2
redditività e spesso concentrati in settori non orientati all’esportazione, avrebbero
prima o poi reso insostenibile il debito; gli speculatori internazionali,
intravedendo tale rischio, al primo segnale di pericolo avrebbero ritirato i loro
capitali, in prevalenza finanziamenti a breve termine. Da questo punto di vista,
pertanto:
• la crisi asiatica sarebbe una crisi di bilancia dei pagamenti, legata cioè alle
previsioni circa l’andamento delle partite correnti e del saldo commerciale.
• la crisi asiatica sarebbe una crisi di insolvenza, poiché i paesi avevano
accumulato uno stock di debito estero che non avrebbero potuto sostenere a
lungo.
• l’insostenibilità del debito sarebbe stata causata dal cattivo impiego dei flussi
di capitale estero. Tale fenomeno sarebbe da spiegarsi attraverso le
caratteristiche del sistema finanziario, all’interno del quale operavano forti
distorsioni nell’allocazione del credito. In particolare, l’esistenza di garanzie
pubbliche sulle banche, sugli operatori non bancari e sulle imprese principali
avrebbe incentivato comportamenti di azzardo morale: a livello
internazionale, gli investitori non si sarebbero adeguatamente preoccupati
dell’allocazione dei loro fondi, e non avrebbero pertanto richiesto un premio
adeguato al rischio; a livello finanziario, banche pubbliche e sottocapitalizzate
avrebbero selezionato impieghi rischiosi, ad alto rendimento, ma con bassa
possibilità di successo, o impieghi legati a logiche politiche e non
economiche.
• la forte crescita dei prezzi delle attività ad offerta rigida (borse e mercati
immobiliari), seguita dal successivo crollo, sarebbe il segnale dell’allocazione
dei capitali esteri in attività non orientate all’esportazione, e dunque
inadeguate a consentire il rientro del debito; analoghi segnali di pericolo si
sarebbero potuti rintracciare nell’aumento delle sofferenze e degli incagli del
sistema bancario, sintomo di un inefficiente utilizzo dei fondi esteri.
• La repentina fuga dei capitali sarebbe stata facilitata dalla loro tipologia: i
finanziamenti esteri erano in gran parte costituiti da linee di fido interbancarie
3
on call, e da attività creditizie a breve e brevissimo termine negoziate
sull’euromercato ed intermediate dalle banche locali.
I capitali esteri affluiti a seguito alla liberalizzazione dei movimenti di
capitale avviata all’inizio degli anni Novanta, pertanto, non avrebbero finanziato
la crescita dell’economia, sostenuta da una elevata quota di risparmi sul PIL; al
contrario, essendo intermediati da un sistema creditizio inadeguato, essi
avrebbero reso instabile il sistema, consentendo il finanziamento di progetti
imprenditoriali marginali e la crescita speculativa dei valori mobiliari e
immobiliari.
A questo punto di vista se ne oppone un altro, centrato invece sugli
elementi di instabilità finanziaria presenti all’interno del sistema.
In Asia, come in genere in tutte le economie emergenti,
l’intermediazione finanziaria fra settori in surplus e settori in deficit era quasi
integralmente affidata alle banche. Esse raccolgono i risparmi delle famiglie
attraverso depositi a vista, ed in tal modo finanziano il ciclo produttivo.
Attraverso le banche dunque si opera la cosiddetta trasformazione delle
scadenze: bisogni di impiego del risparmio e bisogni di finanziamento, di diverso
orizzonte temporale, vengono messi in contatto e soddisfatti. Nel far questo, le
banche migliorano l’utilità generale; ma, contrapponendo nei bilanci attività a
breve termine con passività a medio/lungo termine, ed assumendo su di sé il
rischio di insolvenza delle imprese, si rendono vulnerabili. In particolare, anche
in presenza di un utilizzo produttivo del credito le banche sono esposte a crisi di
illiquidità: se tutti i depositanti accorressero a ritirare i propri fondi, esse
sarebbero incapaci di soddisfare tutte le richieste. In presenza di uno shock
esterno, per esempio di una cattiva notizia circa la solidità di una banca, un
depositante razionale correrebbe a ritirare il prima possibile i propri risparmi, in
maniera da poter essere soddisfatto; si avvierebbe pertanto il fenomeno noto
4
come bank run, a causa del quale le aspettative negative circa l’illiquidità della
banca si auto-avverano.
All’interno della crisi asiatica avrebbe operato un meccanismo di questo
tipo. I paesi in surplus, Giappone, Stati Uniti ed Europa, avrebbero indirizzato i
loro fondi verso i paesi dell’Asia sud orientale, prestando a breve termine alle
banche asiatiche; una crisi di fiducia, innescata probabilmente dal fallimento di
due grandi conglomerati coreani e di un intermediario finanziario thailandese nei
primi mesi del 1997, e dall’annuncio della banca centrale giapponese di una
crescita dei tassi di interesse, avrebbe avviato il ritiro delle attività nell’area, non
rinnovando i prestiti on call e quelli overnight, e scatenando il panico. L’assenza
di liquidità che ne sarebbe seguita avrebbe paralizzato il sistema dei pagamenti,
ed impedito ad aziende altrimenti solventi di smobilizzare i loro crediti
commerciali e finanziare il ciclo produttivo attraverso le banche, provocando
fallimenti a catena. Secondo questo punto di vista pertanto:
• La crisi asiatica sarebbe una crisi di liquidità: il timore di un peggioramento
del cambio o di difficoltà nel settore della intermediazione creditizia avrebbe
condotto i creditori esteri a non rinnovare i prestiti; nel contempo gli
esportatori asiatici avrebbero per lo stesso motivo iniziato a chiedere il
pagamento delle merci in dollari: il mercato valutario sarebbe diventato
rapidamente a senso unico, rendendo impossibile la quotazione di prezzi
danaro e lettera.
• La crisi asiatica sarebbe una crisi finanziaria; la crisi valutaria sarebbe solo il
sintomo di più vasti problemi di equilibrio finanziario, ed in particolare di
bassi rapporti fra M2 e riserve valutarie, debiti a breve termine verso l’estero
e riserve valutarie.
• La crisi di liquidità del sistema bancario avrebbe prodotto sia la paralisi del
sistema dei pagamenti che una stretta creditizia, a causa della quale molte
aziende altrimenti solventi sarebbero fallite, causando a loro volta un
peggioramento dei bilanci delle banche, in un circolo vizioso auto-alimentato.
5
• La despecializzazione e deregolamentazione dei sistemi bancari nazionali
avvenuta in Asia nel corso degli anni Novanta, consentendo alle banche di
ampliare la loro attività di trasformazione delle scadenze e di trasformazione
delle valute, avrebbe reso più vulnerabile il sistema.
• La crisi asiatica sarebbe stata amplificata dalla politiche monetarie e fiscali
restrittive, messe in campo dai Governi con il sostegno del FMI. Il Fondo
affrontò infatti la crisi asiatica con gli strumenti canonici della crisi valutaria,
alzando i tassi di interesse per bloccare la fuga dei capitali; in tal modo
avrebbe però alimentato la crisi anziché combatterla, riducendo ulteriormente
la liquidità del sistema. Al contrario, i dissesti nei bilanci delle banche
prodotti dalla fuga dei capitali esteri avrebbero dovuto essere neutralizzati
battendo moneta, in maniera da sostenere il sistema dei pagamenti e l’offerta
di credito. In tal modo si sarebbe arginato il panico, e bloccata la fuga dei
capitali esteri.
Ambedue le interpretazioni, dunque, attribuiscono alla intermediazione
finanziaria un ruolo centrale nella crisi asiatica, sia pure con percorsi logici del
tutto differenti, che metteremo in luce nel quinto capitolo. Nel sesto capitolo,
infine mostreremo come a seconda del punto di vista siano differenti le
valutazioni circa l’operato del FMI, gli interventi opportuni contro crisi di questa
natura e, soprattutto, quelli necessari affinché sia possibile evitarne il ripetersi.
I sostenitori della prima tesi centrano infatti le loro considerazioni
soprattutto sui seguenti temi:
• la possibilità che gli interventi del FMI amplifichino le distorsioni
nell’allocazione internazionale del credito, favorendo comportamenti di
azzardo morale; in tal senso, l’intervento del Fondo nella crisi messicana del
1994 avrebbe incentivato gli investitori a sottostimare il rischio di attività nei
paesi emergenti, influendo sulla crisi asiatica prima e su quella russa poi.
6
• la necessità di migliorare l’allocazione del credito operata dagli intermediari
nazionali, favorendo aumenti di capitale e ingresso di banche straniere, ed
introducendo più evoluti criteri di valutazione del merito creditizio delle
imprese.
• la necessità di migliorare i sistemi giuridici e le procedure concorsuali, in
maniera da consentire la rapida reimmisione nel circuito produttivo, a nuovi
prezzi, del capitale dismesso dalle aziende fallite, minimizzando pertanto gli
effetti negativi dell’insolvenza sul sistema.
• la necessità di sorvegliare che l’apertura ai flussi internazionali di capitale sia
accompagnata da una adeguata crescita della stabilità e professionalità del
sistema creditizio, da adeguati meccanismi di audit, dallo sviluppo di un
sistema legislativo e processuale coerente con lo stadio di sviluppo
economico del paese.
I sostenitori del secondo punto di vista, invece, focalizzano l’attenzione
su:
• La necessità di prevedere che il FMI possa agire in determinate situazioni
quale prestatore di ultima istanza, fornendo liquidità e valuta alle Banche
Centrali impegnate a difendere il sistema creditizio da fughe speculative dei
capitali.
• La necessità di introdurre nei sistemi creditizi coefficienti patrimoniali elevati
ed adeguatamente ponderati per categoria di rischio, allo scopo di limitare la
vulnerabilità del sistema; in tal senso, va migliorata nei paesi emergenti tutta
la normativa di vigilanza sull’attività creditizia, nonché i controlli e le
sanzioni.
• La necessità di introdurre misure fiscali che scoraggino l’afflusso di capitali
esteri a breve termine, i quali hanno prevalentemente carattere speculativo e
non transazionale; e la necessità di facilitare, al contrario, l’afflusso di capitali
a medio e lungo termine e gli investimenti diretti dall’estero, meno volatili e
quindi meno esposti alle variazioni del sentiment dei mercati.
7
Capitolo 1
La successione degli eventi
Nei decenni successivi all’abbandono del sistema di cambi fissato nel
dopoguerra con gli accordi di Bretton Woods, è facile riscontrare una crescente
frequenza di crisi finanziarie. Tuttavia, la Crisi Asiatica del 1997 è dotata di sue
proprie peculiarità, che analizzeremo nelle pagine seguenti, e che la rendono
atipica rispetto alle crisi valutarie e finanziarie precedenti.
La regione asiatica sud orientale aveva conosciuto a partire dai primi
anni Settanta un forte sviluppo: il PIL era cresciuto più rapidamente che in
qualsiasi altra area, e con esso erano migliorati la distribuzione dei redditi, il
livello medio di istruzione, il regime alimentare, l’aspettativa di vita. Negli anni
novanta, il sentiero di sviluppo dei NICs (New Industrialized Comers: Corea,
Singapore, Taiwan e Honk Kong) e degli ASEAN - 4 (Association of South East
Asian Nations: Filippine, Thailandia, Indonesia e Malesia) era stato più volte
applaudito dalla comunità economica internazionale, ed indicato quale esempio
da seguire alle altre economie emergenti.
Scopo del presente capitolo è descrivere lo scenario antecedente la crisi;
e le forme che questa assunse dai primi segnali sino al 1998. Descrivere infatti la
successione degli eventi, e lo stato macroeconomico dei paesi coinvolti, è
8
indispensabile ai fini di comprendere il dibattito in corso circa i metodi di
previsione e prevenzione di nuove crisi, e gli interventi necessari allo scopo di
attenuarne le conseguenze.
Prima del 1997 la percezione delle economie asiatiche diffusa sui
mercati, fra gli economisti, nella comunità e nelle istituzioni internazionali, era
sostanzialmente positiva, senza segnali forti di preoccupazione
1
. Persino Article
IV Report, lo studio economico approfondito che il FMI annualmente invia in
forma riservata ai governanti di ciascun paese, non evidenziava motivi di grave
allarme. La Thailandia, il paese da cui iniziò la crisi, era stata avvertita nel 1996
che, se non si fossero prese le opportune misure, il forte indebitamento in valuta
estera avrebbe potuto esporre alla speculazione; negli altri paesi dell’area lo staff
del FMI allertava semplicemente i governanti circa l’esistenza di segnali di
debolezza del settore finanziario.
Fra gli economisti, le valutazioni erano ovviamente molteplici; esisteva
un modesto numero di scettici, i quali guardavano in modo critico al mito del
miracolo asiatico, e ritenevano che si sarebbe verificata presto una diminuzione
dei profitti ed un peggioramento degli indicatori economici. Krugman (1994)
evidenziava la presenza di un forte sbilancio delle partite correnti nei paesi del
sud dell’Asia, indicandolo come un possibile veicolo di difficoltà del tipo di
quelle in quel momento sperimentate in America Latina.
Anche i peggiori pessimisti, però, ipotizzavano una crisi valutaria di tipo
convenzionale, seguita da un lento “atterraggio” dell’economia, nel corso del
quale il tasso di crescita si sarebbe progressivamente ridotto. Nessuno ipotizzò
quello che invece accadde: una violenta svalutazione del cambio, un drastico
crollo dei corsi azionari, obbligazionari, immobiliari; una catena di fallimenti di
1
Il 10 Marzo del 97 il Governo Thailandese aveva annunciato l’acquisto di 3,9 miliardi di dollari di
crediti in sofferenza da istituzioni finanziarie del paese. Il Direttore Generale del FMI Michel Camdessus
dichiarò in quell’occasione: "I don't see any reason for this crisis to develop further" (citato in Tropeano
2001).
9
banche e intermediari finanziari, e di imprese di ogni dimensione, ritenute
eccellenti solo pochi mesi prima; la riduzione (non una minore crescita!) del PIL,
in paesi che non conoscevano recessione dal 1965.
Nessuno, inoltre, si attendeva che la crisi si potesse diffondere fra paesi
con strutture produttive così differenti, e modesti scambi commerciali reciproci
2
.
Poiché fra le peculiarità della crisi ci fu proprio la rapidità con la quale
essa colpì duramente e si diffuse, il suo studio non può prescindere da una
ricostruzione della successione degli eventi.
1. Il periodo antecedente la crisi
Negli anni 1995 - 96, dopo un lungo periodo di forte crescita, le
economie asiatiche presentavano alcuni segni di turbolenza, non ritenuti tuttavia
preoccupanti
3
.
In Thailandia il deficit delle partite correnti stava aumentando, passando
dal 5,7% del 1993 al 8,4% del 1995. La crescita del PIL, pure elevata, rallentava.
Le condizioni del paese apparivano le più fragili nell’area: banche ed imprese
erano finanziariamente deboli, con forti debiti a breve a fronte di attività a
carattere speculativo, spesso investimenti immobiliari e mobiliari. Nei primi mesi
del 1996, tale debolezza viene recepita dai mercati, e si trasforma in un primo
modesto attacco al baht, difeso con successo dalla Banca di Thailandia
4
.
2
Krugman (1997) parla di “bahtulism”, con riferimento ad una sorta di “contagio” che dalla Thailandia si
sarebbe diffuso alle altre economie dell’Area Pacifico. Il termine contagio è diventato di uso corrente
nello studio delle crisi.
3
I dati utilizzati nella trattazione seguente sono tratti da Corsetti, Pesenti e Roubini (1998a).
4
Il sostegno richiese tuttavia l’impiego di 28 miliardi di dollari di riserve valutarie, su un totale di 30.
10
Come detto, l’Article IV Report del FMI aveva evidenziato la debolezza
della struttura finanziaria delle aziende di credito, le quali erano sovente
sostenute da banche estere, a loro volta rassicurate dalle dichiarazioni del
Governo circa eventuali casi di insolvenza
5
.
Segnali di instabilità erano presenti anche in Indonesia, unico paese in
cui il tasso di inflazione raggiungeva valori elevati. La Banca di Indonesia
perseguì in risposta una politica monetaria blandamente restrittiva, che si
proponeva il duplice obiettivo di ridurre la domanda interna senza alzare troppo i
tassi di interesse; si temeva infatti che la crescita dei tassi avrebbe attratto nuovi
flussi di capitale estero, apprezzando la rupiah ed influendo negativamente sul
saldo commerciale. La Banca di Indonesia, pertanto, agì sulla riserva
5
Un caso esemplare, ed importante nel narrare gli eventi che condussero all’attacco speculativo, e’ quello
di FINANCE ONE, la più grande azienda finanziaria del paese. Nel 1996 la Banca Centrale aveva
costituito uno speciale fondo per il sostegno delle aziende di intermediazione finanziaria, il Financial
Development Fund (FIDF). Agli inizi del 1997 il FIDF era stato utilizzato per iniettare liquidità nel
sistema, attraverso un maxi-finanziamento di 8 miliardi di dollari alle aziende finanziarie del paese; il
17,5% di tale importo era indirizzato a Finance One. Nello stesso periodo, la ING Bank deliberò la sua
partecipazione ad un prestito sindacato di 160 milioni a Finance One, avente capofila la World Bank
International Finance Corporation. Secondo le dichiarazioni rilasciate al Financial Times (1/12/1998) da
Jan Cherim, country manager di ING Bank, la Banca Centrale Thailandese avrebbe fugato ogni dubbio
circa la solvibilità del debitore, facendo esplicite dichiarazioni circa un intervento di copertura in caso di
difficoltà finanziarie. La crescita del tasso di interesse aveva raddoppiato la quota delle sofferenze della
Finance One nel corso del 1996; nei primi mesi del 1997 la quota era nuovamente raddoppiata. Gli
indicatori di equilibrio finanziario dell’impresa erano i peggiori fra le aziende del settore nel paese. Il 23
Maggio il governo tentò il salvataggio promuovendo la fusione con un altro gruppo non in difficoltà.Il
tentativo fallì, e non fu possibile evitare la bancarotta se non con un nuovo intervento del FIDF, che
dichiarò di essere intenzionato a rilevare una partecipazione in Finance One. La dichiarazione, però, non
ebbe seguito: il 25 Giugno il governo dichiarò che non avrebbe sostenuto Finance One. Lo stesso giorno
il nuovo Ministro delle Finanze annunciò la scoperta che le riserve valutarie del paese erano state quasi
integralmente bruciate nel sostegno del baht sotto attacco in primavera. Il Governo, cioè, realizzò di non
aver risorse sufficienti per difendere contemporaneamente il valore delle imprese domestiche ed il
cambio. Ne seguì un durissimo attacco speculativo al baht. Il 2 Luglio (data fondamentale nella
cronologia della crisi asiatica) la banca centrale abbandonò ogni difesa del baht, lasciandolo fluttuare
liberamente. Il 5 Agosto, quando il baht era disceso del 20%, il governo thailandese annunciò un piano di
rilancio del settore finanziario, parte di un più vasto programma regionale del FMI; il piano prevedeva la
chiusura di 56 compagnie finanziarie (oltre le 48 che già erano state poste in liquidazione nei mesi
precedenti). Di fatto, si trattava di una esplicita ammissione di resa, rendendo chiaro che gran parte delle
aziende del settore erano di fatto sull’orlo della bancarotta prima dell’inizio della crisi valutaria e del
panico fra gli investitori. Il racconto della genesi della crisi in Thailandia ha il merito di rendere
facilmente intelligibile il problema dell’azzardo morale, che analizzeremo meglio in seguito: le continue
dichiarazioni di garanzia provenienti dal governo fornirono un efficace supporto all’aumento degli
squilibri finanziari, incentivando l’incremento del debito degli intermediari finanziari domestici verso
investitori esteri.
11
obbligatoria, innalzata nel corso del 1996 dal 2% al 5%; ed ampliò la banda di
oscillazione intorno al cambio medio giornaliero verso il dollaro dal 2% al 3%,
nella speranza che l’accresciuto rischio di cambio scoraggiasse gli investitori
stranieri.
L’andamento dell’economia appariva sotto controllo. D’altro canto, il
governo Suharto avviò in questo stesso periodo una serie di progetti costosi, il
cui unico ritorno certo era per i membri della famiglia coinvolti
6
. Su questa base,
l’Indonesia aveva negli ambienti d’affari di Hong Kong la fama di “paese più
corrotto in Asia”.
Anche in Malesia lo sbilancio di partite correnti si era significativamente
ampliato fra il 1993 e il 1995, raggiungendo l’8,8% sul PIL. Il bilancio pubblico
era in sostanziale pareggio; nel 1995 tuttavia gli investimenti pubblici si
impennarono del 25%, a causa di un ambizioso piano governativo (“Vision
2020”), teso a far ottenere lo status di paese industrializzato entro il 2020. Non si
rilevavano segnali di inflazione; in realtà, il surriscaldamento dell’economia si
stava traducendo in un aumento delle importazioni piuttosto che in un aumento
dei prezzi; da un sostanziale pareggio di bilancia commerciale nel 1993 si passò
ad un deficit del 3,75% rispetto al PIL nel 1995. Malgrado ciò, il governo non
mutò la sua politica fiscale. La banca centrale malese (BN Bank of Negara)
adottò una serie di misure restrittive, aumentando le riserve obbligatorie, e
restringendo il limite per il credito al consumo e per il credito fondiario. Come in
Indonesia, si cercò cioè di ridurre la domanda interna senza che questo
6
Nel Febbraio 96 all’ASRI PETROLEUM GROUP, un gruppo fortemente indebitato fondato da uno dei
figli di Suharto, fu concesso un aumento delle tariffe.
Nello stesso mese, Suharto inaugurava il “National Automobile Program”, secondo il quale le imprese
“pionieristiche” che avessero avviato la produzione avrebbero ottenuto esenzioni fiscali. Fu ammessa al
programma una sola azienda, impegnata in un accordo con la coreana Kia Motors, e di proprietà di un
altro figlio di Suharto. Subito dopo, il governo annunciò che per tre anni nessuna altra impresa avrebbe
ottenuto gli sgravi fiscali, neanche se avesse ottemperato ai requisiti previsti dal programma.
Nel Dicembre 1995 i limiti temporali per l’ASEAN Free Trade Area furono prorogati al 2003. Suharto,
chiese e ottenne che una lista di prodotti fossero esclusi dalla liberalizzazione commerciale: riso, grano,
zucchero, fluoro, prodotti unicamente da aziende monopoliste controllate da membri della famiglia
Suharto.
12
provocasse afflussi speculativi di valuta estera
7
. Alla fine del 1996 i segnali di
turbolenza erano terminati: la crescita era rallentata, e, soprattutto, c’era stata una
brusca caduta nella crescita dell’export, passato dal 22,9% del 1995 al 7,3% del
1996. Il cambiamento più importante, però, era un cambiamento nell’attenzione
dei mercati alla Malesia, i cui alti tassi di interesse parevano troppo allettanti per
poter essere trascurati. Nel 1996 gli afflussi di capitale estero a breve termine
erano quasi quintuplicati rispetto al 1995, arrivando a 11,3 miliardi di dollari.
Nello stesso anno, l’accresciuta disponibilità di fondi produsse una vigorosa
espansione degli impieghi bancari, con una sterzata dal settore manifatturiero al
credito fondiario, e all’acquisto di posizioni in titoli azionari. L’accresciuta
offerta di credito per l’acquisto di immobili produsse una forte crescita del
prezzo del mattone; l’incremento superò il 25% nelle maggiori città malesi.
La Bank of Negara intervenne sulla evidente bolla speculativa solo il
primo di Aprile, annunciando un limite alla percentuale di impieghi nei settori
immobiliare e mobiliare
8
. Gli effetti sui mercati furono immediati, dando il via ad
una serie di vendite dei titoli collegati direttamente o indirettamente al settore
immobiliare; tali titoli, sovrappesati nel listino, trascinarono l’intero indice al
ribasso, causando la fuga degli investitori
9
.
In Corea del Sud i fondamentali apparivano già seriamente compromessi
prima della crisi. Lo sbilancio delle partite correnti nel 1996 fu del 4,8%,
incrementando il già grande stock di debito estero. L’afflusso di capitali
dall’estero premeva sul cambio, causando una forte diminuzione dell’export, e
dunque un forte rallentamento nell’indice di crescita della produzione industriale.
La struttura produttiva coreana, inoltre, appariva peculiare, più simile a quella del
7
Nel 1992 la BN aveva già bloccato un attacco speculativo di quel tipo introducendo restrizioni e penalità
sugli strumenti creditizi a breve posseduti da stranieri. Queste misure, però, nel 1995 erano già state
smantellate.
8
I limiti stabiliti erano il 15% del totale per le banche commerciali, ed il 30% per le merchant bank.
9
il listino scese del 6,6% la prima settimana dopo l’annuncio (- 17,2% rispetto al livello massimo della
settimana precedente; il 15 Maggio, il livello la capitalizzazione di borsa era tornata al livello di sedici
mesi prima.
13
Giappone che a quella degli altri paesi del Sud Est Asiatico. Gran parte del
reddito nazionale traeva origine dall’opera dei chaebols, i grandi conglomerati
industriali. Molti di essi erano oberati da un indice debiti/capitale sfavorevole e
da indici ROI
10
e ROE
11
spesso negativi; le loro condizioni finanziarie, e quelle
delle banche loro creditrici, apparivano pertanto pessime. Già un anno prima
dell’avvio della crisi il corso dei titoli azionari era in diminuzione, con una
perdita del 36% rispetto ai massimi del 1994; la perdita di valore causava inoltre
la riduzione del capitale delle banche che detenevano i titoli in portafoglio,
riducendo di conseguenza la loro capacità di concedere credito. La divisa
domestica, lo won, appariva molto debole.
Il sistema produttivo coreano viveva una fase di trasformazione; alcuni
fra i maggiori chaebols erano in bancarotta. Il sistema bancario nazionale, ed in
particolare le merchant bank, legate a doppio filo con i conglomerati, era colpito;
indebitato a breve in valuta estera a fronte di attività a lungo ad alta volatilità e
basso rendimento, appariva in difficoltà.
La serie dei fallimenti prese il via nel Gennaio 1997, con la Hanbo Steel,
schiacciata da sei miliardi di dollari di debito; e seguita in Marzo dalla Sammi
Steel, ed in Aprile dal Jinro Group. A Luglio il Kia Group, ottavo conglomerato
del paese, manca al pagamento di 370 milioni di dollari di debito internazionale,
e viene posto in liquidazione. La portata della crisi fu chiara da subito; già nel
Febbraio 1997 il New York Times pubblica:
10
Return on Investment (o “resa del capitale impiegato”), ovvero il rapporto fra il Reddito Operativo ed il
Capitale Investito nell’impresa. L’indice misura la redditività della gestione caratteristica di un’impresa,
cioè la redditività tratta dalla sua attività tipica, industriale o commerciale, escludendo gli effetti delle
gestioni finanziaria, straordinaria, e fiscale. Il reddito operativo è: ricavi-costi di vendita-spese generali
d’amministrazione spese per ricerca e sviluppo-spese di ristrutturazione +/- altri redditi/spese. Il capitale
impiegato è il totale delle attività di bilancio-voci finanziarie-voci fiscali.
11
Return on Equity, ovvero il rapporto fra il Reddito Netto e Mezzi Propri; l’indice misura l’utile – o la
perdita – attribuita ai proprietari dell’impresa per ogni unità di capitale da essi conferita.
ROE e ROI sono evidentemente correlati; il ROE, dipende infatti dal ROI (che misura la redditività
caratteristica) e dalla incidenza delle gestioni non caratteristiche, misurabile come rapporto fra Reddito
Netto e Reddito Operativo.
14
“South Korea is now gripped by a deep unease about its
future. Economic growth is slowing, the stock market is
near a four-years low, the won has sunk to its lowest
exchange rate against the dollar in a decade, and the trade
deficit has more than doubled in the last year. Banks are
hobbled by bad debt, business strangled in red tape, and
wages are soaring, weakening industrial competitiveness.
Suddendly, it seems to Korean that the era of fast growth is
ending, endangering hopes that their country will make the
leap from industrialization to a high-technology economy
on a par with the U.S.A. and Japan. The sense of crisis has
been punctuated in two events in the last month – the
nationwide strike in reaction to a new labor law that
threatens job secury, and the stunning collapse of Hanbo
Steel, flagship of the nation’s 14th largest conglomerate,
under nearly 6 billion dollars in debt and a cloud of
corruption. ‘Most people don’t think it’s a cycle, but that
something structural is wrong’ said Kim Pyung Koo, a
professor of economics at the Sogang University in
Seoul
12
.”
Nelle Filippine il sentiero di crescita appariva più equilibrato. Il FMI da
anni supervisionava le riforme economiche, e grazie ad un’avviata politica di
privatizzazioni i conti pubblici erano in perfetto ordine. La percentuale di crediti
in sofferenza era bassa rispetto a quella presente in altri paesi dell’area,
12
Citato da Corsetti, Pesenti e Roubini (1998a).
15
suggerendo l’idea di un sistema creditizio più saldo ed efficiente. Anche nelle
Filippine, tuttavia, esisteva un deficit corrente ampio, apprezzamento della
moneta in termini reali e rapida crescita dell’offerta di credito, impiegato
prevalentemente in partecipazioni azionarie ed immobili.
Figura 1. Alcune Economie Asiatiche: Tassi di Cambio Bilaterali con il Dollaro e Corsi Azionari.
(In dollari per unità di valuta, scala logaritmica, 5 Gennaio 1996=100)
Fonte: IMF (1999)