchica del Minerale Italiano del 1938. (Cfr.
A. Russo, Il fascismo in mostra…cit.).
9
La Mostra della Rivoluzione Fascista per la grande affluenza di pubblico rimase aperta
per due anni consecutivi presso il Palazzo dell’Esposizione a Roma, poi fu spostata presso
la Galleria d’arte moderna in Valle Giulia e qui inaugurata una seconda volta nel 1937,
9
verbale. La fotografia dunque finisce per diventare l’elemento centrale della
politica di propaganda che sta alla base delle mostre organizzate dal regime,
inoltre fornisce materiale per documentare elogiativamente la storia fascista;
essendo il mezzo principale di riproduzione dell’immagine nell’era
moderna, essa serve, secondo gli orientamenti di quella politica, a
dimostrare come il fascismo sia al passo coi tempi.
Non a caso la Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932, la prima
organizzata dal regime, è esclusivamente fotografica e progettata in modo
da ottenere il maggior impatto possibile sui visitatori. Essa sancisce
l’affermazione di una serie di valori e dei relativi stilemi: monumentalismo
romano, lettering cubitale ed architettonico, effetti scenografici, colorismo
rude e segno rozzo, ritenuto significativamente virile. L’educazione iconica
così veicolata ha naturalmente il suo connotato di verità e di artificio
insieme: la scelta della posa, il taglio della ripresa, le tecniche di sviluppo,
sono tali da realizzare sempre immagini accattivanti di un comportamento
possibile o desiderabile. E’ il caso delle fotografie a carattere militare o di
soggetto sportivo, intese soprattutto a richiamare l’interesse della gioventù.
L’unità culturale fascista si inserisce in un comune sistema di retorica che
ha un suo codice che comprende: l'utilizzo delle vedute assiali e chiuse, la
massima evidenza data alla centralità, la retorica degli scorci e del
monumentale con una netta diminuzione del rilievo dell’individuo se non è
protagonista, l’utilizzo di un genere di stampa molto attento ai passaggi di
grigi e quindi che sfrutta la gamma delle trasparenze con progressivo
abbandono di ogni genere di contrasti. Rispetto ai codici fotografici dei
periodi precedenti si abbandonano: i viraggi, le stampe con tecniche diverse
da quelle ufficializzate delle trasparenze, le cornici legate alla tradizione
pittorica, le scritture fotografiche legate sempre al pittorialismo.
venne poi chiusa nel 1938 e divenne un archivio permanente per volere dello stesso
Mussolini. (Cfr. A. Russo, Il fascismo in mostra…cit.).
10
Queste tecniche e questi connotati stilistici sono ancora utilizzati nel
fotomontaggio, ampiamente utilizzato con scopi di comunicazione
propagandistica. Con tale termine si intende la combinazione di diversi
frammenti fotografici tra loro; l’ingresso del procedimento nell’ambito
dell’Avanguardia risale agli ultimi anni della Grande Guerra, ma sembra che
a scoprirne per primi le potenzialità siano stati Hannah Hoch e Raoul
Hausmann del gruppo dada di Berlino. In realtà anche Grosz e Heartfield
rivendicano il merito di questa invenzione; tuttavia il fotomontaggio non ha
una circolazione apprezzabile fino alla sua consacrazione ufficiale che
avviene alla Fiera Internazionale Dada di Berlino del 1920. La tecnica viene
poi adottata dai costruttivisti russi che ne comprendono da subito le enormi
potenzialità soprattutto nel campo della comunicazione della propaganda: El
Lissitskij e Rodcenko creano manifesti combinando elementi fotografici con
schemi compositivi geometrici di ascendenza suprematista e tali
realizzazioni uniscono il pregio dell’immediata leggibilità a una
impersonalità che sancisce l’inutilità del tocco personale nell’arte della
nuova società. Il montaggio di immagini viene destinato così a sostituire la
parola in una forma di comunicazione essenzialmente visiva: una specie di
moderna Biblia pauperum. E’ proprio questo l’utilizzo che ne fa anche la
propaganda fascista, visto che col fotomontaggio si accentua l’elemento
d’artificio e la strumentalità nell’uso delle immagini: ingrandimenti
fotografici si mescolano a scritte e ad inserti in rilievo
10
. Un esempio è
costituito dall’intervento di Terragni nella sala O alla mostra della
Rivoluzione Fascista: in essa la fotografia risulta l’elemento strutturante,
l’architetto ha ideato un allestimento assolutamente inedito, basato su
fotomosaici o fotomurali, enormi fotomontaggi a tutta parete che
interpretano gli episodi salienti dell’anno 1922. La sala rappresenta una
svolta nel movimento fascista e il culmine delle sue azioni di massa per
10
Cfr. P. De Vecchi, E. Cerchiari, Arte nel tempo. Dal Postimpressionismo al
Postmoderno. Secondo tomo. Bompiani, Milano, 1994.
11
l’assalto al governo e la presa del potere, ma rappresenta anche la summa
dell’architettura d’avanguardia e la sintesi fascista di architettura e
fotografia. Per questa sezione Terragni ha creato un’architettura
multidimensionale fatta di giustapposizioni audaci con fotomontaggi,
elementi plastici e soggetti tridimensionali montati su una stessa parete,
contrapponendo molteplici dimensioni e punti di vista, suggerendo la
percezione dello svolgersi precipitoso degli eventi e l’irrompere delle masse
fasciste sulla scena politica. “L’architettura in tumulto dà la sensazione che
le pareti siano sul punto di esplodere lasciando straripare la fiumana di folle
rappresentata nei fotomontaggi riprodotti a tutta parete”
11
.
Un contributo importante alle ricerche fotografiche viene dato anche dal
Futurismo: l’11 Aprile 1930 Tato e Marinetti firmano il Manifesto della
fotografia futurista, nella rivista “Il Futurismo”. Esso conferma certe
costanti tipiche del movimento: vi torna il dramma degli oggetti, attuato nel
teatro e nel cinema e vi si aggiunge il dramma delle ombre creato dalla luce.
Si teorizza il camuffamento dell’oggetto a scopi per lo più satirico-polemici,
si intravedono nuove possibilità creative nella spettralizzazione,
nell’inclinazione, nella compenetrazione, nella sovrapposizione, nella
sproporzione, nella fusione, nella trasparenza del corpo opaco.
Altro contributo alla politica del regime è fornito a livello fotografico
dall’Istituto LUCE: questo ente, creato nel 1924 e posto prima alle
dipendenze dell’Ufficio Stampa e dal 1937 a quelle del Ministero della
Cultura Popolare, conosciuto per i film documentari, didattici o di
propaganda e per i suoi cinegiornali, diffusi nelle sale cinematografiche di
tutto il paese, in realtà svolge anche un servizio fotografico di primaria
importanza, che oggi costituisce una fonte primaria di ricerca, avendo
fissato i vari aspetti dell’immagine del regime in migliaia di scatti. Gli autori
di queste fotografie superano le pretese di una fotografia artistica e anche la
11
L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine. Bollati Boringhieri, Torino, 1988, p.165.
12
casualità della tradizionale fotografia giornalistica italiana: non è loro
richiesto che qualcuno emerga sugli altri o svolga ricerche personali, non
devono offrire i loro servizi fotografici ai giornali, né sostenere la
concorrenza; devono al contrario evitare fastidi, dato che le loro fotografie
sono costrette a passare attraverso una attentissima censura. Offrono dunque
un lavoro medio e presentano un’immagine media della nazione come è e
come si vuole che appaia, senza particolari preoccupazioni formalistiche.
“Una refezione, una mensa, un corso professionale, piccole ed isolate cose
di fronte ai bisogni del paese, appaiono come eventi del tutto normali, più
frequenti di quanto siano in realtà. Nessuno di questi fotografi, ha pretese
artistiche o letterarie, nessuno ha titoli di studio da vantare o contatti con
artisti o architetti”
12
.
1.5 MANIFESTO, FOTOGRAFIA E RETORICA VISUALE
Ad influenzare la forma e la tecnica della fotografia contribuiscono anche
le forme e i ricorsi linguistici del linguaggio del manifesto che, tra
invenzione pittorica e montaggio fotografico riunisce gli stilemi
dell’immagine fascista. A proposito del manifesto, così leggiamo in A.C.
Quintavalle: <<Gli autori del manifesto recuperano gli stilemi, i modelli
della costruzione narrativa di una lingua, il realismo, per diverse strade assai
divulgata e largamente compresa… La scrittura del manifesto doveva essere
necessariamente quella realistica, dunque con chiaroscuri, con le figure
perfettamente rappresentate, ma non era necessario mantenere la
convenzione delle proporzioni e dei rapporti come nelle tavole di Beltrame e
degli altri illustratori dei settimanali, si doveva pure costruire uno stacco, tra
l’insieme del racconto e alcune figure mitiche, come il Duce, alcuni segni
12
C. Bertelli, G. Bollati, L’immagine fotografica, in Storia d’Italia, Annali 2. Einaudi,
Torino, 1978, p. 177.
13
come fasci, date storiche ecc… Per la figura del Duce lo stacco del volto era
evidentemente assunto molte volte dagli aborriti rivoluzionari russi, come
Klutsis o Rodcenko, ma questo i retori del regime non lo sapevano o non
interessava affatto; per le date, per le scritte, per il lettering, come oggi si
direbbe, si prendevano a matrice le invenzioni della cultura post-Bauhaus
dei nostri architetti razionalisti “comaschi”e, a volte, anche dei futuristi. Ma
il prodotto finale del manifesto in epoca fascista era diverso, era un pastiche,
a volte molto efficace. La retorica dei manifesti, con le figure mitiche
enormi, con la massa simbolicamente sottoposta, con gli scorci dei fasci e
delle scritte chiaroscurate e, a volte, rappresentate come volume, tutto
conduceva verso una strada del tutto diversa, tutto portava ad intendere il
manifesto come strumento di una nuova, di una diversa retorica>>
13
.
Negli anni ’30 si assiste così ad una vera e propria esplosione di
manifesti e cartoline, ad una rivalsa del linguaggio figurativo ed iconico su
quello verbale ed orale. L’arte a destinazione pubblica per eccellenza
diventa l’arte murale; gli artisti sono chiamati a ricoprire le ampie pareti
degli edifici pubblici del regime, che richiede loro: purezza di forme,
soggetti ampli, larga visione, dove la semplicità elementare dei mezzi
adoperati concorre a rendere palpabile il concetto
14
. Le strade della città
sono considerate come delle vere e proprie gallerie d’arte all’aperto,
un’occasione per portare l’arte nella vita.
Al centro però di una operazione propagandistica di ampiezza e
capillarità senza precedenti, viene posta l’immagine del Duce
15
. L’uomo
Mussolini carica di un fortissimo segno personale la propaganda fascista, si
13
A.C. Quintavalle, Messa a fuoco… cit., p.70-71.
14
Cfr. L. Malvano, Fascismo e… cit.
15
I tratti consueti come la mascella prominente e la testa fissa sul collo, vengono integrati
da una gestualità rituale che spesso accompagna i momenti più enfatici dei suoi discorsi alle
folle, trasmessi alla radio attraverso la sua inconfondibile voce tonante. Viene rappresentato
in moltissimi modi, paterno quando visita i feriti negli ospedali, impettito e serioso nei suoi
incontri col Fuhrer, prima di tutto cittadino della sua nazione quando viene immortalato
mentre lavora nei campi, atleta provetto mentre nuota o cavalca. (Cfr. A.C. Quintavalle,
Messa a fuoco…cit.).
14
pone come personaggio autonomo e protagonista assoluto, getta una lunga
ombra sul movimento fascista finendo per oscurarlo completamente. Dalla
fine degli anni ’20 non vuole essere definito altro che Duce e viene
considerato come l’uomo della provvidenza, il salvatore della patria, al di
sopra delle fazioni e disumane disonestà. Mussolini trova nel mito romano e
nel cesarismo, un contenuto solido e facilmente trasmissibile per la sua
propaganda; i giornali italiani si riempiono di foto del Duce che cavalca,
nuota, scia, tira di scherma, pilota aeroplani, guida la moto, dirige le
manovre militari e conduce l’auto da sé.
Nella trasmissione dei messaggi del fascismo, l’aspetto visuale assume
tale importanza, da portare ad una vera e propria forma di riduzione ad
immagine del linguaggio scritto. Conferire alla grafica connotati visivi di
facile presa sul destinatario è un impegno degli artisti al servizio del regime,
artisti che dimostrano di aver anticipato la funzione comunicativa della
grafica stessa. Poiché le scritte non sono più dunque solo parole ma anche
immagini, si vedono le scritte mutare stile a seconda della loro destinazione,
oppure combinarsi con stilizzati riferimenti iconici capaci di raggiungere
direttamente il pubblico. Perciò la stessa scritta DUX, sempre nelle forme di
una grafica potente e acuminata, a volte assume un’intonazione militare con
un elmetto che sovrasta le tre lettere, oppure si specializza in un accenno di
vanga e di
spiga, quando si dirige al mondo contadino.La grafica del fascismo è
costantemente caratterizzata da linee ingrossate e terminazioni appuntite, ma
molte sono le varianti, a seconda che la scritta sia riportata sui muri esterni
di una casa di campagna o nell’atrio di una scuola o riprodotta sulla pagella
scolastica. In campo grafico l’onnipresente termine latino DUX costituisce
la visualizzazione di pochi e semplici segni che rinviano al referente per un
elementare riflesso della percezione visuale. Spesso questo termine viene
riprodotto in immagini anche attraverso coreografiche composizioni di corpi
15
umani, come anche si vede nel corpus fotografico oggetto del presente
lavoro
16
.
Il successo di tale azione politico educativa è dovuto alla corrispondenza
dei miti di cui il fascismo si è fatto portatore, con la sensibilità e la cultura
della massa, i suoi problemi, le aspirazioni, i timori e le reazioni di fronte al
mutamento delle situazioni e della realtà. “Il meccanismo del consenso
comincerà però a venire meno quando i miti, fino ad allora percepiti dalle
masse, entreranno in crisi e quelli nuovi prospettati dal regime, non
troveranno più una vera corrispondenza ed echi profondi nella loro
cultura”
17
. Inoltre con la conclusione della guerra d’Etiopia il Duce
comincia a disinteressarsi della vita quotidiana e del quotidiano contatto coi
suoi “consumatori”, da allora “il suo interesse si accentra sempre di più sulle
questioni di ordine generale e soprattutto sulla politica estera. Gli affari
quotidiani, la politica interna in particolare perdono via via per lui sempre
più interesse”
18
. De Felice e molti altri storici affermano che da quel
momento comincia a declinare la stella del Duce nel cuore degli italiani.
CAP. 2 SPORT E FASCISMO
2.1 LA POLITICA NELLO SPORT
In Italia lo sport tarda ad affermarsi, rispetto a paesi più evoluti non
riesce ad imporsi subito come un fatto di costume in un paese con enormi
problemi da risolvere. Manca, come presupposto essenziale di una
diffusione su larga scala della pratica sportiva, quella disponibilità di masse
16
Queste rappresentazioni realizzate dai bambini vengono organizzate in occasione di visite
del Duce oppure di colonie estive, ottengono notevole successo a giudicare dalle numerose
fotografie esistenti su tali pratiche.
17
R. De Felice, L. Goglia, Storia fotografica del fascismo. Laterza, Bari, 1981, p.XII.
18
G. P. Ceserani, Vetrina del Ventennio. 1923-43. Laterza, Bari, 1981, p.23.
16
proletarie urbanizzate che contraddistingue altre nazioni, come l’Inghilterra.
Lo sport è più che mai una pratica di èlite che vede impegnati aristocratici
annoiati o borghesi anglofili.
Gli anni che precedono la Grande Guerra mettono il nascente
imperialismo industriale italiano di fronte al problema di curare la
preparazione fisica del proletariato, per aumentare i profitti e formare grandi
eserciti nazionali. A fatica, giovandosi del miglioramento delle condizioni
economiche e sociali, lo sport italiano entra in una dimensione europea. Il
diffondersi delle specialità più popolari, calcio e ciclismo, allarga la base dei
praticanti favorendo forme di professionismo larvato e disperato allo stesso
tempo. Lo sport diventa così un fatto di costume scoperto anche dal mondo
della cultura, tanto che Marinetti, auspica nel programma politico futurista
del 1913 il “predominio della ginnastica sul libro”
1
.
Il governo fascista dal canto suo dedica fin dall’inizio tanta attenzione al
settore sportivo perché la cura della salute fisica consente di controllare
strettamente le giovani generazioni, lo sport canalizza le situazioni
conflittuali e funge da valvola di sfogo per le frustrazioni, oltre a favorire
l’istinto combattivo. Nel 1925 il consiglio direttivo del Comitato Olimpico
Nazionale Italiano (CONI) elegge quale uomo di punta dell’ideologia
sportiva fascista Lando Ferretti e due anni più tardi, su ogni insegna o
vessillo di tutte le associazioni sportive italiane, allo scudo sabaudo viene
aggiunto il fascio littorio. “Come tramite fra il CONI e la direzione del
partito e questo e le Federazioni provinciali fasciste, viene istituito un
Ufficio Sportivo, mentre perifericamente sorgono con compiti politici,
propagandistici, organizzativi e finanziari gli Enti Sportivi Provinciali
Fascisti”
2
.
1
F. T. Marinetti, Futurismo e fascismo, in La Civiltà Fascista. Utet, Torino, 1928, p. 173.
2
A. Parboni, L’organizzazione sportiva fascista, in L’Italia turistica e sportiva. Aesti,
Firenze, 1930, p.695.