VIII
la definisce Kaiser rifacendosi al titolo di un’opera di George Stephen (1), dunque è simile
a quella della Sonderweg perché si basa sul presupposto che vi siano delle caratteristiche
“ataviche” che hanno determinato l’atteggiamento britannico nei confronti dell’Europa,
quale, ad esempio, il concetto di sovranità nazionale come valore irrinunciabile. Tali
“attegiamenti atavici” avrebbero impedito al Regno Unito, sempre secondo la teoria
dell’“awkward partner”, di partecipare al processo storico che conduceva verso
l’integrazione politica dell’Europa: nonostante questa auto-esclusione provocasse gravi
problemi alla Gran Bretagna. Wolfram Kaiser non concorda con tale approccio, ritenendo
che esso risenta di una scarsa attenzione alla prospettiva comparativa e soprattuto alle
diverse forze che si confrontavano all’interno del Regno Unito.
La “piccola storia”, intendendosi con ciò quell’approccio storiografico che si concentra
solo sugli eventi all’interno di uno Stato trascurandone i rappporti con l’esterno, che pure
da Seely fu criticata in quanto incapace di mettere in luce l’interrelazione tra gli sviluppi
storici in più nazioni e la loro reciproca influenza, è stata così da noi in parte recuperata.
Sulla base della bibliografia esistente, infatti, si è notato che alcuni aspetti del rapporto tra
Regno Unito e processo d’integrazione europea sono stati spesso trascurati, non venendo
in particolare messa in risalto la grande varietà di posizioni esistenti in Gran Bretagna al di
là delle scelte di Governo. La ricerca non si è limitata, quindi, all’analisi degli aspetti
macroeconomici, militari e diplomatici, che pure vengono rievocati, ma è stata estesa al
dibattito interno nel Regno Unito sulla questione europea, soffermandosi in particolare sul
periodo che va dalla first application al veto di De Gaulle. A questo scopo, è stato
effettuato uno spoglio degli archivi di personalità appartenenti ai partiti britannici e ai vari
movimenti impegnati nella campagna a favore o contro l’adesione britannica alla
(1) GEORGE STEPHEN, An awakward Partener: Britain in the European Community, Oxford, Oxford Un.
Press., 1990.
IX
CEE, negli anni che vanno dal 1958 al 1963. Si è proceduto, inoltre, a un’analisi del
dibattito sulla stampa nel Regno Unito e del confronto interno ai tre principali partiti
britannici (conservatore, laburista e liberale).
Questa scelta metodologica è stata motivata, in origine, dall’ipotesi che in Gran
Bretagna, al di fuori degli ambienti di Governo, si potessero rintracciare numerosi gruppi
culturali e politici, non solo favorevoli all’adesione, ma che assegnavano a quest’ultima un
valore decisamente federalista. Al termine della ricerca, è possibile affermare che l’ipotesi
di partenza, forse un po’ ingenua, non ha trovato conferma. E’ tuttavia emersa una realtà
molto più complessa di quanto talora non appaia e che varrebbe la pena di approfondire
ulteriormente.
Il dibattito sull’adesione, infatti, era molto “trasversale”: al di là delle linee ufficiali di
partiti, movimenti e gruppi di pressione, all’interno di questi si poteva riscontrare un
acceso dibattito, che spesso era anche manifestato pubblicamente. Le componenti
“dissidenti” dei partiti politici, ad esempio, spesso non si limitavano a protestare
all’interno delle strutture partitiche, ma si davano un’organizzazione indipendente,
portando avanti una campagna parallela o addirittura contraria rispetto a quella del partito
d’appartenza, peraltro senza abbandonarlo. Un altro esempio interessante è fornito dalla
sezione britannica del Movimento Europeo, al cui interno vi era chi si mostrava
decisamente contrario all’adesione alla CEE. Basti pensare, inoltre, che nella stessa
Federal Union, da sempre combattuta tra atlantismo ed europeismo, si ebbero forti
resistenze all’adesione prima di riconoscere le potenzialità federaliste della Comunità e
l’utilità di iniziare una campagna ad essa favorevole nel Regno Unito.
Se tra le file degli “europeisti” britannici vi erano dei convinti oppositori dell’adesione,
tra le file di movimenti ufficialmente “anti-marketeer” vi erano personalità, anche di
notevole rilievo, che giudicavano utile aderire non solo per i vantaggi economici che ciò
X
avrebbe comportato per il Regno Unito, ma anche auspicando una maggiore integrazione
politica dell’Europa. Tra queste personalità, talune avevano una prospettiva, se non
federalista, quantomeno funzionalista. A titolo esemplificativo, basti pensare al Comitato
Laburista per il Mercato Comune, guidato da Roy Jenkins che, sebbene con cautela, cercò
d’indurre il Labour, decisamente avverso all’adesione, ad assumere una posizione pro-
europeista.
Questa “trasversalità” nel dibattito sull’adesione produceva una grande confusione
nell’opinione pubblica britannica. I sondaggi dell’agenzia nazionale di statistica Gallup
mettevano in rilievo come i cittadini britannici fossero divisi tra due posizioni contrastanti.
Alcuni auspicavano l’adesione del proprio paese alla CEE perché, a loro giudizio, questa
non solo avrebbe offerto vantaggi per le industrie britanniche, ma avrebbe anche
rappresentato un ulteriore riconoscimento della grandezza britannica. Altri parevano
ancora credere nella possibilità di proteggere il modus vivendi britannico, chiudendosi in
una Splendid isolation. A loro giudizio, infatti, il continente più volte si era rivelato ostile
alla pacifica Gran Bretagna e l’isolamento avrebbe consentito di risolvere i problemi
britannici con maggiore efficacia.
Nel periodo 1962-’63, quindi, i sudditi britannici cominciarono a interrogarsi sulla
questione del proprio rapporto con il resto del continente: un problema che sino ad allora
era stato dominio dei settori specialistici di Governo, del mondo accademico e
dell’economia. E’ all’inizio degli anni ’60 che si può riscontrare lo sviluppo di una certa
“mitologia” anti-comunitaria, ancor oggi utilizzata dai gruppi di pressione che nel Regno
Unito propagandano un ritiro dall’Unione Europea. Le critiche alla carenza di
democraticità delle istituzioni europee, alla burocrazia eccessiva di Bruxelles e gli attacchi
contro i funzionari comunitari, ritenuti corrotti, ancor oggi avanzate dai gruppi britannici
“anti-UE”, erano già un cavallo di battaglia delle varie organizzazioni avverse all’adesione
XI
e riportate dai quotidiani anti-marketeer nel 1961. Vi era persino chi, già all’epoca,
metteva in guardia sul rischio che, una volta entrato nelle Comunità, il Regno Unito
contraesse un enorme debito nei confronti della Repubblica Federale Tedesca.
Argomentazioni del genere sono ancora oggi additate negli ambienti euro-sceptics come
un tipico esempio di come l’Unione Europea sia un mero strumento del potere economico
della Germania.
Un’altra sorprendente testimonianza della continuità nel dibattito sulla questione
europea, tra l’inizio degli anni ’60 e oggi, è offerto dalle accuse degli anti-europeisti contro
il presunto “complotto” organizzato da rappresentanti di governo, sia continentali sia
britannici, al fine di creare una federazione europea by stealth, impedendo ai sudditi
britannici di decidere democraticamente del destino della loro Nazione. Basti pensare che
gli ammonimenti presentati nelle Newsletters dell’Anti-Common-Market League del 1963
contro le attività segrete dei Bildebergers - “mitici” adepti di una società segreta che
mirerebbe a creare un Europa federale, introducendosi negli ambienti di governo - al
giorno d’oggi vengono ancora diffusi via Internet.
Nonostante ciò giudicare la Gran Bretagna un paese “anti-integrationist” tout court ci
pare scorretto: le posizioni all’interno dell’opinione pubblica britannica furono, e sono,
molto ricche di sfumature. Furono in molti nel 1960, ad esempio a presentare proposte per
favorire lo sviluppo del processo d’integrazione, anticipatrici di problematiche che solo
molti anni più tardi sarebbero state affrontate dagli Stati fondatori delle Comunità. Federal
Union, ad esempio, parallelamente alla sua campagna pro-marketeer, ne organizzò una a
favore di una democratizzazione delle istituzioni comunitarie, dimostrando come questo
fosse un problema realmente sentito e non una mera “scusa” per avere condizioni
particolari all’adesione o per porre ad essa degli ostacoli.
XII
La Gran Bretagna, sebbene non avesse mai avuto un atteggiamento molto costruttivo dal
dopoguerra in poi verso l’integrazione europea, andò gradualmente modificandolo, in
particolare abbandonando quella volontà “sabotativa” dei progetti continentali che, in
effetti, le fu caratteristica ai tempi dei dibattiti sulla CECA e la CED. Le cause di questo
atteggiamento “difficile” vanno in gran parte ricercate nella conclusione del secondo
conflitto mondiale. Il Regno Unito vinse la guerra senza aver vissuto l’ambiguità di una
Nazione divisa e occupata, come era invece avvenuto per la Francia. Whitehall, quindi,
riteneva che il Regno Unito fosse posto in una posizione “speciale” rispetto al continente,
da essa giudicato meno sviluppato, sia economicamente sia socialmente; il Governo
britannico riteneva, inoltre, di poter contare su una migliore capacità di ripresa dal trauma
bellico, grazie al suo rapporto con il Commonwealth e la “special relationship” con gli
Stati Uniti. Questo presunto “stato di grazia” rispetto agli altri paesi europei, a giudizio
degli uomini di Stato britannici, poteva essere garantito solo da un continente pacificato,
che avrebbe consentito al Regno Unito di restare in disparte. Per questo motivo, i tentativi
di sabotare la Ceca vennero abbandonati e, anzi, ci si associò ad essa: si cercò, inoltre, di
trovare un accordo con la CEE che non comportasse la piena adesione, realizzando una
grande Area di Libero Scambio in Europa. Solo le difficoltà economiche, all’inizio degli
anni ’60, fecero comprendere alla leadership del Regno Unito che la realtà britannica non
era diversa rispetto al resto del continente e che la disastrosa situazione economica poteva
essere migliorata solo appoggiandosi all’Europa.
La filosofia di Whitehall, quindi, dal 1956 al 1960 si può riassumere nell’adagio “con voi
non uno di voi”. Il tentativo di creare un’Area di Libero Scambio Europea, che
inizialmente era concepita come un modo per sabotare la CEE, divenne in seguito, come
affermò il conservatore Allan Lennox-Boyd, un modo per realizzare “the best of all
worlds”. Secondo tale concezione, i Sei sarebbero stati liberi di perseguire il loro fine di
XIII
realizzare tra loro una più stretta cooperazione politica con il metodo sovranazionale, ma
la divisione economica dell’Europa occidentale si sarebbe evitata solo creando un ponte
tra la Comunità e un’Area di Libero Scambio. Nelle intenzioni di Whitehall, ciò avrebbe
consentito a tutti i paesi dell’Europa occidentale, di godere dei vantaggi di una stretta
cooperazione economica, evitando ai Sei di trasformarsi in un blocco economico
protezionista per difendersi dai paesi che non gradivano la loro scelta sovranazionale. I
paesi europei al di fuori della Comunità, invece, avrebbero ottenuto la garanzia di non
dover “cedere” al metodo sovranazionale sotto la “minaccia” dell’isolamento economico.
Il fallimento dei negoziati per creare un’Area di Libero Scambio avrebbe fatto
comprendere a Londra che la politica europea non era un trattato filosofico di Leibniz, in
cui la “monade” ALS e la “monade” CEE, agendo separatamente ma in rapporto tra di
loro, avrebbero potuto contribuire assieme all’armonia dell’universo “Europa”, creando
così il “migliore di tutti mondi”. I britannici si sarebbero resi conto che, ormai, se proprio
si voleva paragonare la politica britannica in Europa a un sistema filosofico, questo non
poteva essere che quello di Kierkegaard: l’“aut-aut” per il Regno Unito era tra aderire alla
CEE o essere isolati. La “scelta” di Whitehall, quindi, non poteva che ricadere sulla prima
“possibilità”.
Un’“ipotesi” di ricerca era quella di verificare se vi fosse una sincera volontà da parte del
Regno Unito di dare il suo contributo allo sviluppo della Comunità. Lo studio
dell’atteggiamento britannico, dal 1945 al fallito tentativo di realizzare un’Area di Libero
Scambio dimostra che la volontà di aderire non fu dovuta a una tardiva ammissione, da
parte di Londra, che le Comunità potevano rafforzare la cooperazione politica in Europa
occidentale, ma semplicemente al fatto che il declino economico del Regno Unito appariva
arrestabile solo con l’adesione al Mercato Comune Europeo.
XIV
Londra fu accusata da De Gaulle di voler sabotare la CEE dall’interno, “diluendola” in
una realtà atlantica che avrebbe fatto perdere alle Comunità ogni possibilità di svilupparsi
in senso politico. Washington, in effetti, usò strumentalmente l’adesione britannica per
portare avanti il progetto di creare una forza atomica multilaterale e un’area di libero
scambio atlantica. Kennedy aveva scambiato il desiderio di indipendenza di De Gaulle per
una forma di “terzaforzismo”. Il Presidente americano temeva, quindi, che una maggiore
cooperazione politica in Europa, sebbene da sempre auspicata dagli americani, avrebbe
potuto comportare la neutralità del Vecchio Continente tra i due blocchi, a meno che non
si fossero garantiti solidi legami istituzionali con gli USA. Per questo motivo, l’adesione
della Gran Bretagna alla CEE, secondo la Casa Bianca, era indispensabile per evitare il
rischio che la CEE tagliasse i legami con Washington. L’esclusione di Londra, in questo
senso, può essere letta quasi come una ritorsione di De Gaulle contro gli Stati Uniti, che
avevano assunto una posizione molto contraria alla scelta del Generale di creare una force
de frappe atomica francese. Londra, più che rea di collaborare con gli USA, si era resa
colpevole di non essere stata in grado di prendere una posizione chiara nel suo rapporto
con Parigi. Gli Stati Uniti, peraltro, non presero alcun provvedimento per rispondere
all’esclusione britannica, dimostrando così che il loro appoggio era stato meramente
strumentale. Gli USA ormai, ritenendo Bonn un solido anello della catena che avrebbe
tenuto saldo il legame tra CEE e NATO, confidavano più nell’alleato tedesco che in quello
britannico per moderare le presunte mire terzaforziste di De Gaulle.
La storiografia, a seconda che sia francese o britannica, tende a sottolineare l’atlantismo
britannico o l’egemonismo francese come causa del fallimento dei negoziati, quasi
ritenendo che le responsabilità fossero solo di una di queste due nazioni, trascurando così
il ruolo dei “Cinque”. In realtà, i fattori che portarono al fallimento erano molto più
complessi. Il Benelux e l’Italia, che pure erano a favore dell’adesione britannica, ad
XV
esempio, temevano che l’acquis communautaire potesse venire danneggiato nello scontro
tra Gran Bretagna e Francia e, quindi, al di là di un appoggio formale, non fecero nulla per
opporsi al veto di De Gaulle. Bonn, inoltre, condivideva con Parigi l’idea che non fosse
opportuno effettuare un allargamento delle Comunità prima di pervenire a un loro
consolidamento politico. L’Accordo franco-tedesco del 1963 volle appunto costituire una
sorta di direttorio ristretto al fine di proporre nuove iniziative di cooperazione, sebbene il
Regno Unito, e lo stesso Benelux, lo percepissero come un patto a fini egemonici. Gli
USA temevano, invece, che l’Europa propendesse pericolosamente verso il neutralismo:
così Washington, dopo aver incentivato per tutto il dopoguerra il processo d’integrazione
europea, parve avere un ripensamento, presentando progetti “atlantici” alternativi a quelli
“europei” di De Gaulle. In questa situazione, era evidente, al di là delle sue titubanze e
ambiguità, che il Regno Unito sarebbe stato escluso dalla CEE.
I negoziati per l’allargamento della CEE nel 1961, per la diversità di posizioni degli Stati
che ne furono coinvolti, hanno fornito ampie argomentazioni a chi, come Alan S. Milward,
ha sostenuto che la Comunità, lungi dall’avere una finalità federalista, sarebbe stata sin
dalle sue origini un modo per rafforzare lo stato-nazione, messo in crisi dal secondo
conflitto mondiale. Secondo la tesi di Milward, quindi, la Comunità non sarebbe altro che
un meccanismo, molto funzionale, per coordinare gli “egoistici” interessi nazionali degli
stati membri a vantaggio di tutti. Una tesi simile, ovviamente, finisce con il negare
l’esistenza di un processo necessario e irreversibile verso la federazione europea e non
tiene conto del declino di fatto degli Stati europei. L’autore britannico giudica il metodo
sovranazionale un modo assolutamente originale rispetto al passato per realizzare la
ricostruzione dello Stato nazionale e non un una via per preservare le entità nazionali
all’interno di una più solida federazione europea plurinazionale che dovrebbe scaturire da
limitazioni di sovranità introdotte progressivamente. Pur non condividendo le posizioni
XVI
estreme di Milward e ritenendo che De Gaulle avesse avuto una visione più ampia del
problema della cooperazione in Europa rispetto ai suoi partner comunitari, l’impressione
che si può trarre dai documenti relativi al periodo da me considerato è che sulle due
sponde della Manica l’interesse primario fosse solo per i vantaggi che la CEE poteva
garantire al proprio Stato nell’immediato e non per le sue potenzialità federaliste. Sia
Whitehall sia l’Eliseo, pur non sembrando comprendere appieno come l’interesse dello
Stato passasse anche attraverso l’interesse dell’intera Europa, erano tuttavia costretti da un
contesto storico che assumeva i caratteri della “necessità” a prendere decisioni in linea con
questo.
La Gran Bretagna, durante i negoziati, presentò diverse richieste a tutela dei suoi legami
con il Commonwealth e con le sue colonie. Una parte della storiografia ha interpretato
queste richieste come una prova della cattiva fede britannica nell’accostarsi alla CEE. In
realtà, tali richieste da parte di Londra erano comprensibili. I membri del Commonwealth,
infatti, all’inizio degli anni ’60, erano soprattutto paesi del Terzo Mondo che non potevano
essere privati delle possibilità di sviluppo che il commercio preferenziale con la Gran
Bretagna offriva loro. Whitehall riteneva che i Sei le avrebbero accordato, senza eccessive
difficoltà, ampie concessioni per il commercio con l’Africa e i Caraibi poiché i prodotti
provenienti da questi paesi non erano in diretta competizione con quelli europei e perché la
stessa Francia aveva ricevuto garanzie a tutela del commercio con la “francophonie”.
Parigi, inoltre, aveva ottenuto, in ambito comunitario, aiuti economici a sostegno dei piani
di sviluppo delle sue colonie, che Londra sperava sarebbero stati estesi ai paesi più poveri
del Commonwealth e alle colonie britanniche.
Gli ostacoli posti da Parigi all’adesione britannica non erano tanto dovuti ai legami con
il Commonwealth, quanto ai legami di Londra con Washington. Parigi riteneva che la
Gran Bretagna, una volta entrata nelle Comunità, avrebbe appoggiato il piano di Kennedy
XVII
per realizzare una grande Comunità atlantica: era, quindi, fondamentale che la Francia
mantenesse la leadership della Comunità. Come disse il ministro dell’Agricoltura
francese, Pisani, bisognava impedire che nel “pollaio” comunitario vi fossero due “galli”.
Whitehall, peraltro, con la sua tendenza a irrigidirsi nei negoziati ogniqualvolta la sua
posizione contrattuale accennava a rafforzarsi e la sua eccessiva accondiscendenza verso
Washington, alimentò il sospetto di Parigi che la Gran Bretagna fosse un elemento
fondamentale nella strategia degli USA per vanificare i progetti indipendentisti di De
Gaulle.
Il Generale, pur avendo una prospettiva europea, riteneva la cooperazione un modo per
garantire un ritorno delle nazioni europee a un ruolo d’importanza mondiale in quanto
Stati-nazione e non come un’entità politica unica: di qui l’idea di realizzare un’unione di
tipo confederale. Un’Europa politica per De Gaulle, infatti, aveva senso solo se fosse valsa
a garantire alla Francia una posizione egualitaria con gli USA in ambito atlantico. Secondo
il presidente francese, il “genio” nazionale dei “Cinque” avrebbe dovuto suggerire loro di
seguire la guida di Parigi verso l’indipendenza. De Gaulle, quindi, dopo il falllimento del
piano Fouchet e le difficoltà che i “Cinque” avevano posto all’esclusione del Regno Unito,
che a suo giudizio rappresentava un Cavallo di Troia dell’egemonismo americano, prese a
considerare i suoi partner europei eccessivamente atlantisti. Una volta allontanato il
pericolo esterno, rappresentato dal mondo anglosassone, paradossalmente, De Gaulle
avrebbe volto le sue energie alla sconfitta della minaccia interna rappresentata dai
“Cinque”. Il Presidente francese, che all’inizio degli anni ’60 fu artefice del rapido
sviluppo delle Comunità, dal ’64 in poi ne avrebbe provocato la stagnazione.
La Gran Bretagna, come la Francia, non ebbe sempre simpatia per le scelte americane.
Londra mirava, quindi, ad avere una maggiore influenza su Washington e ad ottenere dagli
USA più libertà d’azione. Come ha scritto Wolfram Kaiser: “A majority within the British
XVIII
government, including Macmillan wanted more Europe in order to have more America”
(2). Whitehall si dovette però rendere conto che la situazione era molto più complessa del
previsto e che i segnali positivi provenienti da Washington erano in realtà illusori. Il
McMahon Act del 1946 vietava al Governo americano di rendere partecipi Stati stranieri,
anche se alleati, di segreti nucleari. In seguito all’incontro delle Bermude tra Macmillan e
Eisenhower nel 1958, però, tale legislazione fu emendata, escludendo la Gran Bretagna da
questo divieto. Il Regno Unito si illuse così che questo fosse un riconoscimento della
propria posizione speciale rispetto agli altri paesi europei. Solo tardi Whitehall parve
rendersi conto che l’emendamento, pur avendo rivitalizzato la cooperazione nel settore
atomico tra i due paesi anglosassoni, non significava che gli USA, desiderassero accordare
al Regno Unito un proprio nuclear deterrent indipendente. I discorsi di McNamara contro
i deterrenti atomici indipendenti non erano, infatti, rivolti alla sola Francia, ma anche alla
Gran Bretagna. La strategia di Washington, quindi, era volta a rendere Londra
tecnologicamente e strategicamente dipendente dagli Stati Uniti, impedendo che questa si
dotasse nel futuro di un deterrente genuinamente indipendente.
Sebbene ciò infastidisse Dowing Street, a differenza dell’Eliseo, il Governo britannico
non fece nulla, nonostante le interessanti proposte della Francia, per sfuggire alla
dipendenza atomica dagli USA, inducendo così De Gaulle a porre il veto all’allargamento
delle Comunità. Se la Gran Bretagna avesse avuto la possibilità di fornire alla Francia
tecnologie atomiche e non avesse ceduto alla dipendenza atomica dagli Stati Uniti,
probabilmente, la reazione del Presidente della Repubblica francese alla domanda di
adesione sarebbe stata molto diversa.
(2) WOLFRAM KAISER, Using Europe Abusing Europeans, Britain and European Integration, 1945-63,
London, Macmillan, 1996, p.190. Corsivo dell’autore.
XIX
La scelta del Generale, nel 1963, nonostante il suo atteggiamento ostruzionistico negli
anni successivi, avrebbe consentito nel lungo periodo la ripresa del dialogo politico
all’interno delle Comunità. Il Generale, inoltre, riuscì a tener distinta la cooperazione
atlantica dalla cooperazione europea poiché, a suo giudizio, solo così si sarebbe consentito
all’Europa di diventare realmente quell’equal partner cui spesso Kennedy faceva
riferimento nei suoi discorsi. Dal punto di vista britannico questo, però, significò vedere la
Gran Bretagna esclusa dalla cooperazione in Europa, accrescendo il sentimento “popolare”
di diffidenza nei confronti delle Comunità.
Mentre i Sei negli anni ’60 elaboreranno i loro progetti per lo sviluppo della CEE, il
Regno Unito sarebbe stato escluso da questo sforzo collaborativo, dovendo profondere
grandi energie, data l’ostilità di De Gaulle, per convincere i Sei della propria buona fede
nel richiedere l’adesione alle Comunità. La Gran Bretagna acquisì così più un’abitudine al
“negoziato” che alla cooperazione: essa avrebbe poi preservato tale atteggiamento verso i
suoi partner europei, anche dopo la sua adesione alle Comuità nel 1973. Questo può
aiutarci a comprendere perché ancor oggi la Gran Bretagna, più che contribuire alle
decisioni e agli sviluppi della CEE, s’impegni allo scopo di ottenere deroghe ai principi
generali, assumendo un atteggiamento di wait and see, che già le fu proprio durante i
negoziati per la creazione della Comunità Economica Europea. Come John Pinder ha
avuto modo di dirci durante un’intervista: la storia non può essere cambiata e, quindi, non
si può affermare con certezza quale sarebbe stata l’evoluzione della società britannica, nel
suo rapporto con l’Europa, se il Regno Unito non fosse stato escluso dalla CEE negli anni
’60 è probabile tuttavia che l’atteggiamento britannico avrebbe potuto rivelarsi più
costruttivo.
* * * *
XX
La ricerca si struttura in cinque capitoli. Il primo capitolo intende fare cenno a quelli che
furono gli atteggiamenti del Regno Unito nei confronti dell’Europa nell’immediato
dopoguerra: in questo capitolo, non si è cercato di presentare un’approfondita analisi
cronologica degli eventi, ma soprattutto di mettere in risalto alcune caratteristiche della
“mentalità” britannica nei confronti dell’Europa, che proprio in quegli anni vennero a
crearsi e che solo molto lentamente furono riviste nell’arco degli anni ’50. Sempre nel
capitolo primo si è fatto anche cenno alle principali interpretazioni che la storiografia
anglosassone ha fornito riguardo alla posizione che il Regno Unito assunse nei confronti
dell’Europa.
Nel secondo capitolo, invece, si è svolta un’analisi dell’evoluzione nell’azione del
Governo britannico dinanzi alle iniziative di unificazione “continentali” che, partendo
dalla CECA, attraverso il fallito tentativo CED, portarono alla creazione dell’Euratom e
della CEE. In particolare, ci si è soffermati sul tentativo di realizzare un’Area di Libero
Scambio per iniziativa di Londra, allo scopo di evitare la “balcanizzazione” dell’Europa
occidentale, e sulla realizzazione dell’EFTA. Questi due momenti sono fondamentali per
la decisione di procedere alla “first application”, perché è in seguito al loro fallimento che
Whitehall avrebbe compreso che non vi era alternativa alla CEE e che solo l’adesione alla
Comunità poteva impedire al Regno Unito di essere isolato politicamente ed
economicamente in Europa.
Nel terzo capitolo, è stato analizzato lo svolgimento dei negoziati, con particolare
riferimento al contesto britannico in cui si decise di procedere alla domanda d’adesione e
alla concezione d’Europa in Macmillan; sono state evidenziate, inoltre, le reazioni negli
USA, in Francia e nel Commonwealth alla “scelta” britannica.
Gli ultimi due capitoli sono stati dedicati al dibattito in Gran Bretagna sulla
“application”. Il quarto capitolo tratta dell’evoluzione nell’atteggiamento dei principali
XXI
quotidiani britannici, negli anni che vanno dal 1959 al 1963, al cambiare delle posizioni di
Governo sulla questione CEE. Il quinto capitolo invece espone le posizioni dei vari
movimenti e partiti politici sulla questione dell’adesione britannica, sempre tra il 1959 e il
1963.
Le fonti bibliografiche sul rapporto tra la Gran Bretagna e le Comunità sono svariate:
pochi però sono gli studi dedicati specificatamente negli ultimi tempi alla “first
application”. Di grande interesse risultano pertanto i recenti lavori di Piers Ludlow e di
Jeremy Moon. Quest’ultimo, in particolare, dedica ampio spazio alle reazioni
dell’opinione pubblica britannica all’apertura dei negoziati. Un’attenzione ben diversa ai
negoziati è riscontrabile, invece, in alcuni volumi autobiografici: nelle memorie di
Macmillan e nei diari di Egidio Ortona, pubblicati sul numero 3° del 1994 di “Storia
Contemporanea”. Numerose, inoltre, le opere pubblicate nel Regno Unito immediatamente
dopo il fallimento dei negoziati. Ad esempio, al di là di un certo “coinvolgimento”
dell’autore, importanti notizie vengono fornite dall’opera di Nora Beloff The General says
no del 1963, oltre che dall’opera di Miriam Camps Britain and the Common Market del
1964, ancor oggi da ritenersi una delle fonti più attendibili.
Alcune fonti da noi utilizzate consistono in scritti polemici contro l’atteggiamento di De
Gaulle, pubblicati negli anni ’60, che si sono rivelati molto utili per presentare il punto di
vista britannico sulle scelte del Generale. Opere quali Europe against de Gaulle di John
Pinder e De Gaulle’s Europe or why the General says no di Lord Gladwyn possono essere
facilmente consultate presso la British Library of Political and Economic Science della
London School of Economics. Sempre per lo studio del dibattito interno ha avuto grande
importanza lo scritto di Lord Windlesham Communication and Political power del 1966,
che si può consultare presso la British Library di St. Pancras, in cui l’autore fa un’ampia
analisi del dibattito sulle Comunità Europee in Gran Bretagna.