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d’essere al loro posto a far lo stesso di loro. Un’altra città ingiusta, pur
sempre diversa dalla prima, sta dunque scavando il suo spazio dentro il
doppio involucro delle Berenici ingiusta e giusta. Detto questo, se non
voglio che il tuo sguardo colga un’immagine deformata, devo attrarre la
tua attenzione su una qualità intrinseca di questa città ingiusta che
germoglia in segreto nella segreta città giusta: ed è il possibile risveglio –
come un concitato aprirsi di finestre – d’un latente amore per il giusto,
non ancora sottoposto a regole, capace di ricomporre una città più giusta
ancora di quanto non fosse prima di diventare recipiente dell’ingiustizia.
Ma se si scruta ancora nell’interno di questo nuovo germe del giusto vi si
scopre una macchiolina che si dilata come la crescente inclinazione a
imporre ciò che è giusto attraverso ciò che è ingiusto, e forse è il germe
d’un’immensa metropoli… Dal mio discorso avrai tratto la conclusione
che la vera Berenice è una successione nel tempo di città diverse,
alternativamente giuste e ingiuste. Ma la cosa di cui volevo avvertirti è
un’altra: che tutte le Berenici future sono già presenti in questo istante,
avvolte l’una dentro l’altra, strette pigiate indistricabili”.
Le città invisibili
Italo Calvino
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CAPITOLO 1
PRESUPPOSTI EPISTEMOLOGICI NELLO SVILUPPO
DELL’ANTROPOLOGIA URBANA
Art. I
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di
coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
Dichiarazione universale dei diritti umani, 1948
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1. Verso un’antropologia delle società complesse
E’ a partire dalla fine degli anni Sessanta che si afferma, prima negli Stati
Uniti e poi in Europa, quel settore degli studi antropologici che
solitamente prende il nome di antropologia delle società complesse o di
antropologia urbana. In pochi anni, nell’ambito di questo nuovo terreno
dell’antropologia, si sono prodotte decine e decine di ricerche sugli
argomenti più diversi: sulla storia delle più antiche società urbane, sui
processi di modernizzazione delle culture tradizionali, sui grandi
fenomeni di migrazione e di urbanizzazione di questi ultimi decenni e
sullo stile di vita delle grandi metropoli occidentali. Malgrado ciò, i pareri
degli antropologi in merito alla consistenza e legittimità scientifica di
questo settore, non sono ancora concordi: a un estremo, c’è chi ritiene che
l’antropologia, se vuole sopravvivere come scienza empirica, dovrà
necessariamente diventare nella sua totalità antropologia delle società
complesse; all’estremo opposto, non pochi continuano a mantenere un
certo scetticismo sul fatto che l’antropologia possa dare un qualche
contributo alla comprensione di quanto accade in società non tradizionali.
Incomincia a delinearsi un nuovo campo di lavoro per l’antropologo che
potrà quindi analizzare non solo il mondo esotico delle società
tradizionali, bensì il mondo occidentale a cui egli stesso appartiene che si
esprime attraverso le città e le dinamiche a loro intrinseche. Emerge in
sostanza un oggetto nuovo accompagnato da nuovi comportamenti, modi
di vita e forme di pensiero non più riscontrabili dalle classiche categorie
dell’antropologia. Allo stesso tempo si riscontrano i limiti di
un’antropologia non adatta a studi di questo tipo che deve rinnovarsi e
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trovare nuovi approcci nei confronti di un nuovo oggetto di studio, per
non cadere nel riduttivismo e nell’incapacità di rappresentare realtà non
semplici.
Già nel 1925 Robert Park, massimo rappresentante della scuola di
Chicago, impronta i suoi studi sulla vita e la cultura urbana su tre
affermazioni:
a) l’antropologia è scienza dell’uomo in generale e, quindi, anche l’uomo
civile è oggetto di indagine altrettanto interessante;
b) la cultura delle società moderne è, nei suoi moventi fondamentali,
identica a quella delle società semplici o tradizionali;
c) i metodi utilizzati dall’antropologia per lo studio delle società semplici
possono essere impiegati, ancora più vantaggiosamente, nello studio delle
nostre società.
Seppur azzardato, il programma di Park getta le basi per l’aumento dei
contributi che porteranno l’antropologia ad occupare una posizione
importante all’interno del mondo moderno e post-moderno. Alla società
primitiva, quale oggetto di studio, subentra la società umana a prescindere
dalla localizzazione socioculturale. Scrive Leroi-Gourhan nel 1955:
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“La grande, recente scoperta è stata quella del miliardo di
uomini che l’etnologia dimenticava, a cominciare dai
compatrioti dello stesso etnologo: si sapeva tutto della vita di
qualche centinaio di aborigeni dell’India senza conoscere gli
Indiani stessi e si conosceva ogni segreto del folklore bretone
senza sapere cosa rappresentino da un punto di vista etnologico
le masse operaie della regione parigina. E’ a partire da questa
presa di coscienza che l’etnologia ha potuto assumere il suo
vero significato” (1955, Paris).
Levi-Strauss, tuttavia, in qualità di padre dello strutturalismo, riteneva
impossibile ricondurre la complessità all’interno di una prospettiva
antropologica e argomentava la sua posizione attraverso una metafora:
“Le società assomigliano un poco alle macchine e vi sono due
tipi di macchine: le meccaniche e le termodinamiche. Le prime
utilizzano l’energia loro fornita all’inizio e, se sono ben
costruite, se non vi è attrito o riscaldamento, teoricamente
possono funzionare indefinitamente con l’energia iniziale. Le
macchine termodinamiche, invece, sono basate su una
differenza di temperatura fra la caldaia e il condensatore e per
quanto producano un lavoro molto maggiore delle altre,
consumano la loro energia e progressivamente la distruggono.
Direi che le società studiate dall’etnologo, confrontate alle
nostre grandi società moderne e ‘calde’, sono società ‘fredde’:
esse producono pochissimo disordine (entropia) e tendono a
mantenersi sempre allo stato iniziale. Può sembrare
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stupefacente, ma le regole della parentela e del matrimonio, gli
scambi economici, i riti, i miti e altri avvenimenti del genere
possono spesso essere concepiti sul modello di piccoli
meccanismi che funzionano in modo regolare e compiono
determinati cicli [...]” (Levi-Strauss, 1970, p.47).
In sostanza per Levi-Strauss le società semplici sono caratterizzate da
regole meccaniche secondo le quali un certo numero di fattori convergono
nella realizzazione di un dato moto e di un dato equilibrio: un processo
basato su principi di causa-effetto. Dunque, la variazione di un singolo
elemento influisce sull’intero sistema. Le società complesse, pur essendo
anch’esse sistemi, sono di tipo termodinamico, costituite da uno scambio
continuo tra lavoro meccanico, calore e ambiente esterno. E’ quest’ultimo
a definire il sistema stesso e il suo variare non dipende dal variare di ogni
singola particella né vi è un rapporto di causa-effetto fra il sommarsi delle
microvariazioni e il modificarsi dei valori macroscopici. Le prime sono
società autentiche nel senso che ogni individuo sa sempre chi è
l’individuo che gli sta davanti, qual è il senso della maschera che indossa,
qual è la posizione e il suo ruolo sociale e, principalmente, nel senso che il
rapporto fra individui determina effettivamente l’andamento della società
nel suo insieme. Al contrario, in relazione alle società complesse
possiamo parlare di società inautentiche: inautentiche e artificiali sono le
relazioni che le attraversano, nessuno sa cosa si nasconda sotto la
maschera dell’altro e, principalmente, nessuno sa quale effetto la propria
azione possa produrre sull’equilibrio generale. La posizione di Levi-
Strauss si snoda su tre passaggi:
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a) l’antropologia in quanto scienza deve sussumere il comportamento
umano a regole generali, deve avere come suo fine le strutture ultime, le
strutture elementari;
b) il mondo primitivo è per sua forma immediatamente riducibile a
strutture elementari e quindi comprensibile in base ad esse;
c) ne deriva che per necessità di oggetto e di metodo, l’antropologia è lo
studio del mondo primitivo o al massimo del primitivo nel mondo
moderno e in ciò mostra i limiti della sua prospettiva, ma anche la
sicurezza del suo mondo teoretico.
Siegfried Nadel in The Foundation of Social Anthropology sostiene, come
Levi-Strauss, che l’antropologia debba, alla stregua delle scienze naturali,
inserire fatti ed eventi particolari in regole o leggi generali e vede
condensarsi nell’antropologo moderno la capacità di essere, allo stesso
tempo, etnografo e antropologo sociale. Diventa essenziale in questo
quadro epistemologico la capacità di osservare dall’interno, ma anche di
prendere le distanze dall’oggetto di studio. Nadel, mettendo in crisi il
pensiero di Levi-Strauss riguardo la dicotomia tra modello meccanico e
modello termodinamico, sottolinea come lo studio di ogni società
comporti sempre tensione fra irriducibilità del dato e legge generale,
senza che ciò precluda uno studio antropologico della modernità. Nadel
tuttavia esclude la possibilità di affrontare lo studio delle società
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complesse con le stesse tecniche utilizzate per le società semplici, come
sostiene Park nel suo terzo punto programmatico.
Le tesi di Park da una parte e di Levi-Strauss dall’altra, integrate dalla
posizione di Nadel, riassumono il dilemma epistemologico a cui
l’antropologia deve dare una soluzione per poter trovare applicabilità
nelle società complesse. Sobrero trova la soluzione in ulteriori tre punti:
a) la cultura delle società complesse, benché si sia sviluppata da forme
precedenti e mantenga con esse forti legami, è qualitativamente diversa
rispetto alla cultura di ogni società passata (Levi-Strauss);
b) i metodi (la raccolta dati e le categorie di analisi) utilizzati
dall’antropologia per lo studio delle società semplici devono essere
profondamente rivisti quando l’oggetto d’analisi siano le società
complesse (Nadel);
c) malgrado ciò, è possibile e promettente perseguire l’ipotesi di
un’antropologia del mondo moderno (Sobrero, 1992, p.36).
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2. La città come luogo antropologico
I flussi migratori nelle loro più diverse espressioni hanno determinato un
consistente incremento delle popolazioni urbane. Tra il 1900 e il 1920 la
popolazione urbana del Terzo Mondo cresce di oltre un quarto, con
incrementi percentuali annuali di circa 1,3-1,4%. Tra il 1920 e il 1930 il
tasso di crescita oscilla tra l’1,9 e il 2,1% annuo. Ma i dati più
impressionanti arriveranno più tardi tra il 1946 e il 1980, allorché il
numero degli abitanti delle città del Terzo Mondo si moltiplica per
quattro, con un tasso di crescita per anno del 4,5%. In Europa, pur
essendoci un forte processo di urbanizzazione, tra il 1860 e il 1900 il tasso
di crescita non supera complessivamente l’1,3% annuo. Sulla base di
questi dati, Bairoch nota che “nel mondo sviluppato ci sono voluti circa
cento anni per passare da un tasso di urbanizzazione del 12% ad uno del
32%. Nel Terzo Mondo lo stesso passaggio ha richiesto meno di
cinquant’anni” (1985, p.549). Non più di cent’anni fa, le città che nel
mondo superavano un milione di abitanti erano: Londra, Parigi, Berlino e
New York. Oggi, i centri urbani di questo tipo, sono più di trecento e si
calcola che nei prossimi vent’anni il numero possa raddoppiare. Le
Nazioni Unite calcolano che entro il 2025 la popolazione urbana
terzomondiale arrivi ai 4 miliardi di cittadini.
Questa continua crescita della popolazione urbana determina nelle città
notevoli sconvolgimenti che si esprimono sia sotto un profilo prettamente
urbanistico con la crescita di nuovi quartieri in brevissimi periodi, sia
sotto un profilo strettamente sociale determinato con l’aggravarsi di
condizioni di povertà, marginalità, disoccupazione e stratificazione
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sociale, a cui si aggiungono condizioni di disagio provocate dall’incontro
tra diverse culture.
Nascono davvero le città! Masse operaie composte da uomini, donne e
bambini si riversano in quartieri ridotti, malsani, in prossimità dei palazzi
più ricchi. E’ una popolazione poverissima, ai limiti della sopravvivenza,
che da un momento all’altro può trasformarsi in una massa incontenibile
di disoccupati, un’ondata sovversiva, un veicolo micidiale di epidemie.
Nel 1848 a Parigi su un milione di abitanti vi erano ben 407.000 operai,
più del 40% della popolazione totale. La città fagocita manodopera e
ridisegna la sua identità producendo un nuovo tipo di uomo: il cittadino,
ultimo esemplare della natura umana, dopo il raccoglitore, il cacciatore e
il contadino.
3. Premesse storiche
“Ad occidente del Chicago River, all’ombra del Loop, si trova
un rettangolo densamente popolato, con costruzione a tre o
quattro piani, che contiene la maggior parte delle colonie di
immigrati di Chicago tra le quali c’è l’area chiamata il ghetto.
Quest’area, larga due miglia e lunga tre, è circondata da tutte le
parti da ettari di binari ferroviari ed è rinchiusa da una larga
fascia di fabbriche, di magazzini, di imprese commerciali di
ogni specie. E’ il distretto più densamente popolato di Chicago
e contiene quello che probabilmente è il più svariato
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assortimento di gente che in tutto il mondo si possa trovare in
un area simile” (Wirth, 1928).
Quando Wirth in The Ghetto scriveva queste parole, Chicago già nel 1925
era nata e morta più volte. Fondata artificialmente nel 1836 in occasione
dello scavo di un canale e cresciuta ancora più artificialmente, come nodo
ferroviario, ha dovuto più volte frenare e poi rilanciare la sua crescita a
seconda della congiuntura economica. Nel 1871 fu quasi distrutta da un
incendio; rifondata, già nel 1880 aveva mezzo milione di abitanti.
Chicago era un crocevia di tribù costituite da italiani, tedeschi, ebrei,
spagnoli, neri, con tutta la scala che dall’estrema povertà porta all’estrema
ricchezza. Il ghetto è un prodotto della città all’interno del quale è
rappresentato un coacervo di popoli, di lingue, di condizioni sociali e di
religioni. In sostanza sembrano nascere nuove aree urbane in
corrispondenza dei flussi migratori.
La città industriale si oppone alla città antica principalmente su tre piani:
a) sul piano ecologico, per la progressiva specializzazione degli spazi
lungo l’asse centro-periferia-campagna;
b) sul piano economico e tecnologico per una netta distinzione fra la
dimensione della produzione (la fabbrica) e quella del consumo (il
mercato);
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c) sul piano socio-culturale, per il radicale mutamento del rapporto
privato-pubblico, per il venir meno dei legami comunitari e per il
comporsi delle premesse di una cultura di massa ( Sobrero, 1992, p. 58).
Le scienze sociali diventano quindi indispensabili al fine di registrare i
mutamenti del comportamento umano in relazione alla vita urbana.
Nel suo scritto del 1915 sull’opportunità di applicare allo studio degli
abitanti di Chicago gli stessi criteri con i quali Boas aveva studiato gli
Irochesi, Robert Park dà forma esplicita a quasi un secolo di intuizioni e
riflessioni letterarie sulla città. “Siamo in debito soprattutto con i
romanzieri per ciò che concerne una nostra conoscenza più approfondita
della vita urbana contemporanea” (Park, 1915, p.5). Dieci anni dopo
Robert Park, Ernest Watson Burgess e Roderick Duncan McKenzie
pubblicavano i loro lavori nell’antologia The City, sfruttando l’onda
letteraria del momento che vedeva come sfondo proprio l’ambiente
urbano, e dove “la città è piuttosto uno stato d’animo, un corpo di costumi
e di tradizioni, di atteggiamenti e di sentimenti organizzati entro questi
costumi e trasmessi mediante questa tradizione. In altri termini la città non
è solamente un meccanismo fisico, essa è coinvolta nei processi vitali
della gente che la compone, essa è un prodotto della natura, e in
particolare della natura umana. La città è un insieme funzionale teso verso
il successo” (Park R., Burgess E. W., McKenzie R. D., 1925). La città
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contemporanea rappresenta un’era del tutto nuova nello sviluppo
dell’umanità e il passaggio dalla campagna alla città sembra essere visto
come un successo, come una trasformazione progressiva. Non sono della
stessa opinione gli Europei che vedono nella città una sorta di malattia,
un’entità contro natura, un tornare indietro attraverso un processo di
decadenza. Inoltre, la città è vista come il luogo di scontro-incontro tra
l’aristocrazia morente, la nuova borghesia e le masse, e difficile diviene
coglierne la totalità. Anche in Europa si parla della città e se ne studiano i
processi sociologici. Ferdinand Toennies (1855-1936) sintetizza il suo
discorso critico nell’opposizione tra Gemeinschaft (società) e Gesellschaft
(comunità) da cui emerge una città che distrugge la comunità rurale e tutti
i legami di tipo comunitario. I legami di parentela di vicinato e d’amicizia
e con essi i valori di cooperazione e di solidarietà, sono destinati a passare
in secondo piano rispetto ai rapporti strumentali fondati sulla
compatibilità degli interessi, sullo scambio (mercato) e sul diritto formale
(contratto). Le sue osservazioni nella panoramica del pensiero sociale
europeo sono state capaci di generare diverse interpretazioni e di inserirsi
in diverse prospettive, trovando utilizzazione in diversi piani di analisi: in
Durkheim si ritrova l’opposizione tra solidarietà organica e solidarietà
meccanica, in Simmel fra comunanza organica e simultaneità meccanica,
in Sumner fra Folkways e Mores. Si può dire che, fatta eccezione per
alcuni, la concezione di Toennies entra in tutte le teorie sociologiche sulla
città degli ultimi decenni dell’Ottocento e dei primi del Novecento.
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Sono queste le premesse storiche più importanti che diventano terreno
fertile per la nascita di vere e proprie scuole di pensiero quali la scuola di
Chicago e la scuola di Manchester.
3. 1. La scuola di Chicago
L’ecologia umana è lo studio delle relazioni spaziali e temporali degli
esseri umani in quanto influenzati dalle forze selettive, distributive e
adattive che agiscono nell’ambiente. Questa è la definizione del principio
cardine della Scuola di Chicago secondo Roderick McKenzie che,
assieme a Robert Park e a Erbest Burgess, ne è uno dei principali
esponenti. Più semplicemente l’ecologia umana studia il rapporto fra
l’uomo, in tutti i tratti della sua natura - da quello biologico a quello
psicologico -, e l’ambiente naturale o artificiale. Si interessa quindi di
come il modificarsi (nel tempo e nello spazio) delle relazioni fra gli
individui e fra le comunità, influenzi le istituzioni e il comportamento
umano. La densità, ossia il rapporto fra spazio e presenza umana, e
l’eterogeneità, il grado di diversificazione sociale e culturale tra soggetti
di uno stesso gruppo, divengono parametri necessari per lo studio dei
processi sociologici urbani, così come l’estensione, la dimensione e
l’ampiezza.