3
Le previsioni di crescita di breve periodo della economia italiana risultano fortemente
deteriorate in quanto riflettono sia il peggioramento del quadro internazionale registratosi
durante il corso dell’estate del 2001 sia l’ulteriore incertezza derivante dalle conseguenze
politiche ed economiche a livello mondiale dell’attacco terroristico agli USA.
Ma nel contesto di ripresa dell’economia mondiale l’Italia sarà in grado di conseguire
pienamente gli obiettivi di una crescita sostenuta ed equilibrata che annulli il differenziale
di sviluppo rispetto al resto dei paesi europei che si era creato negli anni novanta.
Grazie a questa crescita consolidata e a minori impulsi infazionistici esterni si dovrebbero
attenuare i problemi critici della nostra economia grazie alla creazione di nuovi posti di
lavoro e una più moderata crescita dei prezzi al consumo.
Dopo la brusca frenata degli ultimi anni, con un miglioramento della situazione
internazionale, riprenderanno quota anche le esportazioni e l’Italia dovrà affermarsi ancor
di più nei settori dov’è già competitiva e dovrà cercare di recuperare il terreno perso
rispetto ai concorrenti in quei settori che finora hanno trovato maggiore difficoltà.
Sono e saranno quindi di fondamentale importanza le azioni di politica economica e delle
riforme per incentivare gli investimenti al fine di rendere sempre più competitivo il nostro
“made in Italy” in un’Europa ormai unita anche dalla moneta e in generale nel resto del
mondo.
Visto inoltre l’obiettivo strategico stabilito dal Consiglio Europeo secondo il quale nei
prossimi anni l’Europa dovrà trasformarsi in una economia basata sulla conoscenza, la
società si dovrà adattare alle nuove sfide che vengono dalla Società dell’Informazione e
per questo si dovrà necessariamente aumentare il rapporto tra gli investimenti per la ricerca
e lo sviluppo e il PIL.
Il lavoro che segue è diviso in due parti: la prima è una descrizione delle principali
variabili macroeconomiche italiane messe a confronto con quelle degli altri paesi
industrializzati per capire meglio la situazione della nostra economia nel contesto
internazionale; nella seconda parte invece si è cercato di valutare le prospettive di crescita
del breve-medio periodo analizzando sia la competitività delle esportazioni italiane con
particolare riguardo ai settori che più riescono ad imporsi nel commercio mondiale sia il
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Growth Competitiveness Index, elaborato dai ricercatori del Center for International
Development dell’università di Harvard.
Quest’ultimo infatti si propone, attraverso tre fattori chiave, sviluppo delle tecnologie,
ambiente macroeconomico e istituzioni pubbliche, di valutare la capacità delle economie
nazionali di settantacinque paesi di sostenere la crescita economica nel medio termine
partendo dal loro attuale livello di sviluppo.
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I. ASPETTI DELL’ECONOMIA ITALIANA
Nel complesso, da un esame dell’economia italiana emergono significativi progressi
rispetto ai primi anni novanta. I vantaggi della partecipazione all’Unione Europea si sono
riflessi in un costo del credito ai minimi storici e in un aumento delle esportazioni favorite
dal deprezzamento dell’euro, oltre al minor onere del debito, che ha contribuito ad
alleviare la pressione fiscale.
Al tempo stesso è aumentato il potenziale di crescita grazie ad una accresciuta flessibilità
nel mercato del lavoro, alla privatizzazione e alla liberalizzazione di aziende di servizi
pubblici e di trasporto operanti in precedenza in regime di monopolio e ai miglioramenti
dei mercati finanziari.
Gran parte del processo di riforma è tuttora in itinere e occorre rafforzarlo ulteriormente;
ancora tanti sono i problemi ma il cammino sembra quello giusto che porterà l’Italia a
sfruttare a pieno il suo potenziale di crescita, rimasto in parte inutilizzato, conseguendo al
tempo stesso una più equilibrata distribuzione delle risorse tra aree geografiche e tra
generazioni.
I.1 Valutazione di dati macroeconomici
Dalla metà del 1999 c’è stato un rilancio dell’attività economica, sospinto da una ripresa
della domanda esterna.
Dopo un’espansione media annua intorno all’1,5% nella seconda metà degli anni novanta,
nel 2000 il PIL è cresciuto quasi del 3%, grazie ad un’accelerazione della domanda
mondiale, all’indebolimento dell’euro, al graduale aumento del reddito disponibile delle
famiglie e a un migliore clima di fiducia nel settore delle imprese.
Tale tasso di crescita non veniva registrato da cinque anni ed è risultato in linea con quello
registrato in Francia e Germania, tuttavia inferiore a quello dell’area euro (3,4%).
6
Ma la congiuntura sfavorevole ha fatto sì che questa crescita nel 2001 è risultata pari
all’1,8%, segnando un netto rallentamento rispetto alla dinamica positiva dell’anno
precedente (figura 1).
A sostenere tale crescita in termini reali del PIL sono stati i settori delle costruzioni (più
4,5%) e dei servizi (più 2,6%), l’industria in senso stretto è risultata sostanzialmente
stazionaria.
1,8
1,6
2,9
1,8
1,2
2,8
0
0,5
1
1,5
2
2,5
3
1998 1999 2000 2001 2002* 2003*
Figura 1: variazione % del PIL a prezzi costanti, anni 1998-2001; Fonte: ISTAT
*=stime previsionali; Fonte: Handelsblatt, ft Deutschland
La combinazione tra una domanda stabile e l’accresciuta flessibilità del mercato del lavoro
derivante dalla sempre più diffusa applicazione delle nuove leggi in materia di contratti
atipici ha sorretto in maniera significativa l’incremento dell’occupazione totale (più 1,6%):
anche se si è registrata una lieve riduzione nell’industria in senso stretto (meno 0,4%)
consistenti sono stati gli aumenti sia nelle costruzioni (più 4,3%) sia nel complesso dei
servizi (più 2%).
La ripresa dell’attività economica ha tratto beneficio dall’allentamento delle condizioni
monetarie nell’area dell’UEM, dove la politica monetaria resta accomodante.
Per ciò che concerne più specificatamente l’Italia, i tassi di interesse a breve termine sono
scesi a livelli mai registrati in precedenza, e la moneta e il credito hanno continuato a
7
espandersi vivacemente, a riprova del fatto che sulla crescita non gravano restrizioni di
natura finanziaria.
Nonostante le problematiche associate alla crisi economica internazionale anche nel 2001
le esportazioni italiane hanno positivamente contribuito, seppure in modo modesto, alla
crescita del PIL mantenendo attivo il saldo della bilancia commerciale (figura 2 ).
1997
1998
1999
2000
2001
0
50.000
100.000
150.000
200.000
250.000
300.000
350.000
Esportazioni di beni
e servizi fob
Importazioni di beni
e servizi fob
Figura 2: Export-Import, valori a prezzi correnti. Fonte: ISTAT
Note: milioni di euro dal 1999, milioni di eurolire per gli anni precedenti
Il tasso di crescita delle esportazioni in valore, dopo quattro anni, è tornato ad allinearsi a
quello delle importazioni, riflettendo, da un lato il miglioramento dell’interscambio in
volume, dall’altro il riavvicinamento progressivo delle contrapposte dinamiche dei prezzi.
Il tasso di inflazione misurato dall’aumento dell’indice dei prezzi al consumo escluso i
prodotti alimentari ed energetici si è attestato intorno al 2% eccetto l’incremento che si è
avuto durante il 2000, e confermato anche nel 2001 (tab.1). Su tale crescita ha fortemente
8
pesato il rincaro della quotazione del greggio, comunque il tasso di inflazione non si è
discostato da quello fatto registrare nel complesso dell’area euro.
Tab.1: indice dei prezzi, anni 1997-2001, variazioni percentuali tendenziali.*=stime. Fonte: ISTAT
La congiunzione di tassi di interesse e di inflazione ai minimi storici contribuisce a
sostenere lo slancio impresso dai più alti redditi alla crescita interna.
Questo ritmo dovrebbe essere consolidato dalla maggiore competitività derivante dal
deprezzamento dell’euro. Tuttavia il differenziale tra i tassi di inflazione di fondo in Italia
e nell’area euro, pari a circa l’1%, ha diminuito la competitività di prezzo del nostro paese
rispetto ai partners della EUM.
Tale componente inerziale dell’inflazione sembra dovuta non tanto a squilibri
macroeconomici, quanto a distorsioni concorrenziali nei settori protetti dell’economia
italiana.
Considerando che tutto il paese risente di uno scarto relativamente ampio tra prodotto
effettivo e potenziale, e che le retribuzioni nominali per addetto nel settore delle imprese
stanno crescendo allo stesso ritmo di quelle dell’area euro (più 3,4%), l’orientamento della
politica monetaria sembrerebbe appropriato al contesto economico italiano.
PREZZI AL CONSUMO
1997 1998 1999 2000 2001*
Indice intera collettività
(NIC)
2.0 2.0 1.7 2.5 2.7
Indice famiglie operai e
impiegati (FOI)
1.8 1.8 1.7 2.5 2.6
Indice comunitario
armonizzato (IPCA)
1.9 2.0 1.7 2.6 2.7
9
Anche la politica fiscale sembra apportare un contributo positivo di crescita sostenuta:
infatti proprio nel 2000 per la prima volta la pressione fiscale nel nostro paese è scesa sotto
la media europea e nel 2001 ha registrato un’ulteriore riduzione dell’0,1% attestandosi al
42,4% (figura 3).
32
34
36
38
40
42
44
46
48
1997 1998 1999 2000
FRANCIA
GERMANIA
Media UE
ITALIA
GRECIA
UK
SPAGNA
Figura 3: pressione fiscale in alcuni paesi europei, anni 1997-2000, incidenza % sul PIL.
Fonte: ISTAT
Nel quinquennio 1993-97 l’indebitamento netto delle Amministrazioni
pubbliche era stato ridotto al 2,8% del PIL, ossia un abbattimento di 7 punti percentuali
necessario per rispettare i parametri di Maastricht in tema di disavanzo: è stato questo uno
dei più energetici risanamenti attuati nell’area OECD nell’ultimo decennio.
Successivamente all’ingresso nella UEM, l’obiettivo della politica di bilancio è stato quello
di consolidare i risultati ottenuti con l’azione di riequilibrio fiscale, promuovendo al tempo
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stesso una maggiore stabilità nei conti pubblici e fornendo un sostegno di breve termine
alla domanda.
Grazie ancora alla favorevole dinamica dei tassi di interesse l’Italia era riuscita a ridurre il
saldo primario al 5% nel 1999, pur riuscendo a mantenere il disavanzo delle
Amministrazioni pubbliche appena sotto la soglia del 2%, conformemente al Patto di
stabilità e crescita. Nel 2000 il saldo primario è tornato a crescere intorno al 6% ma grazie
alle entrate provenienti dall’assegnazione delle licenze UMTS l’indebitamento netto è solo
dello 0,5%, senza quest’ultime sarebbe stato comunque pari all’1,5% (figura 4). Con un
bilancio che continua a trarre beneficio dalle passate riforme strutturali nonché
dell’accelerazione della crescita per il 2000 non si sono rese necessarie drastiche azioni
correttive per contenere il disavanzo.
6,7
5,2
5
5,9
4,9
-1,4
-0,5
-1,8
-2,7
-2,8
-4
-2
0
2
4
6
8
1997 1998 1999 2000 2001
Saldo primario
Indebitamento
netto
Figura 4: saldi di finanza pubblica, anni 1997-2000, incidenza percentuale sul PIL.
Fonte: ISTAT
Il piano a medio termine prevede conti pubblici prossimi all’equilibrio per il 2003 grazie
ad un avanzo primario medio attestatosi intorno al 5% del PIL. Tuttavia, nonostante la
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continua riduzione, il rapporto debito pubblico/PIL è intorno al 100%, lontano ancora
molto dal livello del 60% stabilito dal trattato di Maastricht che di questo passo sarebbe
raggiunto solo dopo il 2015 (figura 5).
120,1
116,2
114,5
110,3
107,5
104,4
95
100
105
110
115
120
125
1997 1998 1999 2000 2001 2002*
Figura 5:debito dell'Amministrazione pubblica, incidenza % sul PIL; *=stima previsionale.
Fonte: Banca d’Italia
Oltre il medio termine le pressioni sul disavanzo sono destinate ad intensificarsi in
conseguenza dei programmi previdenziali e di assistenza vigenti, specie per quanto
riguarda la spesa pensionistica. Nella prospettiva di future pressioni in tal senso occorre
evitare ogni minimo scostamento dagli obiettivi prefissati, utilizzando in via prioritaria
eventuali maggiori entrate fiscali per accelerare la riduzione dello stock del debito.
Riducendo in termini di PIL la spesa corrente più rapidamente delle entrate, il proposto
consolidamento fiscale a medio termine è ritenuto opportuno sul piano dell’allocazione
delle risorse, così come l’aumento della spesa in conto capitale, che fa seguito ad anni di
restrizioni.
Dal punto di vista delle entrate, una più efficiente amministrazione tributaria e una più
rigorosa osservanza delle leggi hanno prodotto risultati positivi. La capacità di un apparato
statale tutt’altro che efficiente nell’utilizzare meglio queste risorse dovrebbe essere
sostenuta da costanti progressi nel miglioramento delle capacità di programmazione e
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controllo della spesa pubblica. La riforma delle procedure di bilancio e la chiara
separazione tra funzioni politiche e gestionali hanno consentito un miglior controllo della
spesa a livello centrale. Nei contratti dei dirigenti sono stati inseriti incentivi a migliorare
le loro prestazioni.
Nonostante la rapida evoluzione del quadro istituzionale e legislativo, tuttavia si è rivelato
più difficile modificare la “cultura” della pubblica amministrazione, dove una
generalizzata inerzia a livello sia centrale sia degli organi di governo periferici può
costituire uno degli ostacoli principali a una radicale inversione di rotta.
Un ulteriore problema risiede nella difficoltà di controllare la spesa di regioni ed enti locali
e nell’applicazione a tal fine del patto interno di stabilità.
Perché il decentramento sia efficace, occorre che le decisioni di spesa siano correlate più
strettamente alle risorse disponibili a livello periferico.
Sul versante fiscale i risultati di medio e lungo periodo saranno influenzati dall’evoluzione
della spesa pensionistica. Quest’ultima, al livello del 14,2% del PIL nel 1998 (15,3% se si
considerano anche le pensioni di invalidità), è stata una delle più elevate nell’area OCSE e
ormai sembra essersi stabilizzata su questi valori.
Ciò rende inevitabile la necessità di ulteriori aggiustamenti al sistema pensionistico
pubblico per assicurare un più equo assetto complessivo della spesa sociale e riduca al
tempo stesso i tassi di contribuzione potenziando il ruolo dei fondi pensione.
Il capitolo previdenziale rappresenta i due terzi della spesa sociale complessiva, una
percentuale insolitamente elevata se raffrontata agli standard internazionali. Ne
conseguono basse erogazioni in altre tipologie di spesa quali quella sanitaria e i sussidi di
disoccupazione.
A causa dell’onere della spesa previdenziale, il cuneo fiscale complessivo sul lavoro –di
poco inferiore al 50% del costo totale del lavoro- resta uno dei più elevati nell’area
dell’OECD. Le pressioni sulla spesa assistenziale sono destinate a inasprirsi ulteriormente
a causa del maggior onere connesso con l’invecchiamento della popolazione quindi è
fondamentale l’avvio di una strategia che garantisca il massimo contenimento dei costi
grazie ad un’attenta valutazione dei bisogni.