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elettrofisiologiche e radiologiche. Tali tecniche hanno permesso di correlare aspetti
psicopatologici ed anomali assetti cognitivi a modificazioni anatomo-funzionali del
cervello.
Gli scopi e le indicazioni più comuni per la valutazione neuropsicologica sono:
⌢ Identificare deficit cognitivi
⌢ Differenziare depressione e demenza
⌢ Determinare e seguire il decorso di una malattia
⌢ Valutare gli effetti di sostanze neurotossiche
⌢ Valutare gli effetti dei trattamenti
⌢ Valutare i disturbi dell’apprendimento
Nel corso del lavoro verranno descritte le principali applicazioni della Neuropsicologia
in Psichiatria, ed in particolare nei DCA (Disturbi della Condotta Alimentare). Vengono
inoltre presi in considerazione alcuni aspetti psicopatologici peculiari dei DCA, come ad
esempio l’alterazione dell’Immagine Corporea.
Infine vengono descritti casistica, metodi e procedure dello studio condotto sugli aspetti
neuropsicologici dell’Anoressia Nervosa.
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2. La neuropsicologia e le sue aree di ricerca
2.1 Cenni storici
La neuropsicologia è quella disciplina che utilizza mezzi sperimentali per studiare uno
dei più antichi e fondamentali problemi scientifici: il rapporto tra mente e cervello.
Essa ha come obiettivo il valutare quali effetti abbiano sulle funzioni superiori le
alterazioni cerebrali.
Si tratta quindi di una scienza eminentemente interdisciplinare, ad essa concorrono
infatti: neurologia, neuroanatomia, neurofisiologia, neurochimica, psicologia,
psichiatria, linguistica ed intelligenza artificiale.
È difficile indicare una data di inizio di questa disciplina; sicuramente non si può non
considerare Cartesio come uno dei padri fondatori, sebbene a sua insaputa, della
neuropsicologia: egli infatti per la prima volta parlando di sistema nervoso indicò la
presenza di due livelli, uno superiore (assimilabile al cervello) che riceve stimoli
sensoriali e che produce risposte motorie solo in seguito all’attivazione della mente, ed
uno inferiore (assimilabile al midollo spinale) sede di una trasformazione sensorio-
motoria diretta e meccanica, il cosidetto livello dei riflessi (fig.1).
SENSORIO MOTORIO
CERVELLO
MIDOLLO SPINALE
MENTE
STIMOLI
ESTERNI
RISPOSTE
MOTORIE
Fig. 1 Rappresentazione della concezione cartesiana del SNC.
7
Quindi il cervello è sede della mente ed anche il tramite tra stimoli sensoriali e comandi
motori volontari: allora esso va inteso come una struttura omogenea oppure la
dicotomia tra funzioni neurologiche e psichiche implica una disomogeneicità a livello
anatomo-funzionale?
Inoltre ammettendo che vi siano aree corticali deputate alla ricezione di stimoli
sensoriali ed altre efferenti, la restante parte del cervello è omogenea o a sua volta
divisibile in aree con specifiche funzioni?
Una risposta scientificamente soddisfacente a queste domande viene data nel periodo
che va dal 1860 al 1900, che è il periodo delle grandi scoperte neurologiche: in questi
quarant’anni vengono poste le basi empiriche e concettuali della neuropsicologia.
Tra gli studi più importanti ricordiamo quelli di Broca [1861a, 1863, 1865], che
dimostra una correlazione tra disturbi motori del linguaggio e lesioni delle regioni
frontali di sinistra, Wernicke [1874, 1895], che localizza l’afasia sensoriale nella parte
posteriore della circonvoluzione temporale superiore di sinistra, Lichtheim [1885], che
propone lo schema anatomo-funzionale dei centri del linguaggio che costituirà la base
della classificazione delle afasie fino ai giorni nostri, Bianchi [1895], Liepmann [1900]:
in queste ricerche ed altre vengono messe in evidenza aree cerebrali deputate a specifici
compiti sensorio-motori e la conoscenza anatomo-funzionale del SNC fa dei notevoli
passi avanti.
Un periodo di stasi concettuale nella ricerca neuropsicologica fu il cinquantennio
successivo in cui gli studi di Watson [1914], Pavlov [1927], Thorndike [1932], portano
ad un clima “antimentalistico”, in cui concetti quali mente, coscienza ed attenzione
venivano messi da parte e la maggioranza dei processi mentali veniva spiegata in
termini di “rinforzo” di vie nervose preesistenti.
Nel dopoguerra il clima intelletuale cambia radicalmente: Hebb [1949] e Broadbent
[1958] ridanno dignità scientifica a termini quali attenzione e set (predisposizione a
rispondere in un certo modo), Sperry [1976] riporta in primo piano il concetto di
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coscienza, gli esperimenti di Moruzzi e Magoun [1949] dimostrano che esiste un
substrato neuronale preciso per l’attenzione, mentre lo stesso Sperry ed Eccles [1986] si
occupano del rapporto mente-cervello., sia in chiave materialistica che spiritualistica.
Negli anni successivi lo studio del funzionamento del cervello evolve sino ad arrivare
alla costruzione di automi con facoltà “mentali”, passando così dall’atteggiamento
passivo dell’osservatore ad un ruolo attivo.
Sicuramente la crescita della neuropsicologia moderna come disciplina a se stante
(rispetto alla neurologia clinica) è stata favorita dal progresso delle discipline limitrofe:
basti pensare ai progressi della neurochirurgia, alle nuove metodiche radiologiche e di
immagine del cervello (TC, PET, SPECT, RM, ANGIOTC), che permettono
correlazioni anatomo-cliniche impensabili solo alcuni decenni prima, o alle avanzate
metodiche neurofisiologiche.Inoltre la psicologia offre metodiche e modelli di
complessità incomparabili rispetto ai semplici modelli mutuati dalla Psicologia
Ottocentesca.
In Italia la neuropsicologia si è sviluppata seguendo le orme dei mutamenti culturali e
scientifici internazionali, ed i continui scambi con l’estero hanno consentito la nascita di
questa disciplina che in Italia ha la particolarità di essere molto legata alla neurologia,
ma che ormai si insegna nelle facoltà di medicina, nelle scuole di specializzazione in
neurologia, fisiatria e geriatria, nei corsi di diploma universitario di logopedia e nelle
facoltà di psicologia.
Nell’ultimo trentennio la neuropsicologia ha avuto un grande sviluppo, testimoniato tra
l’altro dalla nascita di numerose riviste specialistiche dedicate a questo argomento:
Neuropsychologia (1963), Cortex (1964), Brain and Language (1974), Cognitive
Neuropsychology (1984), Brain and Cognition (1982), Aphasiology (1987), senza
contare poi lo spazio ad essa da sempre riservato sulle riviste neurologiche.
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2.2 Le aree di ricerca
Per quanto concerne le aree di ricerca la neuropsicologia si è proposta sin dai suoi
albori due scopi fondamentali: in ambito strettamente medico questa disciplina indaga le
alterazioni patologiche dei processi mentali, con intenti diagnostico-riabilitativi,
mentre nelle sue applicazioni più elevate ha da sempre avuto anche fini euristici,
avvalendosi dei pazienti in cui i processi cognitivi sono alterati da lesioni cerebrali
come di “esperimenti della natura”.
Si possono distinguere due scopi conoscitivi :
1. Lo studio della base neurale delle funzioni mentali, in cui vengono utilizzati il
metodo della correlazione anatomo-clinica, sviluppato a partire dalla prima metà
dell’Ottocento, ed i più recenti metodi di neuroimmagine funzionale ed attivazione
(TC, RM, PET).
2. Lo studio della funzione mentale in quanto tale: l’esame di pazienti con disturbi
cognitivi specifici può essere utile per elucidare le proprietà funzionali dell’attività
mentale, anche indipendentemente dai suoi correlati neurali.
2.3 I metodi
2.3.1 Metodo della correlazione anatomo-clinica
La neuropsicologia scientifica è nata nella seconda metà dell’ottocento come
neuropsicologia dell’afasia. Ricercatori come Bouillaud (1925) e poi Broca (1861,
1865) e Wernicke (1874) hanno lavorato alla localizzazione di aree deputate al
linguaggio, creando dei complessi modelli anatomo-funzionali che ancora oggi sono
validi: molto noto è quello elaborato da Lichteim [1885](Fig.2).
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ma
O
B
M
E
A
Fig. 2: Modello di Lichteim. A:centro delle immagini uditive.M:centro delle immagini
motorie.B:centro dell’elaborazione dei concetti;a:branca nervosa afferente che trasmette ad A le
impressioni acustiche; m:branca efferente verso gli organi della parola.O:centro delle immagini
visive.E:centro della scrittura.
Sulla base di questi modelli si è sviluppato, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento,
un filone di ricerca che mira a localizzare le basi neurali delle varie funzioni mentali:
nello studio delle afasie e poi in quelli successivi il metodo usato fu quello della
correlazione anatomo-clinica che procede nel modo seguente:
™ Analisi psicologica del comportamento del paziente (es.afasia)
™ Individuazione della lesione cerebrale ad esso associata
™ Inferenza che la base neurale della funzione persa è situata nell’area cerebrale lesa.
Naturalmente questo metodo classico è stato messo in crisi dalla scoperta che lesioni in
aree che non erano considerate direttamente coinvolte in specifiche funzioni, in realtà
provocavano un deficit di quelle funzioni: si ipotizzarono così delle connessioni tra le
varie cerebrali e si introdusse il concetto di diaschisi, cioè la diminuzione dell’attività di
un’area distante rispetto alla sede di una lesione a seguito dell’alterazione di circuiti
neuronali complessi.
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Un grosso passo in avanti è stato fatto grazie alle tecnologie dinamiche (PET), che
hanno dimostrato come la distruzione di una regione specifica possa determinare una
riduzione dell’attività neurale di aree distanti da quella lesa, in seguito ad una
diminuzione del flusso ematico o del metabolismo in quella sede.
La diaschisi è probabilmente determinata dalla distruzione di fibre nervose efferenti,
dirette dalla regione lesa ad aree distanti, le quali perso questo controllo, divengono
ipofunzionanti anche in assenza di morte cellulare (Feeney e Baron, 1986).
È sempre maggiore il numero di ricercatori che sostiene che alla base dei processi
mentali ci sono complessi circuiti neuronali (Fazio e coll., 1992; Metter e coll, 1984), e
quindi la correlazione va fatta con questi circuiti e non con singole aree cerebrali.
2.3.2 Metodi di attivazione cerebrale
Nell’ultimo decennio, grazie ai già citati avanzamenti tecnologici dei metodi di
neuroimmagine, lo studio della base neurale dei processi mentali mediante attivazione
cerebrale ha subito un impetuoso sviluppo.
La logica che sta alla base di tali tecniche è speculare a quella della correlazione
anatomo-clinica, con la differenza che in questo caso si correla l’aumento di attività
cerebrale locale (flusso ematico), con l’esecuzione di un determinato compito da parte
del soggetto.
Queste procedure sono state utilizzate soprattutto su soggetti normali ed hanno
confermato ed esteso i risultati ottenuti con il metodo tradizionale in pazienti cerebrolesi
o condotti su animali.
Grazie alle tecniche suddette, che tra l’altro possono essere utilizzate anche in pazienti
con lesioni cerebrali per valutare il grado di funzionalità residua o l’efficacia della
riabilitazione, è emersa una elevata specializzazione funzionale del cervello, non solo a
livello sensorio-motorio, ma anche a quello di processi più complessi [Posner e
Raichle,1994].
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In conclusione è importante sottolineare come, se un’area non viene attivata durante un
determinato compito, questo non esclude del tutto che l’area sia coinvolta in quella
determinata funzione, a differenza della correlazione anatomo-clinica in cui se la lesione
in un’area non compromette una funzione, sicuramente non è coinvolta in quella
funzione in modo significativo.
Quindi il metodo classico e quello di attivazione vanno usati in maniera complementare
nello studio della base neurale delle attività mentali.
I disturbi di cui si è classicamente occupata la neuropsicologia sono:
⌢ Del linguaggio (afasie)
⌢ Di lettura e scrittura (dislessie e disgrafie)
⌢ Della memoria (amnesie)
⌢ Del riconoscimento (agnosie)
⌢ Del movimento (aprassie)
⌢ Spaziali e visivo-immaginativi
⌢ Della localizzazione e consapevolezza corporea
⌢ Dell’attenzione
⌢ Demenze
Nell’ultimo ventennio si è sviluppato un approccio neuropsicologico nuovo, la
neuropsicologia cognitiva, che ha come scopo l’esplorazione dell’architettura
funzionale dei processi mentali normali, indagando il comportamento di pazienti affetti
da disordini neuropsicologici causati da lesioni cerebrali, e considerando le facoltà
mentali come una serie di componenti ognuna con proprietà funzionali specifiche, ma
tutte tra loro collegate.
La neuropsicologia cognitiva ha un approccio quantitativo e confronta pazienti e
controlli rispetto ai risultati a test standardizzati, in cui procedure e stimoli sono definiti
con precisione [Shallice, 1979].
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3. La Neuropsicologia in Psichiatria
Diverse sono le applicazioni della Neuropsicologia in Psichiatria: tra le altre in
particolare l’identificazione di lesioni cerebrali in pazienti psichiatrici, la valutazione di
deterioramento cognitivo, e il progresso delle teorie riguardanti la localizzazione
neuroanatomica dei sintomi di vari disturbi psichiatrici. Una delle importanti
caratteristiche della Neuropsicologia, è che rende possibile la valutazione oggettiva del
funzionamento della corteccia nel risolvere prove semplici. Quando applicata in modo
appropriato, una batteria di test neuropsicologici fornisce una comprensione delle
capacità cognitive e comportamentali di un individuo o di una popolazione in studio. Il
clinico deve valutare nel paziente psichiatrico quali aree cognitivo-comportamentali
sono coinvolte nel disturbo, in modo che le informazioni che i test forniscono siano una
“finestra” dei processi mentali del paziente. Una peculiarità di queste metodiche è che
misurano un range di funzioni, quali percezione, attenzione, apprendimento e memoria,
capacità motorie, capacità verbali e non, comprensione ed espressione del linguaggio,
lateralità, astrazione, abilità spaziali e funzioni esecutive. Per cui alcuni risultano
ridondanti e non sempre è possibile afferire che cattive prestazioni a questi test
rappresentino uno specifico ed isolato deficit neuropsicologico. D’altro canto se
utilizzati in modo corretto si possono correlare determinati sintomi a deficit cognitivi
“centrali”, consentire il reperimento di elementi predittivi riguardo al decorso della
malttia e differenziare forme eterogenee di uno stesso disturbo psichiatrico [Keefe,
1995].
Il numero delle ricerche che utilizzano queste metodiche in Psichiatria è andato
aumentando negli ultimi anni: in questo terzo capitolo prenderemo in cosiderazione una
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serie di studi neuropsicologici condotti su pazienti affetti da disturbi d’interesse
psichiatrico: per una maggiore chiarezza verranno divisi a seconda del disturbo in causa.
3.1 Schizofrenia
La Schizofrenia è forse il disturbo psichiatrico in cui maggiore è stato l’utilizzo di test o
batterie di test neuropsicologici: infatti la presenza di deficit attentivi e cognitivo-
comportamentali (disorientamento, disattenzione, amnesia…) in questa patologia è
decisamente marcata e ha fatto ipotizzare che alla base di essi ci fossero alterazioni
neuroanatomico-funzionali ben precise.
Le principali prove di tipo neuropsicologico che fanno propendere per l’esistenza di una
disfunzione cerebrale nella Schizofrenia riguardano i risultati ottenuti da alcuni di questi
pazienti in test neuropsicologici standardizzati; tali risultati appaiono indistinguibili da
quelli ottenuti da pazienti con lesioni cerebrali accertate.
Le prime valutazioni neuropsicologiche generalizzate risalgono a Tucker, Campion e
Silberfarb [1975]. Gli autori usando la batteria di Halstead hanno riscontrato una
compromissione grave o moderata nel 32% di schizofrenici rispetto al 13% di controlli.
Moses e Golden [1980] hanno confrontato 50 schizofrenici cronici con 50 pazienti con
lesioni cerebrali accertate dopo aver loro somministrato la batteria di Lurija-Nebraska:
l’uso delle quattordici scale non permise la distinzione tra i due gruppi (linguaggio
ricettivo, memoria, intelligenza e ritmo). Stessa batteria venne usata da Puente, Sanders
e Lund [1982], per confrontare schizofrenici con e senza anomalie alla TAC: su un
totale di quattordici scale, sette (motoria, tattile, visiva, scrittura, aritmetica, emisfero sx,
emisfero dx) avevano distinto i due gruppi, le altre sette (ritmo, linguaggio ricettivo,
linguaggio espressivo, lettura, processi intelletivi, memoria e patognomonica) non
avevano ottenuto tale effetto.
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Fra tutte le aree cerebrali quella che più spesso è stata messa in correlazione con la
Schizofrenia è il lobo temporale: già Gibbs [1951] aveva dimostrato un’associazione
particolarmente significativa tra l’epilessia del lobo temporale e la psicosi, in particolare
in caso di lesioni del lobo temporale anteriore. Hill [1953] ha ipotizzato un’associazione
specifica tra i fenomeni tipici della Schizofrenia e l’epilessia del lobo temporale,
associazione poi confermata da Slater [1963], Bruens [1971] e Perez [1980]. Gli studi di
tipo anatomico su schizofrenici tipici non hanno confermato il rapporto con il lobo
temporale, ma esiste qualche indicazione di ciò negli studi neuropsicologici: in
particolare gli studi di Taylor [1979] hanno dato nuova linfa a queste ipotesi.
La neuropsicologia ha avuto un ruolo centrale, anche nello studio dello squilibrio
emisferico. Sono state usate batterie di test e prove specifiche di tipo tattile, visivo ed
uditivo: mentre il tipo di compromissione manifestata in queste prove
neuropsicologiche condotte da Flor-Henry [1979], Taylor e Abrams [1979, 1981],
depone per una disfunzione dell’emisfero sx, in un esperimento [Gur, 1979] emergeva
una disfunzione destra con iperattivazione compensatoria del sx. In realtà questi modelli
di differenza emisferica sono ormai stati superati da spiegazioni molto più complesse,
però questi lavori sono tra le prime applicazioni dei metodi neuropsicologici nello
studio di un disturbo psichiatrico.
Per quel che concerne il Quoziente Intellettivo, Abrams e Taylor [1981] utilizzando il
WAIS hanno riscontrato più bassi punteggi in schizofrenici cronici, ma non in casi
acuti: il deficit sarebbe pertanto di natura acquisita, in relazione alla disabilità,
all’ospedalizzazione, gli effetti collaterali dei farmaci, ed altri fattori.
La più convincente prova di disfunzione cerebrale è l’associazione tra
compromissione neuropsicologica e dimostrazione radiologica di atrofia cerebrale
presente in alcuni soggetti [Johnstone e al., 1976; Weinberg e Wyatt, 1982; MacInnes e
al., 1982]: però se è vero che in una discreta percentuale di schizofrenici esiste questa
compromissione neuropsicologica con forti correlati organici, in altri questi correlati
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mancano ed i deficit neuropsicologici senza base organica certa possono essere una
causa del disturbo stesso. Kemali, Maj e Galderisi [1985] hanno confrontato un gruppo
di schizofrenici, omogeneo rispetto alla durata e alla gravità della malattia, con un
gruppo di controllo “accoppiato” per sesso, età e livello d’istruzione, correlando
alterazioni ventricolari alla TAC con risultati a vari test neuropsicologici: i risultati
hanno confermato che la presenza di un allargamento dei ventricoli cerebrali laterali in
una parte dei pazienti era associato ad un grave deficit cognitivo e neuropsicologico, al
maladattamento sociale e ad una sintomatologia più marcata. In contrasto con questi
risultati Bornstein e coll. [1992] hanno associato i deficit cognitivi non con
l’allargamento dei ventricoli laterali, bensì del terzo ventricolo e con l’involuzione delle
strutture diencefaliche periventricolari. Hoff e coll. [1992] hanno invece notato che una
atipica lateralizzazione in un’area importante per il linguaggio (solco laterale) può
essere correlata al cattivo funzionamento cognitivo nei pazienti schizofrenici.
Alti studi si sono invece orientati sul malfunzionamento del lobo frontale nella
Schizofrenia: Goldberg e coll. [1988] hanno somministrato a 28 pazienti affetti da
Schizofrenia quattro test neuropsicologici (WCST, Category Test, Trail Making B,
prove di fluenza verbale) che valutano l’attività del lobo frontale: il 75% di essi ha avuto
prestazioni anomale in almeno uno dei test, però non è stato possibile definire una
alterazione specifica del lobo frontale nella Schizofrenia; questi risultati sono in accordo
con la letteratura secondo la quale gli stati psicotici acuti non hanno rapporto con le
lesioni del lobo frontale. Franke e coll. [1992] hanno riscontrato, utilizzando il WCST,
un maggior numero di errori perseverativi nei pazienti schizofrenici rispetto ai controlli,
deducendo che questo può essere un marker specifico della patologia ed un indicatore di
“vulnerabilità”. Gold JM. [1997] è tornato sul problema della possibile disfunzione del
lobo frontale negli schizofrenici ed utilizzando anch’egli il WCST e una nuova prova
tipo memoria-di-lavoro ha concluso che i risultati al WCST più scadenti nei pazienti
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rispetto ai controlli non malati siano dovuti alla cattiva “memoria di lavoro”, piuttosto
che ad una non ben specificata sindrome del lobo frontale.
Grousser [1990] in una revisione degli studi compiuti utilizzando metodi
neuropsicologici, quali il riconoscimento di volti, espressioni facciali e gesti, afferma
che i pazienti schizofrenici, come quelli che soffrono di lesioni occipitali destre,
commettono un maggior numero di errori rispetto ai controlli, soprattutto nelle prove in
cui lo stimolo è in movimento: il dato indica un deficit percettivo o cognitivo in questo
disturbo. Faustmann e coll. [1991] hanno utilizzato la batteria neuropsicologica Lurija-
Nebraska per confrontare schizofrenici mancini con schizofrenici destrimani e controlli
egualmente mancini e destrimani: lo studio ha mostrato, in assenza di confondenti, un
deficit significativamente maggiore nei pazienti mancini rispetto ai destrimani, mentre
questo reperto non era presente nei controlli; gli autori hanno concluso che l’essere
mancini è correlato negli schizofrenici a deficit cognitivi, forse in seguito a precoci
insulti cerebrali.
3.2 Rapporti tra Schizofrenia ed epilessia del lobo temporale
Il problema dei rapporti tra Schizofrenia ed epilessia del lobo temporale è stato ripreso
da Gold e coll. [1994]: partendo dalla scoperta in studi di neuroimaging precedenti di
anomalie strutturali a livello del lobo temporale mesiale in alcuni schizofrenici, gli
autori hanno confrontato i risultati di pazienti schizofrenici e pazienti affetti da epilessia
temporale sinistra o destra, ad una serie di test neuropsicologici. Lo scopo era di
valutare se la disfunzione del lobo temporale può rappresentare un modello dei deficit
cognitivi osservati nei pazienti affetti da Schizofrenia. La conclusione è stata, in accordo
con la letteratura precedente, che in questa malattia i deficit neuropsicologici siano
dovuti ad anomalie funzionali non solo temporali, ma anche extratemporali, in quanto i
risultati alle batterie di test non erano sovrapponibili, se non in minima parte. Seidman e
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coll. [1994] hanno messo in relazione misure anatomiche, valutate con MRI, dell’area
prefrontale e temporale con le prestazioni a prove neuropsicologiche in pazienti
schizofrenici cronici. Essi non hanno riscontrato una correlazione significativa tra
queste prestazioni ed il volume del lobo temporale o dell’area frontale orbitale: più
risalto invece è stato dato al rapporto tra la “sindrome cognitiva” e disfunzione della
corteccia dorsolaterale prefrontale (che è importante per funzioni quali attenzione,
ragionamento astratto, esecuzione di compiti), che è connessa con l’ippocampo. Altre
possibili aree prefrontali coinvolte che contribuiscono alle manifestazioni della
Schizofrenia sono quelle della corteccia orbito-frontale, in particolare il circuito fronto-
striato-talamico che connette queste aree con strutture subcorticali: un'altra situazione in
cui l’uso di tecniche neuropsicologiche ha permesso di studiare l’integrità di questi
circuiti neuronali [Pantelis C., 1995].
Uno studio interessante è stato condotto da Goldberg e coll. [1994] sulla relazione tra
risultati a test neuropsicologici e misure morfo-fisiologiche del cervello, in gemelli
monozigoti, in cui solo uno dei due ha sviluppato la Schizofrenia. Lo studio ha
confermato l’implicazione delle regioni temporali mediali e prefrontali nei sintomi e nei
deficit cognitivi di pazienti schizofrenici: infatti i risultati al WCST e ad altre prove,
sono stati correlati con misurazioni morfometriche (in MRI) e funzionali (flusso
regionale cerebrale) di tali aree.
Gli studi neuropsicologici possono, come si è detto, essere utili anche per seguire il
decorso di una malattia o comunque per avere dei dati sempre aggiornati sulle capacità
intellettivo-cognitive del paziente. Nella Schizofrenia sappiamo essere scarso l’insight,
e questo rende l’adesione al trattamento più difficile: la causa sarebbe da attribuirsi in
parte a difese psicologiche, in parte alla “preferenza per la malattia”, in parte a deficit
cognitivi. Lysaker [1994] ha somministrato ripetutamente il WCST a distanza di tempo
a pazienti schizofrenici per valutare se effettivamente il cattivo insight potesse essere
attribuito a una disfunzione neuropsicologica.