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del peso dell’industria (in particolare della manifattura), cui ha corrisposto
un declino in termini assoluti dell’occupazione industriale.
Il ridimensionamento del settore manifatturiero ha così comportato
rilevanti implicazioni di carattere sia sociale che economico ed ha
amplificato le incertezze.
L’occupazione industriale, infatti, ha costituito per decenni un vero e
proprio modello paradigmatico di regolazione del rapporto di lavoro, noto
come “paradigma fordista”, che non ha mancato di riprodursi ed
estendersi (con gli adattamenti, le limitazioni e le distorsioni del caso) alla
quasi totalità del lavoro dipendente, influenzando profondamente
atteggiamenti, comportamenti, norme sociali e Istituzioni.
I fenomeni di deindustrializzazione, dunque, ormai diffusi a tutte le
economie avanzate, hanno messo in crisi la centralità e la validità del
modello fordista.
A partire dagli anni ‘70 in Italia, la riorganizzazione del mercato del lavoro
ed il suddetto mutamento strutturale, hanno comportato il consolidamento
di una duplice tendenza: da un lato il fenomeno dei distretti industriali e
delle piccole e piccolissime imprese, orientate verso le frontiere della
tecnologia e dall’altro, la grande impresa che tenta di riorganizzarsi
secondo linee post-fordiste.
In base alla interpretazione tradizionale il distretto rappresentava un
“contenitore territoriale” nel cui ambito si realizzava una forte
concentrazione di fasi produttive in grado di dar vita a rilevanti economie
esterne.
Negli anni più recenti, l’emergere di una concorrenza dinamica fra le
imprese ha portato al passaggio da un concetto di innovazione
incorporata nel prodotto e nel processo, ad una accezione che investe
l’intero iter aziendale.
Di conseguenza si rende necessario il deciso sviluppo e la
sedimentazione all’interno dell’impresa di una capacità di “learning”, ossia
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di un incessante apprendimento che permetta la diffusione delle
informazioni attraverso le quali l’apprendimento stesso può fluire senza
troppi ostacoli.
Il distretto industriale tende quindi a perdere d’importanza come
contenitore territoriale di fenomeni essenzialmente produttivi, mentre la
capacità di relazione fra le imprese, le Istituzioni e l’ambiente e lo sviluppo
dell’apprendimento (basato sull’equilibrio fra sapere personale e sapere
collettivo) diventano fenomeni essenziali dell’attuale impostazione dei
territori industriali.
Non a caso, negli anni ‘80-’90, il riaccendersi del dibattito accademico
sugli studi sui sistemi locali, ha permesso lo spostamento dell’analisi
socioeconomica, dall’accumulazione del capitale materiale a quella delle
competenze.
Assumere i sistemi locali come base analitica significa individuare un
ambito d’osservazione rilevante non solo per la produzione economica ma
anche per la riproduzione delle conoscenze e competenze necessarie alla
produzione stessa.
E’ all’interno di un ambito territoriale circoscritto che una parte consistente
dei lavoratori misura la possibilità di sviluppare le proprie capacità e di
mettere a valore la propria esperienza ed è il contesto locale che,
soprattutto nei sistemi di piccola e media impresa, definisce la base di un
sapere comune: il terreno nel quale si apprendono conoscenze pratiche e
si sviluppano competenze.
Gli studi sui distretti e sui sistemi locali mostrano come la conoscenza sia
la risorsa di base per lo sviluppo economico e come l’apprendimento sia il
processo fondamentale per la valorizzazione di detta conoscenza.
Accanto alla conoscenza che viene definita “codificata” e che si scambia
col linguaggio scientifico e tecnico, c’è la conoscenza “tacita”, cioè il
sapere locale.
L’aumento dei processi di codificazione della conoscenza, sospinti dalla
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rivoluzione delle tecnologie dell’informazione, rende maggiormente
influenti per l’attività economica le forme di conoscenza tacita e fa venire
meno anche la tradizionale dicotomia tra conoscenza individuale e
collettiva.
La prima parte del presente lavoro (Capitolo I) vuol essere un tentativo di
contributo alla comprensione di tre recenti ambiti di studio tra loro distinti
ma fortemente correlati:
- la formazione del capitale umano;
- l’economia dell’apprendimento (learning economy);
- la conoscenza e la socializzazione delle competenze.
La rassegna teorica presentata si riferisce ad ognuno dei suddetti ambiti
di studio che pongono l’uomo e le sue abilità (skills), capacità e saperi
produttivi, al centro di un sistema economico locale nel quale la
valorizzazione delle risorse umane è considerata come uno dei maggiori
vantaggi competitivi rispetto alla concorrenza.
L’importanza della formazione e del sistema formativo sta
nell’accompagnare l’attuale cambiamento organizzativo e culturale del
sistema produttivo a livello micro, con interventi capaci di trasmettere i
valori della nuova cultura della qualità e della partecipazione.
Per far fronte alle innovazioni tecnologiche, inoltre, si ha bisogno di un
aggiornato sistema formativo che preveda in sé anche capacità di
apprendimento, conoscenza e socializzazione da parte della forza-lavoro.
“L’esistenza” della learning economy individua un sistema economico
dove il successo degli individui, imprese, regioni, nazioni, riflette la loro
conoscenza e capacità d’apprendimento.
Infatti l’apprendimento, la formazione e più in generale la conoscenza,
sono considerati beni primari dell’attuale sistema economico permettendo
il connubio fra risorse umane ed efficacia competitiva delle imprese di un
distretto o di un determinato sistema territoriale locale.
La maggiore competitività proviene quindi dalle risorse di lavoro che
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costituiscono il bacino locale di offerta di lavoro specificatamente
valorizzata sul piano professionale.
La comunicazione fra forze di lavoro e la diffusione più o meno
“sotterranea” di conoscenza nelle varie interazioni di vita quotidiana che
fanno di una “comunità lavorativa” una forza-lavoro preparata ed
“informata”, rappresenta invece la socializzazione delle competenze di un
determinato sistema locale.
Alla sezione teorica è collegata la ricerca descritta nell’ultima parte del
lavoro (Capitolo V), riguardante gli studenti frequentanti l’ultimo anno delle
scuole medie superiori del Comune di Terni.
Essa ha l’obiettivo di esaminare l’universo giovanile di un sistema locale
che ha vissuto in primo piano il fenomeno della deindustrializzazione.
Per oltre un secolo, infatti, (come viene illustrato nel Capitolo II) la società
ternana è cresciuta affianco alla sua Acciaieria.
Narrare le vicende della città di Terni dal periodo della sua
industrializzazione sino ai giorni nostri, significa descrivere un universo
culturale incentrato sulla presenza della grande industria.
L’accettazione dell’organizzazione di fabbrica come modello di riferimento
per la strutturazione complessiva della vita urbana, ha consentito
l’emergere di una diffusa cultura industriale che ha condizionato modelli e
stili di vita: il suono della sirena dell’Acciaieria, che regolava i turni
lavorativi, ha assunto per decenni il compito di scandire i ritmi della vita
socio-lavorativa della città, come gli orari, l’organizzazione dei servizi, la
vita culturale ed il tempo libero.
Gli anni ‘60-’70 hanno però visto profondi cambiamenti nella vita cittadina:
la città-fabbrica cominciò ad organizzarsi diversamente e l’ideologia
industrialistica non ha più costituito l’elemento fondamentale di
regolazione materiale e simbolica di tutta la società locale.
La crisi economica ed occupazionale che raggiunse il suo apice negli anni
‘80, ha imposto alle Istituzioni la necessità di trovare alternative nuove alla
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città siderurgica per ridare certezza a quel futuro che la consolidata
cultura industrialistica aveva alimentato.
Mentre l’improvviso passaggio di fine ‘800 dal rurale all’industriale fu sì
traumatico ma estremamente definito e fruttifero, oggi, ad oltre un secolo
di distanza, il mutamento economico-strutturale dall’industriale al terziario
non appare così ben delineato ed ha provocato, soprattutto fra i giovani in
cerca di occupazione, la perdita di quell’importante punto di riferimento
lavorativo costituito dall’Acciaieria.
La deindustrializzazione ha caratterizzato le tendenze demografiche ma
soprattutto economiche del territorio ternano ed ha obbligato le strutture
competenti a ragionare sulle alternative utili e sui modelli di sviluppo che
possano dare un futuro sicuro a chi si sta immettendo nel mondo del
lavoro (Capitolo III).
Le Istituzioni predisposte hanno dovuto rispondere alle necessità di nuove
politiche di sviluppo per il territorio ternano che puntassero
sull’innovazione e su nuove vie ancora comunque sperimentali e non del
tutto definite.
La crisi ha prodotto effetti nel tessuto economico locale e nell’assetto
sociale molto significativi (Capitolo IV), basti pensare che fra il 1980 ed il
1990 si è avuta una perdita di più di 9000 posti di lavoro nell’intera
Provincia di Terni e 5000 nella sola città capoluogo; inoltre, alla caduta del
tasso occupazionale occorre associare la crescita della Cassa
Integrazione Guadagni che, nello stesso periodo, ha riguardato circa 2000
occupati annui.
Se in meno di un decennio quasi un terzo della base occupazionale è
andata perduta nei settori produttivi, per converso si è assistito ad un
incremento dell’occupazione, nel territorio considerato, che comunque ha
registrato un aumento dell’ 1,2% l’anno, tasso sensibilmente inferiore sia a
quello nazionale che a quello regionale ed in settori non legati alla
produzione.
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L’elevato tasso di disoccupazione e l’alta percentuale femminile che lo
contraddistingue suggerisce il carattere “meridionale” della crisi e, se si
considera che vi è stata una diminuzione della dinamica demografica, si
evidenziano ancor più gli aspetti di gravità che la realtà ternana presenta.
Senza alcun dubbio oggi la città di Terni sta vivendo un periodo di
transizione in cui l’economia non ha ancora trovato gli indirizzi giusti per
avviare un nuovo percorso di sviluppo e per ridare punti di riferimento ai
giovani che si apprestano ad immettersi nel mondo del lavoro.
Certo è che la socializzazione cittadina, sviluppatasi nel corso degli anni
per quanto riguarda il lavoro nella grande fabbrica, è ormai obsoleta ed
aggravata dalla mancanza strutturale delle piccole e medie imprese che
avrebbero dato nuova linfa alla formazione lavorativa giovanile.
La presenza della grande industria a Terni ha determinato, infatti, un forte
vincolo allo sviluppo di attività autonome dai grandi insediamenti produttivi
e quindi la sicurezza degli sbocchi di mercato, unitamente alla scarsa
disponibilità di capitali, hanno impedito lo sviluppo autopropulsivo delle
piccole e medie imprese locali.
L’indagine effettuata (Capitolo V) vuol essere un tentativo di evidenziare
le tendenze e le inclinazioni sociali e lavorative dei giovani ternani in
questo momento di transizione economica locale, con un particolare
riferimento a come il territorio abbia socializzato il campione considerato.
La già nota distanza fra il sistema scolastico ed il mondo del lavoro, la
inconsistente socializzazione delle competenze da piccola/media impresa
e la perdita di punti di riferimento lavorativi locali, sono elementi fondanti
di una nuova socializzazione lavorativa dei giovani che dovranno
immettersi nel mondo del lavoro, ben diversa da quella della generazione
dei padri o ancor di più dei nonni.
La ricerca andrà dunque a fornire una descrizione ed una spiegazione di
questi elementi di novità.
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Capitolo I
FORMAZIONE, APPRENDIMENTO,
CONOSCENZA E SOCIALIZZAZIONE DELLE
COMPETENZE NEI SISTEMI LOCALI
1.1) CAPITALE UMANO E BENI RELAZIONALI: L’IMPORTANZA
DELLA FORMAZIONE PER UNA ECONOMIA LOCALE
Nella letteratura economica i temi relativi all’istruzione e alla formazione
sono stati affrontati da diverse angolature all’interno di ambiti analitici sia
micro che macroeconomici, in prima approssimazione riconducibili alla
teoria del capitale umano.
In linea generale, la teoria del capitale umano costituisce il punto d’avvio
di una nuova generazione di modelli macroeconomici basati sull’individuo
e sulle sue capacità di apprendere, determinanti nella spiegazione dei
tassi di crescita di una economia.
Autori come Solow (1956), Becker (1964) e Lucas (1988), affermavano
che lo sviluppo economico si è da sempre accompagnato con ampi
processi di trasformazione culturale, di modifica e di aggiornamento dei
valori e dei saperi individuali e sociali, legati allo sviluppo ad un duplice
livello: sia in quanto risultati delle evoluzioni passate che in quanto
requisiti indispensabili per la crescita futura.
Il rapporto tra trasformazione socioeconomica e mutamento culturale,
dunque, non è interpretabile in modo univoco: un più elevato livello
culturale è indispensabile per la crescita economica ed il maggiore
benessere, derivante a sua volta dallo sviluppo economico, costituisce la
condizione necessaria per l'investimento nell’ istruzione, sia del singolo
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che della collettività.
A tale riguardo, l'analisi economica identifica da tempo l'istruzione come
un bene superiore, ovvero un bene la cui domanda è destinata a crescere
più che proporzionalmente al crescere del reddito, individuale e sociale.
Il concetto di capitale umano ha origini antiche ed individua la capacità
produttiva degli esseri umani in quanto agenti produttori di reddito.
In particolare, il capitale umano è lo stock di abilità (skill) e di saperi
produttivi che appartiene agli individui ed il rendimento degli investimenti
in esso consiste nel miglioramento dei loro skills e delle loro possibilità di
reddito, come anche nell'aumento dell'efficienza delle loro decisioni
economiche.
Il miglioramento della capacità produttiva del fattore lavoro viene spiegato
dagli economisti ricorrendo ad un'ampia concettualizzazione del capitale
umano, che comprende sia i miglioramenti di lungo periodo negli skills dei
lavoratori (basati sull'alfabetizzazione, l'istruzione e la formazione), sia altri
aspetti attinenti allo sviluppo socioeconomico e alla qualità della vita, quali
il miglioramento della salute e la maggiore longevità, il calo della mortalità
infantile, l'aumento delle risorse destinate ai bambini e la capacità delle
popolazioni più istruite di effettuare scelte economiche più intelligenti ed
efficienti.
Se gli economisti classici sostenevano che l’output prodotto da un sistema
economico non era altro che il risultato della combinazione del lavoro e
del capitale fisico, negli anni ‘40 nacque un nuovo filone di indagine che
sottolineava come, in un’economia di sviluppo, la crescita dello stock dei
saperi produttivi può incidere positivamente sul capitale fisico e sul lavoro.
L’output, allora, è funzione non solo dell’input di capitale e di quello del
lavoro, ma anche dell’accumulazione del capitale umano.
Lavori più recenti, sottolineano come lo sviluppo di un sistema economico,
oltre che dipendere dalla quantità di capitale e lavoro impiegati, nonché
dalla qualità di quest'ultimo, può essere messo in relazione con
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l’accrescere degli elementi relazionali che collegano tra loro gli agenti
economici.
Come nei modelli di crescita endogena il ritmo dello sviluppo dipende
dalla distribuzione delle risorse tra lavoro e attività di studio,
apprendimento, ricerca ecc., così questo nuovo filone spiega la crescita
economica sulla base della funzionalità della struttura relazionale che gli
stessi agenti economici sono in grado di costruire tra loro.
Un contributo in merito, preso in esame qui a seguito, lo offre la
Fondazione G. Brodolini (FGB), che prende in rassegna i saggi di alcuni
fra i maggiori esponenti in materia (Gui, Zamagni, Scandizzo, Casale,
ecc.).
“Oltre che dalla sua stessa accumulazione, la capacità produttiva che il
capitale umano può raggiungere dipende dalle caratteristiche che ne
regolano le relazioni: una diversa cultura, un differente sistema di rapporti
ed interconnessioni, un differente livello di sinergia determinano differenze
nel livello e nella diffusione delle abilità produttive dell' economia”
(FGB,1997).
Nell'analisi di Gui (1995), che presenta un modello di "investimento in
relazioni", i beni relazionali sono definiti come "un bene capitale
intangibile, che risiede nei rapporti interpersonali di lunga durata e
produce benefici sia intrinseci che strumentali".
Si pensi alla familiarità reciproca, all'amicizia, alla fiducia, alla
cooperazione, valori e relazioni che sembra si creino e si conservino più
difficilmente nelle società moderne che in quelle tradizionali.
Zamagni (1995) propone un diverso approccio per cui i beni relazionali
sono beni "che possono essere prodotti e fruiti in modo ottimale soltanto
assieme da coloro i quali ne sono gli stessi produttori e consumatori,
tramite le relazioni che connettono i soggetti coinvolti.
Si tratta cioè di quei beni la cui essenza è data dalla qualità della relazione
che si instaura tra produttore e consumatore (si pensi ai servizi educativi,
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sanitari, culturali e così via)".
Scandizzo (1995), relativamente ai beni relazionali ritiene che essi siano
“l’insieme di culture, valori, rapporti, interconnessioni, sinergie, che
consentono una produttività più diffusa e superiore a quella ottenibile da
individui di uguale capitale umano, ma operanti in un diverso assetto
relazionale”.
Sinteticamente, dall'ampia letteratura disponibile si può trarre
l'insegnamento che i beni relazionali rappresentano un elemento
fondamentale per la crescita, in quanto capaci di valorizzare e rendere
produttivi, o più produttivi, direttamente o indirettamente, i fattori di
produzione classici.
“I nuovi modelli di crescita economica, basati sulla valorizzazione del
capitale umano e delle abilità di relazione, insieme all’accelerazione
impressa al progresso tecnologico e organizzativo dall’applicazione delle
tecnologie informatiche a tutte le attività produttive e alla diffusione dei
nuovi paradigmi organizzativi post-fordisti basati sulla ricerca della qualità,
richiedono la diffusione più ampia delle attività di apprendimento ed
autoapprendimento come presupposto per l’accumulazione di saperi
sociali.
Accumulazione che, a sua volta, costituisce il primo fondamento del
vantaggio competitivo all’interno del mercato globale e,
conseguentemente, dell’ulteriore sviluppo sociale, produttivo ed
occupazionale” (Casale, 1993).
Oggi, per essere utili ai processi di riorganizzazione del sistema
economico e sociale, i nuovi programmi di formazione devono saper
coniugare la specificità e la validità tecnica degli insegnamenti con la
capacità di accrescere la flessibilità, la professionalità e la disponibilità
all'aggiornamento ricorrente della manodopera.
“Nel modello produttivo della qualità totale, attraverso questi programmi,
tutti i lavoratori ai vari livelli della gerarchia aziendale, meglio formati e più
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flessibili, tendono ad assumere ruoli più complessi e a determinare
pertanto una parte crescente degli stessi processi (produttivi, commerciali,
amministrativi ecc.) cui prendono parte, riassorbendo nelle proprie
mansioni, individualmente o collettivamente, una parte dei compiti
dirigenziali a loro estranei nel precedente paradigma produttivo fordista.
Nei distretti industriali e nelle aree di imprenditorialità diffusa, viceversa, la
formazione professionale assume il ruolo strategico di sostegno ai
processi di creazione di impresa, di diffusione delle innovazioni e di
prevenzione dell'obsolescenza dei sistemi produttivi: un ruolo che spesso
le piccole e medie imprese non sono in grado di rivestire da sole, e che
richiede pertanto la creazione di consorzi e/o una più incisiva presenza
della mano pubblica” (Casale, 1993).
Sotto il profilo della formazione, la prospettiva della partecipazione
richiede una profonda innovazione rispetto alla figura sociale dell'operaio
fordista, un'innovazione capace di sospingere i lavoratori verso
l'assunzione di un'identità molto più ricca, flessibile e dotata di livelli di
autonomia decisionale, capace di interiorizzare i controlli di efficienza e di
qualità prima demandati al management.
“Fondamentale è l'obiettivo di proporre nuove figure professionali capaci
di aggiornare, riorganizzare e ricomporre le vecchie, interiorizzando le
caratteristiche di autoapprendimento, autoaggiornamento e relazionalità
richieste dall'evoluzione dei sistemi produttivi e organizzativi.
Un ulteriore punto di grande rilievo è quello che individua la necessità di
ridistribuire le occasioni formative nel ciclo di vita degli individui, in modo
da accompagnare le loro transizioni e da renderle più agevoli e rapide.
In prima istanza questo obiettivo coincide con lo sviluppo di offerte
formative mirate all'aggiornamento e/o alla prevenzione dell'obsolescenza
del capitale umano, attraverso il varo e l'utilizzo di strumenti specifici, quali
la formazione continua, i congedi formativi, la programmazione di corsi di
riqualificazione periodica e ricorrente, la creazione di appositi fondi
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aziendali, ecc.” (Saba,1995).
Non da meno è altresì la necessità di adeguamento degli stessi
meccanismi del sistema formativo indotta dalle trasformazioni del mondo
moderno.
“Va anzitutto notato che la creazione di nuovi mercati della formazione
sconta prevedibili effetti di "spiazzamento culturale" degli stessi agenti che
in quei mercati si trovano ad operare.
Questi effetti sono in parte dovuti al fatto che su tali mercati si scambiano
beni immateriali il cui effettivo valore è assai più difficilmente accertabile
(con la conseguenza di costi di transazione assai superiori) di quanto non
lo sia per i beni materiali, ragione per cui gli agenti economici (produttori,
acquirenti, utenti) sono maggiormente esposti al rischio di scelte sbagliate
e in parte sono dovuti proprio alle novità quali-quantitative degli stessi
servizi offerti, che richiedono per la valutazione economica una
sedimentazione culturale basata su di un'esperienza ancora carente.
Lo sviluppo del mercato dei servizi formativi resta perciò in buona parte
affidato alla crescita di un'effettiva abilità sociale di valutazione di tali
servizi, della loro qualità e della loro utilità: una crescita che può essere
notevolmente agevolata attraverso una riqualificazione sia tecnica che
istituzionale dell'intero sistema formativo” (Saba,1995).
Il ruolo strategico che occupano i mercati dell'apprendimento nella
transizione verso una competizione globale rende dunque indispensabile
un ampio ripensamento del sistema formativo, in grado di sviluppare nuovi
profili professionali, mediante il coinvolgimento delle parti sociali e,
soprattutto, delle imprese.
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1.2) IL CONCETTO DI “LEARNING ECONOMY” (ECONOMIA
DELL’APPRENDIMENTO)
Il concetto di economia dell'apprendimento, o learning economy, è molto
ampio e i suoi presupposti partono dalla constatazione che, nelle
economie moderne, la competitività degli individui, delle imprese e dei
sistemi innovativi è profondamente legata all'abilità di apprendere dal
proprio operare.
In particolare, le trasformazioni con cui attualmente si trovano a fare i
conti le economie avanzate hanno inevitabilmente avviato anche un
processo di ristrutturazione del mercato del lavoro, sempre più basato sul
sapere come fattore di competitività.
Basti osservare che, mentre da un lato cresce sensibilmente la domanda
di lavoro rivolta a persone qualificate e con elevati skills, dall'altro, si
riduce drasticamente quella relativa a lavoratori scarsamente qualificati.
La nozione di “learning economy” può essere utilizzata con due significati.
“In primo luogo evoca una prospettiva teorica dove si pone l’enfasi sui
processi di cambiamento tecnologico; in secondo luogo ci si riferisce ad
uno specifico trend storico, quello attuale, dove la conoscenza e
l’apprendimento diventano elementi sempre più significativi a tutti i livelli
dell’attività economica” (Lundvall, 1995).
L’esistenza della learning economy individua un sistema economico dove
il successo degli individui, imprese, regioni e nazioni, riflette la loro
capacità di apprendimento.
“In questa economia gli individui devono continuamente aggiornare le loro
conoscenze, dato che i cambiamenti sono rapidi e i loro skill diventano
rapidamente obsoleti” (Lundvall 1994).
L’aumento dei processi di codificazione della conoscenza, sospinti dalla
rivoluzione delle tecnologie dell’informazione, non rende affatto meno
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importante bensì, al contrario, più influenti per l’attività economica, le
forme di conoscenza tacita e fa venire meno anche la tradizionale
dicotomia tra conoscenza collettiva ed individuale.
Oltre a Lundvall, un altro autore che ha messo in luce la complessità del
processo di creazione della conoscenza nelle organizzazioni economiche,
è stato Nonaka.
Studiando le modalità attraverso cui le imprese giapponesi si misurano
coll’innovazione, Nonaka ha messo a punto un modello di analisi che
valorizza le forme di sapere implicite negli individui e nelle organizzazioni
e che si trasmettono mediante apprendimento per imitazione,
osservazione, prova ed errore e cioè attraverso modalità principalmente
non linguistiche di comunicazione.
Senza questa base comune di saperi pratici, che maturano
nell’esperienza lavorativa e si creano nel confronto continuo coi problemi
concreti della produzione e le domande del mercato, le conoscenze
scientifiche e tecnologiche non riuscirebbero da sole ad attivare processi
di innovazione utili per le organizzazioni economiche.
E’ invece dalla conversione tra questi distinti livelli di conoscenza che
prende avvio l’innovazione tecnologica e l’apprendimento organizzativo
nell’impresa.
Ritornando a Lundvall, ci soffermiamo ora su ciò che la learning economy
non è.
Egli stabilisce che la learning economy è influenzata dal crescente uso
dell’informazione ma non è un sinonimo della “società dell’informazione”.
“La nozione di conoscenza non può essere sovrapposta a quella di
informazione.
L’informazione corrisponde a degli specifici elementi della conoscenza che
possono essere tradotti in bit e trasmessi su lunga distanza attraverso le
strutture elettroniche di comunicazione.
L’accesso ad un crescente ammontare di informazione di per sé non