3
L’Italia contemporanea è certamente l’opera di Chabod che nel corso di
questi ultimi quarant’anni ha avuto la diffusione maggiore. L’ultima
edizione, infatti, con un’interessante introduzione di Giuseppe Galasso, è
apparsa nelle librerie proprio in queste ultime settimane.
Come spiegare il successo di un’opera che lo stesso autore non voleva
pubblicare e che essendo stata pubblicata agli inizi degli anni sessanta
del secolo scorso è un testo abbastanza datato? Oltretutto, alcuni giudizi
in essa contenuti, come per esempio quello riferito alle reazione della
Chiesa cattolica alle leggi razziali del 1938, sono stati ampliamente
confutati da ricerche pubblicate successivamente.
La spiegazione a questa domanda va ricercata nella struttura stessa del
libro e nel metodo che Chabod usa per la sua ricerca.
Nella prima pagina de “L’Italia contemporanea” Chabod confessa che
il compito di riassumere i trent’anni drammatici di storia italiana che
vanno dal primo al secondo dopoguerra
“lo spaventa un poco, per la complessità e la ricchezza di elementi che
si intrecciano”.
1
Questo stato d’animo, a sua volta, colpisce lo storico che oggi voglia
confrontarsi con un testo come questo: nonostante il panorama
bibliografico su quegli anni, infatti, sia vasto, l’opera di Chabod
rappresenta ancora un unicum. In esso la molteplicità della ricerca si
fonda perfettamente con l’unità della chiave interpretativa utilizzata, e ne
emerge una lettura chiara in cui tutti gli elementi vengono posti in modo
vettoriale ognuno dei quali è indispensabile per la definizione di un
quadro storiografico ben preciso.
Dal punto di vista metodologico, Chabod rifiuta ogni concezione di
storia statica, asettica, priva del fondamentale confronto con le fonti che
non solo avvalorano o smentiscono la tesi di partenza, ma sono la base
sulla quale si fonda il lavoro di ricerca dello storico.
“è la «sensibilità» storica dello studioso singolo a fargli avvertire ciò
che può e ciò che non può rimanere, dopo l’analisi critica del testo.
Regole generali qui, non si potrebbero dare: perché sarebbero regole di
carattere pratico, e nella pratica occorre anzitutto, secondo osservava il
principe degli storici italiani, Francesco Guicciardini, la
«discrezione».[...]
Il «metodo storico» che si apprende attraverso le opere ad esso
specificamente dedicate, cioè attraverso precetti e norme di carattere
generale e, apparentemente, assolute, non è una chiave che si adatti
1
F. CHABOD, L’Italia contemporanea, Einaudi, Torino, p. 19.
4
indifferentemente a qualsiasi serratura, un che di inalterabile ed
inalterato, un passe-partout; è invece un delicato strumento «variabile»,
che deve, appunto, essere «finito di adattare», nei singoli casi, dalla
intelligenza e dalla sensibilità dello studioso, come – se è lecito il
paragone – un obbiettivo fotografico deve essere regolato a seconda
della luce e dell’ambiente che esso deve ritrarre.”
2
In questo senso è l’oggetto della ricerca che detta il metodo, e non lo
storico che, a priori, sceglie quali dati prendere in esame. Quando
Chabod parla di « fiuto » intende quella particolare capacità, che si
apprende con il tempo, di « discernere » il dato da analizzare, quello al
quale è necessario porre le interrogazioni giuste.
Arnaldo Momigliano parla proprio del
“bisogno di impadronirsi, man mano che gli si presentano, di tutti i nodi
vitali della storia europea dal Trecento in poi. La irrequietezza dello
storico alla ricerca del proprio centro è palese ancora nella stessa
ostinazione con cui Chabod ritornava su se stesso, riprendeva temi già
trattati, pubblicava edizioni provvisorie e semi-clandestine molto del
meglio di se stesso.”
3
E’ la continua ricerca di quello che Chabod stesso chiama « vero storico
» che caratterizza l’intera sua opera storiografica. In particolare ne
L’Italia contemporanea emerge il tentativo, in parte riuscito, di dare
sintesi al tempo storico, di delinearne, in tutta la sua complessità,
l’evoluzione in esso contenuta: non un testo, quindi ma una serie di
quadri precisi di periodi e di personaggi che si susseguono nella
narrazione.
Quanto detto, però, spiega solo in parte le fortune editoriali di questo
testo.
Nella storiografia italiana degli ultimi decenni, esso resta un punto
fermo, un passaggio obbligato per chi voglia vedere la storia non come
uno sterile susseguirsi di avvenimenti, ma come una rete tanto intricata
nella quale spesso si resta imbrigliati. Non quindi dei fatti a sé stanti, ma
“In tutto questo, saper infine vedere gli uomini, le singole personalità
con i loro pensieri ed affetti: la storia, almeno fino ad oggi, è stata fatta
dagli uomini e non da automi, e dottrine e cosiddette strutture, che in sé
e per sé dal punto di vista della valutazione storiografica sono pure
astrazioni, acquistano valore di forza storica solo quando riescono ad
infiammare di sé l’animo degli uomini - dei singoli come delle
2
F. CHABOD, Lezioni di Metodo storico, Laterza, Bari, p. V-VII.
3
A. MOMIGLIANO, Appunti su F. Chabod storico, “Rivista Storica Italiana”, vol. LXXII, (1960), pp.
643-656.
5
moltitudini -, quando diventano una fede, una religione interiore capace
anche di creare i martiri.”
4
Ne consegue, perciò, una narrazione forte e precisa, in cui le vicende
umane dei protagonisti non si perdono rispetto al fluire storico, ma anzi
ne divengono protagoniste.
4
F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, Bari, 1976, p. 15.
6
Capitolo 1
Vita ed Opere
7
1.1 Gli anni della formazione
Federico Chabod nacque ad Aosta il 23 febbraio del 1901
5
. Il padre,
Laurent, notaio ad Aosta, era originario della Valsavaranche, nell’alta
Val d’Aosta. Aveva casa a Déjoz e vi amministrava l’alpe di Djouan, fra
Orvielle e il Colle di Entrelor, il cui reddito era già dal 1803 destinato
dal prozio Jean-Francois Chabod, canonico di Aosta, ad un legato-borsa
di studio per i giovani della famiglia. Federico visse sull’alpe, fra i 15 e i
20 anni, a stretto contatto con gli “arpians” locali, ascoltandone racconti
e leggende, che gli rimasero indelebilmente impressi
6
.
In quegli anni, seguendo lo zio Michele Baratono (il “caro zio Michele”),
generale degli alpini nella prima guerra mondiale, ed alcuni dei suoi
giovani amici aostani, tra i quali il fratello Renato, Lino Binel ed
Amilcare Crétier, compì alcune ascese delle quali lui, per tutta la vita,
non finì di gloriarsi. Sarebbe diventato «alpinista accademico», nonché
giovanissimo vicepresidente del CAI valdostano, dopo aver legato il suo
nome a due ascese al Dent d’Hérens, quella alla cresta Est compiuta il
29 agosto 1920 e quella alla cresta Sud l’anno seguente
Studente ad Aosta fino alla maturità classica, aveva come compagni di
classe Natalino Sapegno, Nestor Adam (futuro vescovo di Sion),
Margaria, (poi fisiologo di fama mondiale) e Giovanninetti, che sarebbe
divenuto un noto scenografo. Ne nacque una sorta di leggenda e si parlò
in seguito di quella classe di liceo come di qualcosa d’irripetibile
7
.
1.1.1 Chabod studente a Torino
La rendita familiare proveniente dall’alpe di Djouan, nonostante la morte
prematura del padre avvenuta nel 1919, gli permise di continuare gli
studi iscrivendosi per l’anno accademico 1920-21 alla facoltà di Lettere
e Filosofia dell’Università di Torino.
Nel suo Ricordo Ernesto Sestan parlando del rapporto con le “sue”
montagne, dice:
5
Per la vita e le opere di Federico Chabod ho fatto riferimento alla voce CHABOD, Federico di Franco
Venturi, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 24, Roma, 1980, pp. 344-351.
6
Le molte indicazioni riguardanti il rapporto fra Chabod e la Val d’Aosta per gli anni precedenti alla
sua iscrizione all’ateneo torinese (anni 1915-1919 circa) sono state tratte dall’articolo di
ALESSANDRO E ETTORE PASSARIN D’ENTRÈVES Federico Chabod e la Valle d’Aosta apparso nel
numero speciale che la “Rivista Storica Italiana” gli ha dedicato, LXXII (1960).
7
S. SOAVE, Chabod politico, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 25.
8
“Un fondo di nostalgia per le montagne che l’avevano visto crescere,
era sempre rimasto in Chabod. La città aveva ammorbidito, ma non
corrotto la sua natura schietta di montanaro, quella sanità istintiva e
primitiva dei sentimenti. Ma se dietro quest'equilibrio, sempre
preservato, della mente e del cuore, c’era la sua natia origine
montanara, una città, Torino, ha poi influito profondamente nella sua
formazione morale, culturale, politica del giovane Chabod, non solo
togliendogli qualche estrinseca ruvidezza del fare, ma incidendo nel suo
intimo di giovane già provato dalla vita, per la morte prematura del
padre, per le strettezze di una vita non agevole.”
8
Chi conobbe Chabod in quegli anni lo descrive come schivo e riservato,
alieno da ogni esibizione. A tal proposito è significativa la
testimonianza di Edmondo Rho, che non disdegna di confrontare Chabod
storico con il montanaro.
“Chabod era uno di noi, ma stava un po’ a sé, nella sua solidità di
montanaro valdostano. Risento il suo passo lento e sicuro, rivedo il suo
sorriso affettuoso. Poteva essere una guida, come in altro modo lo fu
per tanti giovani, e delle guide aveva la generosa nobiltà, la forza
tranquilla. Ad arrampicarsi aveva imparato quando ragazzo guardava le
sue pecore, non pastore d’Arcadia, né programmatico populista, ma
montanaro autentico, che aveva vissuto nelle baite, con le levatacce
all’alba per il pascolo e la lavorazione della fontina. In lui la passione
per la montagna era natura, non sport. Quest'accademico del Club
Alpino apparteneva ancora alla tradizione romantica, religiosa dei
Carrel, dei Whimper, per cui un’ascensione era un impegno morale, e
non aveva simpatia per gli acrobati dei campanili. Anche nel campo
intellettuale non fu mai un acrobata né un funambolo.
Calò fra noi nel ’19, con la maestà sperduta, la timida dignità del
montanaro inurbato, l’eterna pipa fra i denti, gli scarponi sonanti sul
marciapiede e qualche tentativo di eleganza a panciotti fiorati. Ma
presto cominciò a tener cattedra e ad imporsi in un modo decadente:
appassionato e fervoroso, attaccava a tutti i suoi famosi «bottoni».
Era un puro, un ingenuo, un uomo sano, profondamente buono. Si
rispecchiava nella musica soprattutto negli spiriti titanici come
Beethoven e Wagner, o sereni come Mozart e Rossini, e si
commuoveva cantando Montagnes Valdotaines, quando guidava nei
rifugi la ferma tristezza dei cori lenti e solenni.”
9
Durante il primo anno di università Chabod s’immerse completamente
negli studi. Non registriamo infatti collaborazioni scritte, né adesione a
8
E. SESTAN, Ricordo di Federico Chabod in “Terzo programma”, Roma, 1961, vol. 2, p. 175.
9
E. RHO, Il montanaro Chabod, in “Il Ponte”, agosto-settembre 1960, pp.1187-1189.
9
movimenti politici. I suoi compagni lo ricordano come uno studente che,
pur non ponendosi per indole al centro dell’attenzione,
“a poco a poco emerse per una ponderazione del giudizio, una composta
serietà di parole e di atti, che ne facevano sin d’allora un ideale
compagno, atto come pochi ad ascoltare e a discutere”
10
.
1.1.2 Rapporto con Gobetti
Non fu direttamente legato al gruppo del Gobetti, anche se vi è da
rilevare che fra i due non mancavano affinità intellettuali . Poiché
ancora non esistono studi che delineino con precisione i rapporti fra
queste due personalità, occorre rifarsi alle testimonianze. Mario Fubini,
parlando delle frequentazioni dello Chabod nei primi anni a Torino,
afferma:
“Non lo ritrovo nei miei ricordi, nemmeno in un tempo successivo , fra
gli assidui di Gobetti; e alle riviste gobettiane, la «Rivoluzione liberale»
e il «Baretti» non collaborò mai, se pur il suo nome si trova preposto
alla sezione storica nel programma del «Baretti», la rivista letteraria
culturale che doveva affiancarsi a «Rivoluzione liberale»”.
11
La critica che Chabod muoveva a Gobetti era di essere troppo
“orianesco”.
Il giudizio sulla figura dell’Oriani è ancora controverso. Nel convegno
su «Orianesimo e “Stato nazionale” nel primo ’900» tenutosi al Teatro
Alighieri di Ravenna il 24 e 25 febbraio 1984, Ennio Dirani ha bene
inquadrato l’influenza che quest’uomo ebbe nell’ambito culturale
dell’Italia degli anni ’20:
“Alfredo Oriani è stato, almeno per una generazione, un mauvais
maitre, un «filosofo della storia» facilmente utilizzabile da parte di una
cultura politica impegnata nella diffusione dei miti della potenza, della
grandezza, anche della razza; è stato testimone autorevole, talvolta
attore, in ogni caso sintomo delle tensioni, delle tentazioni e delle
contraddizioni di una società e di una cultura che percepiamo oramai
come remote, ma per le quali dobbiamo cercare chiavi non false per una
lettura disincantata ”.
12
La più famosa frase che Gobetti scrisse riguardo all’Oriani fu proprio
una nota posta in calce all’edizione del 1924 de La Rivoluzione Liberale
10
Giudizio che si può trovare in M. FUBINI, Federico Chabod studente di Lettere, in “Rivista Storica
Italiana”, LXXII (1960), pp. 629-642.
11
Ibidem, p. 629.
12
E. DIRANI, “Alfredo Oriani e la cultura del suo tempo”, Longo Editore, Ravenna, 1985, p. 19.
10
e può essere considerata la sintesi della sua lettura dell’opera dello
scrittore romagnolo.
Egli riporta:
“Un tentativo di storia del Risorgimento è tra le mie speranze.
Professato tutto il mio debito all’Oriani (La lotta politica in Italia,
nuova ed., «La Voce» 1921) e al Missiroli (La monarchia socialista, 2ª
ed. Zanichelli, Bologna 1922) devo pure avvertire l’insoddisfazione cha
lascia questa storia schematica, psicologicamente troppo poco realistica,
soprattutto dove si vorrebbe avere una descrizione più drammatica del
contrasto degli uomini, e un’intuizione dei fattori economici. Le nostre
obiezioni sono del tutto diverse da quelle mosse per il solito da letterati
o eruditi e non possiamo dimenticarci che tra i nostri padri egli è stato
il solo ad insegnarci l’idea della storia dimostrando quanto sia educativa
per chi voglia capire la vita contemporanea, una visione precisa del
Risorgimento
13
”.
Chabod, invece, rifuggiva dall’astrattezza ideologica orianesca, che,
filtrata attraverso Missiroli e Gentile, costituiva la pericolosa suggestione
di Gobetti.
Per dirla con il Sasso
14
:
Chabod era troppo storico, troppo portato ad aderire immediatamente, e
quasi si direbbe corposamente, al passato, perché i tono illuministici
presenti in quelle esperienze (il riferimento è a Salvemini e a Gobetti,
N.d.A.) potessero passargli dentro in profondità
15
.”
La sua carriera universitaria proseguì senza particolari problemi, con la
sola eccezione di un fatto riportato dalle cronache dell’ateneo torinese,
secondo cui lo Chabod sostenne alcuni esami nella facoltà di
giurisprudenza, per conto di un suo compaesano, dal nome molto simile
al suo
16
. Scoperto, fu minacciato di espulsione dall’università, ma
l’autorità accademica si limitò, infine, all’ ammonizione verbale.
L’ambiente universitario di Torino è molto bene descritto dall’ amico e
compagno, Ernesto Sestan, che così lo sintetizza:
“Torino così fervida allora di fermenti politici nuovi, così attraente e,
diremmo, così problematica per un giovane aperto agli spiriti della vita
13
P. GOBETTI, La Rivoluzione Liberale, Einaudi, Torino, 1995, pp. 34-35.
14
G. SASSO, Profilo di Federico Chabod, Napoli, 1961, ora in: G. SASSO, Il guardiano della
storiografia, Guida Editore. Napoli, 1985, pp. 33- 134.
15
Ibidem, p. 35.
16
Questo curioso episodio è riportato da A. D’ORSI nel suo testo La cultura a Torino tra le due
guerre, Einaudi, Torino, 1999, pp. 29. Per controllare direttamente la documentazione cfr. in ASUT,
VII 66, “Lettere”, VdA, 25 maggio e 6 giugno 1922. Lo studente in questione era Lorenzo Chabloz.
Chabod fu difeso strenuamente dal suo professore di Storia Moderna, Pietro Egidi.
11
moderna, che addusse Chabod alla vocazione storica, che gliela rivelò
a lui stesso; non nel senso che lo portasse ad assumere allora una
posizione politica, bensì nel senso che quel rigoglio di vita politica, con
i suoi contrasti accesi ed appassionarvisi fino a scendere all’azione
politica, ma sì a proporsi problemi, bisogni di chiarimenti e di soluzioni
ragionate, problemi anche di ordine morale, di responsabilità verso la
vita collettiva del proprio tempo, di chiarimenti alla luce del passato,
cioè della storia: dall’interesse per la politica all’interesse per la storia
c’è un passo.”
17
1.1.3 Rapporto con Pietro Egidi
Nel 1922 Federico Chabod sostenne l’esame di storia moderna con
Pietro Egidi
18
,che fu il suo primo e fondamentale maestro, quello che lo
introdusse allo studio della storia nell’ambiente torinese. L’ Egidi aveva
promosso una attività di ricerca molto vivace che sfociò dal 1923 in poi,
nella rinascita della Rivista Storica Italiana, fondata a Torino circa
quarant’anni prima da C. Rinaudo, in una veste fortemente rinnovata,
anche attraverso una maggiore apertura internazionale. Per capire quale
legame di filiale ammirazione vi era fra Chabod e l’Egidi si legga il
Necrologio apparso sulla Rivista all’indomani della morte del maestro.
Ne esce un ritratto commovente:
“Quelli di noi almeno che più gli erano vicini, gli aprivano intero il loro
animo, sicuri com’erano di non avere dinnanzi il «professore», ma un
uomo dall’animo buono e nobile quanto acuto e fine era l’ingegno.
Senza riserve era la nostra fiducia in Lui: poiché avevamo avvertito, sin
dai primi giorni, nello studioso l’uomo.
Bastava che ognuno di noi soffrisse, realmente soffrisse: e avvertiva
allora in lui un senso di umanità così commosso e così profondo da
rimaner senza parola, da non trovare il ringraziamento se non nello
sguardo e nell’animo. E così ci sentivamo ad un tratto vicina una
grande, grandissima forza morale: rifuggente da ogni esteriorità,
esprimentesi magari attraverso una espressione scherzosa; ma una forza
sicura, inflessibile a cui potevamo appoggiarci senza timori e senza
dubbi.
Ed io, ogni qual volta la cara immagine del mio Maestro si ripresenta a
me, lo vedo ancora, come l’ ho visto il primo giorno limpido che mi
fissa, affettuosamente e lungamente. ”
19
17
E. SESTAN, Ibidem, p. 176.
18
Per EGIDI (Viterbo, 6 dic. 1872 - Courmayeur, 1 ago 1929) vedi la voce Egidi, Pietro nel Dizionario
Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1993, vol. 42, pp. 301-304, curata
da R. PISANO.
19
F. CHABOD, “In memoria di Pietro Egidi”, in Rivista Storica Italiana,1960, pp. 363-364.
12
L’Egidi era per quella generazione di studenti un vero e proprio maestro,
nell’ accezione medievale: colui dal quale imparare un metodo
conoscitivo. La lezione dello storico viterbese viene fissata nel
Necrologio in una caratteristica ben distinta che si può rintracciare nei
lavori degli allievi. Così è riassunta da Chabod:
“Innato e profondissimo in lui era il senso del «divino» ch’è nell’opera
d’arte; innato il bisogno della contemplazione serena. Sì che, anche
quando faticasse tra membrane d’archivio per ricostruir le vicende di
un’abbazia e d’un comune, naturalmente e semplicemente Egli
«vedeva», al di là e al di sopra dei piccoli uomini ritrova il vero volto
del tempo passato.”
20
Questa capacità di “vedere più in là” ha avuto l’esplicazione massima nel
rinnovamento della Rivista Storica che, alla fine degli anni ’20, importò
ed ospitò tendenze storiografiche di altri paesi europei.
“Egli sentiva veramente la Rivista come creatura sua; l’amava come si
ama quel che da noi è stato creato: né volle abbandonarla anche quando
si trovò di contro alle più gravi e più diverse difficoltà.”
21
Chabod deve all’Egidi anche la prima pubblicazione. Allo storico
viterbese era stata commissionata una edizione del Principe di
Machiavelli per la collana dei Classici Utet ma, a causa dei molti
impegni, rinunciò e designò il suo giovane allievo per compiere l’opera.
Questi abbandonò subito la ricerca che aveva iniziato per una tesi
sull’origine delle Signorie dell’Italia Settentrionale ma produsse un
lavoro troppo voluminoso, che venne rifiutato dal direttore della collana,
Gustavo Balsamo Crivelli. Chabod utilizzò allora quel lavoro come tesi
di laurea e preparò un saggio ridotto come Introduzione al volume della
Utet. L’Introduzione tuttavia non era un semplice riassunto dell’opera
precedente ma un lavoro con una vita propria.
1.2 Gli Studi sul Machiavelli
L’Italia uscita dalla guerra con la pretesa della “vittoria mutilata” si trovò
in una crisi sociale profondissima, che una classe dirigente legata ai
vecchi canoni della politica liberale non era più capace di affrontare.
20
Ibidem p. 357.
21
Ibidem p. 365.
13
Trent’anni dopo Giacomo Perticone individuò il nuovo pericolo che il
giovane sistema politico italiano doveva affrontare nel “problema delle
masse” :
“Di fronte agli sbandamenti innegabili, alle contraddizioni, alle
confusioni di programmi e dottrine, riusciva difficile cogliere, intorno al
1920, le posizioni dei partiti e dei gruppi politici. Chi si fosse reso conto
solo di questo, e non com’era evidente, che la crisi significava appunto
disorientamento e sovrapposizione della prassi politica, doveva
invocare anzitutto la chiarificazione, denunciando un’esigenza
pedagogica, cui la nevrosi straziante del dopo guerra non poteva
soddisfare. Uomini di governo, capeggiatori di masse elettorali,
organizzatori di classe sono ora accusati e convinti di incapacità e di
incompatibilità con la nuova situazione, perché manifestamente
inadeguati al duro compito e alla responsabilità immane di condurre
masse armate contro masse armate – dopo di aver predicato e preparato
i quadri per l’urto inevitabile, l’urto prossimo, l’urto imminente ”
22
.
In quegli anni gli intellettuali italiani si inserivano nella discussione
politica sulla crisi dello stato leggendo l’opera del Machiavelli a partire
da interpretazioni ideologiche ben precise .
Nell’aprile del 1923, Mussolini, pubblicò su Gerarchia un articolo
intitolato Preludio a Machiavelli, in cui partendo da proposti eversivi
nei confronti degli ordinamenti liberali dello Stato vide il Segretario
fiorentino come colui che pose l’«antitesi fra Stato ed individuo» con la
prevaricazione del primo sul secondo.
Altra interpretazione dava pochi anni dopo Antonio Gramsci dal carcere
(e per questo conosciuta solo decenni dopo) nelle Noterelle sulla
politica del Machiavelli,
23
uno dei nuclei del suo pensiero politico, del
Partito nuovo Principe.
Chabod iniziò queste ricerche non tanto con lo scopo di entrare nel vivo
della polemica politica quanto piuttosto per tornare alle radici della
«crisi italiana». Egli trovò non tanto una causa di «decadenza», di
rilassamento morale, ma l’esaurirsi della forza innovatrice che avrebbe
avuto nel primo umanesimo essere il momento propulsore, poi
degenerato
24
, della rinascita italiana.
22
G. PERTICONE, La politica italiana nell’ultimo trentennio, Ed. Leonardo, Roma, 1944, p. 13.
23
A. GRAMSCI, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato Moderno in “Opere”, Einaudi,
Torino, 1948 ed. varie, V parte.
24
C. VIVANTI, Chabod e Machiavelli, in “Introduzione agli Scritti su Machiavelli”, Einaudi, Torino,
1993, pp. XVIII-XIX.
14
Studiare Machiavelli per dare un senso alla storia e alla cultura italiana
essere anche volontà del giovane valdostano. Arnaldo Momigliano ci
dice del sollievo che il lavoro sul Principe comportò:
“Per noi che lo leggemmo quando apparve in anni in cui non si faceva
altro che parlare dell’attualità di Machiavelli, il saggio di Chabod
sembrò un atto di liberazione. Il Principe era riportato al suo tempo e
commisurato alla realtà politica d’allora, era privato della sua
conclamata attualità per il secolo XX ”
25
.
Il merito principale di Chabod fu di ricollocare il pensiero di
Machiavelli nel suo periodo storico originario sottraendolo alle
strumentalizzazioni politiche.
Egli volle unire l’esigenza di pulizia morale e politica con il rigore
dell’analisi per contrastare un indirizzo che gli studi precedenti avevano
preso con forza
26
. E’ proprio grazie a quest’edizione critica che ancora
oggi possiamo con certezza affermare che estrapolare la lettura del
Principe dal suo contesto storico significa snaturarne appieno la portata.
Per Chabod Machiavelli è il personaggio che emerge dalla celebre lettera
al Vettori ove, quando a sera si spoglia della «veste cotidiana» e
«rivestito codecentemente» entra «nelle antique corti» per discorrere da
pari a pari con «gli antiqui uomini», vince le proprie miserie
27
, dunque
l’ uomo prima del politico.
Di Machiavelli ammirava «l’elemento passionale, immaginativo, in cui i
grandi pensieri nascono nel cuore»: sua tesi di fondo, sostenuta con
forza, fu, infatti, che il Principe fu scritto di tutto pugno nei pochi mesi
fra l’estate e l’autunno del 1513, al contrario di quanto sostenuto da altri
studiosi, fra tutti il Meinecke.
Chabod non si può estraniare completamente dall’epoca in cui scrive. Lo
Stato, infatti, è visto da Chabod come il prodotto di «una forte classe
dirigente». Le lacune e le debolezze di questa provocano inesorabilmente
lo sfascio e la crisi. Pertanto «la figura individuata dal Principe si faceva
sempre più innanzi sulla scena: di vivo, in Italia, non rimaneva che lui
solo»
28
.
Queste osservazioni traggono ovviamente origine anche dalla
profondissima crisi in cui si trovava il giovane Stato italiano e che si
svolgeva sotto agli occhi dello Chabod.
25
A. MOMIGLIANO , Appunti su F.Chabod storico, in “Rivista Storica Italiana”, 1960, p. 652.
26
C. VIVANTI, Chabod e Machiavelli, Introduzione agli Scritti su Machiavelli, Einaudi , Torino, 1993,
pp. XI.
27
F.CHABOD , Il Segretario fiorentino, in Scritti su Machiavelli, Einaudi, Torino, 1993, pp. 249-50.
28
F.CHABOD , Del «Principe», ora in Scritti su Machiavelli, Einaudi , Torino, 1993,p. 55.