6
il pubblico dei quotidiani sia ormai saturo. Nei dieci anni considerati, nulla si è mosso
dal punto di vista dei lettori: sono rimasti fermi tra i 19 e i 20 milioni. Inchiodando
l’Italia agli ultimi posti nel mondo quanto a numero di copie diffuse per mille abitanti.
Dimostreremo, allo stesso tempo, l’esistenza di un gruppo di non lettori che,
opportunamente stimolati, potrebbero avvicinarsi ai giornali: i giovani, tra le cui fila si è
registrata l’emorragia più pesante (tra il 1993 e il 1996 i quotidiani hanno perso 145.000
lettori tra i 18 e i 24 anni e 90.000 tra i 14 e i 17 anni); le donne, che pure aumentano
continuamente i propri consumi culturali; i residenti nel Mezzogiorno, penalizzati anche
dall’assenza di iniziative editoriali radicate in loco.
Nel secondo capitolo descriveremo la peculiarità dell’attuale media system,
sempre in bilico tra la spinta all’integrazione e la resistenza dovuta alla competizione.
Esamineremo i cambiamenti nelle abitudini di consumo mediatico, a partire dalla
rilevazione del Censis, secondo cui le case degli italiani si stanno trasformando in
“complessi terminali multimediali”. Ripercorreremo le ragioni che hanno decretato il
trionfo della televisione e la progressiva teledipendenza dei quotidiani, analizzando le
tre dimensioni che il piccolo schermo assume di fronte ai giornali: concorrente, fonte,
argomento di trattazione. Citeremo la radio come esempio virtuoso di medium costretto
a mutare per ritrovare un’identità riconoscibile e ritagliarsi il suo spazio nel sistema
complessivo, trasformando in punti di forza le proprie debolezze. Rileveremo la crescita
dei giornali sul web, con le novità che porta con sé: la moltiplicazione delle fonti di
informazioni, l’interattività, il cambiamento delle modalità di lettura e la
personalizzazione della comunicazione. Un fenomeno in divenire, il cui sviluppo è però
innegabile, data la dimestichezza che le giovani generazioni mostrano con Internet.
Analizzeremo, infine, i cambiamenti che stanno investendo la professione giornalistica,
disorientata e scissa in veri multigiornalismi. Perché l’eccesso di informazione non è un
problema solo per i destinatari del flusso, ma anche per chi è chiamato ad elaborarlo
immettendo notizie nel circuito comunicativo.
Nel terzo capitolo racconteremo il successo de Il Sole-24 Ore, nel quarto
l’insuccesso de l’Unità. In entrambi i casi, isoleremo le scelte vincenti e gli errori, le
vittorie e le sconfitte, le mosse intelligenti e i passi falsi. Per dimostrare come il fattore
chiave perché un quotidiano, oggi, riesca a posizionarsi con stabilità e autorevolezza nel
sistema dei media sia la capacità di soddisfare le esigenze del proprio pubblico, che i
giornalisti devono non solo individuare, ma anche trasformare in altrettanti input da
seguire. Non ci sono ricette facili, in questo settore: occorre avere la consapevolezza
che, parafrasando Hegel, il quotidiano è diventato sempre più una scommessa del
mattino.
7
Capitolo 1
LA CRISI DELLA STAMPA ITALIANA
1.1 La dimensione della crisi
Sono idee, eppure si comprano e si vendono come normali prodotti commerciali
1
.
Sono di carta, eppure possono colpire e ferire come coltelli
2
. Sono nati come
espressione di libertà, eppure possono non essere liberi. Sono cresciuti nel 1700, il
Secolo dei Lumi, eppure sono stati i primi a sbarcare sul nuovo pianeta di Internet.
I quotidiani sono questo e altro. La stampa italiana, in particolare, possiede tutti i
tratti tipici del giornale classico e tradizionale, è cresciuta negli ultimi tre secoli, ha
seguito le linee di sviluppo che il mezzo ha percorso in tutti i Paesi civilizzati. Ma le sue
vicende riflettono esattamente le peculiarità italiane: l’estrema politicizzazione, la
frammentazione, la scarsa acculturazione della popolazione fino agli anni ‘60 (che ha
reso i quotidiani un prodotto d’élite), un certo provincialismo ancora evidente nella
stampa locale, la storica commistione tra fatti e opinioni, tanto differente dal “modello
anglosassone”. Fattori di lunga durata
3
della stampa italiana, caratteristiche nate negli
anni dell’Unità d’Italia (quando il giornalismo moderno ha mosso i primi passi) e
rintracciabili anche nel modello informativo contemporaneo.
Nel nuovo millennio i quotidiani italiani sembrano a un punto di svolta, incalzati
dall’incessante nascita di iniziative sulla Rete, stremati dalla rincorsa dei ritmi della
televisione e della radio, incapaci di soddisfare i bisogni comunicativi elementari,
incerti tra le funzioni di servizio e l’approfondimento, condizionati dai palinsesti della
televisione al punto di non riuscire più a proporre una originale “agenda” di temi e
argomenti da sottoporre all’attenzione dei lettori.
Di qui la necessità di intraprendere un processo di mediamorfosi
4
: un’esigenza di
cambiamento che è insieme causa e conseguenza della situazione di crisi in cui versa la
carta stampata. Causa, perché la trasformazione richiesta dall’acquisizione di una
dimensione multimediale implica sia l’aumento dei costi a carico del sistema produttivo
e organizzativo a monte sia una ridefinizione dell’identità del prodotto “giornale” e
della professione giornalistica. Conseguenza, perché la contaminazione esasperata tra
mezzi-canali (televisione, carta stampata, radio e Internet) delinea quella che Mosconi
definisce “un’epoca di crescente intramedia competition”
5
, caratterizzata dalla
competizione sullo stesso terreno dei diversi media, tanto nella vendita al pubblico delle
informazioni quanto nell’offerta agli inserzionisti di spazi pubblicitari.
La diffusione dell’informazione sulla Rete, infatti, non minaccia soltanto la carta
stampata e, allo stesso tempo, non ne è l’unica concorrente. Il processo che sta
trasformando il sistema dei media si snoda lungo due direzioni: una orizzontale, che
riguarda l’offerta, per cui su Internet tutti gli attori del palcoscenico delle
1
Cfr. G. Montresor, Il marketing impossibile, Gutenberg 2000, Torino, 1994.
2
Cfr. V. Roidi, Coltelli di carta, Newton Compton, Roma, 1992.
3
Cfr. C. Sorrentino, I percorsi della notizia, Baskerville, Bologna, 1995.
4
Cfr. R. Fidler, Mediamorfosi, Guerini e Associati, Milano, 1997.
5
F. Mosconi, Economia dei quotidiani, Il Mulino, Bologna, 1998, pag. 181.
8
comunicazioni di massa tradizionalmente separati si trovano a competere sul medesimo
canale; una verticale, che chiama in causa la domanda, per cui si assiste alla progressiva
frammentazione dei bisogni informativi.
“Sul mercato dell’editoria – scrive Pedemonte – sono ormai entrati a pieno titolo
nuovi attori, il cui elenco si va allungando”
6
. Motori di ricerca, società di software,
giornali prodotti solo per il web (si pensi in Italia a IlNuovo.it), società di
telecomunicazioni, Internet provider, aziende produttrici di high tech e banche dati
offrono anche notizie e, soprattutto, insidiano gli editori tradizionali (di giornali
cartacei, ma anche radiotelevisivi) sul fronte della raccolta di pubblicità. Nota
Pedemonte:
[…] La pubblicità è destinata a prendere altre vie e a concentrarsi sui nuovi protagonisti del mondo
digitale. I giornali tradizionali vedranno perciò scendere la loro quota di mercato nel business
pubblicitario.
7
L’autore riflette perciò sul business dei giornali:
[…] Non è costruito solo sulla lettura di articoli avvincenti. Le motivazioni che spingono i lettori ad
acquistare il giornale al mattino sono di molti tipi. C’è l’abitudine a dare un’occhiata all’elenco dei
bambini nati e delle persone scomparse. C’è la pagina dei cinema e la rubrica delle farmacie aperte la
notte. Ci sono i teatri, le inserzioni per cercare e offrire lavoro, le auto usate, la vendita di oggetti per
collezionisti, le previsioni del tempo. Si tratta di servizi al pubblico che non hanno esattamente a che fare
con la parola giornalismo – vocabolo a cui generalmente si attribuisce un significato nobile – ma sono
certamente connessi al concetto di informazione. E sono tutti servizi che possono essere forniti,
facilmente e a basso costo, attraverso la rete telematica. Il rischio, quindi, è che i giornali cartacei perdano
progressivamente spazio in tutte le funzioni che possono essere facilmente automatizzabili, a vantaggio di
nuovi attori che, in modo più agile, possono sviluppare queste attività attraverso la rete.
8
Lo scenario che si profila è caratterizzato da un generale rimescolamento dei
fronti, in cui ognuno è tentato di invadere spazi tradizionalmente occupati da altri:
I settimanali provano a invadere il campo dei quotidiani, mettendo in rete notizie tutti i giorni. Le Tv
pubblicano i loro servizi e li rendono disponibili 24 ore su 24. I quotidiani mandano online brevi filmati
[…] .
9
La carta stampata si trova quindi stretta tra la vecchia incudine della televisione
(la cui superiorità poggia sul numero di contatti che riesce a totalizzare e su quello degli
investimenti pubblicitari che è in grado di attrarre) e il nuovo martello di Internet, la cui
concorrenza si basa, come abbiamo visto, su fattori diversi.
La Rete si profila come un elemento del flusso comunicativo che è insieme canale
e messaggio e che può permettere la completa parità, quando non l’inversione dei ruoli
tra emittente e destinatario. Nell’universo delle nuove tecnologie, la celebre espressione
di McLuhan (“Il medium è il messaggio”
10
) perde forse parte del suo valore. Come
6
E. Pedemonte, Personal media, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, pag. 134.
7
Ibidem
8
E. Pedemonte, Personal Media, cit., pag. 136.
9
E. Pedemonte, Personal Media, cit., pag. 137.
10
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967, pag. 15.
9
sottolinea Negroponte, il mezzo è al massimo una materializzazione del messaggio,
perché, “partendo dagli stessi dati è possibile ottenere automaticamente diverse
materializzazioni di un messaggio”
11
.
In questo scenario i quotidiani non possono e non devono sottrarsi alla
mediamorfosi
12
, il processo per cui ogni nuova forma mediale non elimina le precedenti,
ma stimola fenomeni di adattamento e trasformazione nonché la nascita di codici
innovativi. Abbracciando una visione sistemica, Marinelli afferma:
[…] Le varie forme di comunicazione mediale tendono a coesistere e a evolvere, reagendo, attraverso la
strategia della differenziazione interna, alle trasformazioni di un ambiente complesso e in continua,
imprevedibile, espansione.
13
L’autore delinea chiaramente la strada che la carta stampata è obbligata a
percorrere:
La mission per i formati a stampa – ma il destino della televisione, da questo punto di vista, non appare né
certo né migliore – sembra dunque assegnata: per sopravvivere dovranno trasformarsi, dovranno accettare
di includere nei loro formati altre forme mediali, dovranno sperimentare modalità comunicative ibride e
canali diversi per intercettare pubblici differenti.
14
Dal quadro che è stato tracciato emerge con forza il carattere ambiguo e
complesso della crisi della carta stampata alla fine degli anni ‘90. Proprio dalla sua
complessità deriva anche la scarsa percezione del fenomeno che caratterizza molti
operatori:
[…] Sempre pronti a enfatizzare e drammatizzare qualunque segno o indizio di cambiamento nella società
circostante, gli operatori della comunicazione vivono la propria condizione di disagio ridimensionandola,
banalizzandola o più spesso rimuovendola. Una crisi, dunque, che non si percepisce come crisi.
15
Eppure non si può chiamare altrimenti una fase di così lunga stagnazione del
numero di copie vendute, soprattutto se confrontata con il progressivo incremento
dell’alfabetizzazione della popolazione; di così larga disaffezione dei più giovani verso
il quotidiano, segno di un futuro poco roseo; di così schiacciante inferiorità della lettura
come modalità di consumo culturale in Italia rispetto allo scenario europeo e
internazionale.
Ma vivere la crisi come chance è possibile
16
: solo l’analisi ragionata dei problemi
contemporanei dell’informazione scritta, infatti, permette di enucleare le aree critiche
11
N. Negroponte, Essere digitali, Sperling&Kupfer, Milano, 1995, pag. 69.
12
Cfr. R. Fidler, op. cit..
13
A. Marinelli, “I media a stampa e le tecnologie digitali: cronaca di una morte annunciata (e mai
avvenuta)”, in M. Morcellini e G. Roberti (a cura di), Multigiornalismi, Guerini e associati, Milano 2001,
pag. 43.
14
A. Marinelli, “I media a stampa e le tecnologie digitali: cronaca di una morte annunciata (e mai
avvenuta)”, cit., pag. 53.
15
M. Morcellini, “Il difficile racconto del mutamento: la crisi di relazione tra giornalismo e società
italiana”, in M. Morcellini e G. Roberti (a cura di), Multigiornalismi, Guerini e Associati, Milano, 2001,
pag. 27.
16
Cfr. M. Morcellini, “Il difficile racconto del mutamento: la crisi di relazione tra giornalismo e società
italiana”, cit., pag. 27.
10
sulle quali intervenire e quelle “potenziali” sulle quali insistere per trasformarle in
condizioni di sviluppo.
1.2 Crisi di oggi e crisi di ieri
Non si può comprendere la peculiarità del modello informativo italiano senza
ripercorrere brevemente lo sviluppo della stampa quotidiana nel nostro Paese. Solo
l’esame ragionato del passato rende infatti possibile l’individuazione di linee guida
percorribili nel futuro.
Carlo Sorrentino fissa la nascita dei quotidiani italiani intorno agli anni ’60 e ’80
del XIX secolo. E’ evidente il legame con l’Unità d’Italia, che è quindi il fenomeno
all’origine del giornalismo moderno nel nostro Paese. Di qui le tre caratteristiche del
modello informativo nostrano: “La centralità della politica, il giornalismo letterario, le
caratteristiche editoriali e diffusionali su base regionale”
17
.
Il primato della politica si manterrà nel tempo, declinandosi diversamente a seconda delle esigenze del
momento, ma assicurerà una costante contiguità del lavoro giornalistico con quello politico.
18
Il mercato editoriale era assolutamente immaturo: nel 1861 il 74,7% della
popolazione era analfabeta e, su 25 milioni di cittadini, le copie vendute non
raggiungevano le 500.000
19
. Difficilmente la diffusione riusciva a superare l’ambito
provinciale o regionale ed era raro trovare vere e proprie strutture redazionali. Questo
tipo di stampa è l’espressione di un Paese in cui sono deboli le forme di partecipazione e
molto limitati i diritti politici. Negli altri Stati europei l’affermazione di una solida
stampa indipendente è stata strettamente correlata al consolidamento della borghesia,
dei valori politici e culturali di cui questa classe è portatrice. In Italia, invece, “il terzo
stato” ha sempre avuto difficoltà ad affermarsi e a superare le rivalità regionali, eredità
pesante del lungo periodo di divisione nazionale. Il processo di unificazione del Paese
rimase appannaggio delle autorità e la modernizzazione fu guidata dall’alto. “Gli italiani
– scrive Sorrentino – mantengono una sostanziale estraneità al processo unitario”
20
.
Nel 1901 gli analfabeti erano il 48,7% della popolazione, nel 1911 il 37,9%. Il
tasso di alfabetizzazione cresceva in modo fortissimo nel Settentrione, di pari passo con
l’industrializzazione e l’urbanizzazione. Per la prima volta si può parlare di imprese
editoriali e di ammodernamento tecnico: l’introduzione delle linotypes migliorò la
qualità di stampa e abbattè i tempi di produzione; la foliazione aumentò e ben presto le
testate principali pubblicarono otto pagine; l’inviato speciale diventò una figura centrale
e “mitica”. La gestione non più artigianale delle imprese necessitava di investimenti
cospicui. L’effetto fu un razionamento delle testate minori e un processo di
concentrazione editoriale.
17
C. Sorrentino, I percorsi della notizia, Baskerville, Bologna, 1995, pag. 27.
18
C. Sorrentino, I percorsi della notizia , cit., pag. 29.
19
Cfr. V. Castronovo, “Stampa e classe politica nella nuova Italia”, in Problemi dell’informazione, n. 1,
1976.
20
C. Sorrentino, I percorsi della notizia, cit., pag. 33.
11
A risentirne sono soprattutto le province e l’Italia meridionale, incapaci di sopportare i costi necessari, per
l’esiguità dei lettori e degli investimenti pubblicitari.
21
Ma le fasce di lettori continuarono, seppur lievemente, ad allargarsi, soprattutto
per l’introduzione della cronaca. I modelli dell’epoca erano due: il Corriere della Sera
di Luigi Albertini e Il Mattino di Edoardo Scarfoglio. Tanto Albertini era attento alla
qualità dell’informazione, alla solidità dell’impresa e all’imparzialità nella registrazione
degli eventi e dei giudizi, quanto Scarfoglio insisteva su toni strillati e demagogici.
Tanto il primo prediligeva e imponeva uno stile misurato e accorto, quanto il secondo
alternava l’attenzione spregiudicata alla politica con l’apertura al costume. Tanto l’uno
parlava esplicitamente alle élite, quanto l’altro strizzava l’occhio ai nuovi ceti
recentemente alfabetizzati.
Ma proprio ne Il Mattino, nonostante la novità dell’approccio e l’introduzione di
generi che diventeranno fondamentali nei quotidiani di oggi, si riscontrava già il difetto
insito in tanta parte della stampa italiana, il neo che ci proponiamo di dimostrare come il
maggiore fattore di insuccesso per un giornale: la mancata definizione del proprio
pubblico. Lo sottolinea Sorrentino:
Il tentativo di mescolare tendenze elitarie con tendenze popolari è conseguente alla mancata
individuazione di una precisa audience. Diversamente da quanto avvenuto in altri Paesi, in particolare,
quelli anglosassoni, in Italia non si formano due distinti pubblici: il primo formato dalle classi dirigenti e
orientato ai quotidiani d’élite; il secondo composto dai nuovi ceti sociali formati dal processo
d’industrializzazione e urbanizzazione, attratti dalla capacità della stampa popolare di raccontare la loro
vita quotidiana […].
22
Il secondo pubblico individuato dal sociologo non venne coinvolto in un processo
ampio di modernizzazione che contemplasse, accanto allo sviluppo industriale,
l’evoluzione sociale e culturale. Non ci fu una mobilitazione intellettuale in grado di
coniugare le antiche tradizioni del Paese con una nuova sensibilità basata sulla libertà e
sulla responsabilità.
Secondo Eisenstein, l’alfabetizzazione cresce rapidamente solo quando i singoli
colgono un senso nell’apprendere pratiche difficili
23
, quando si sentono protagonisti
della storia.
In Italia manca questa spinta e i quotidiani non riescono a fornirla, perché incarnano una logica
paternalistica. Si trascurano le realtà più vicine alle esigenze dei cittadini. Il giornale parla soltanto a loro
[…] ma non di loro.
24
Prevaleva la concezione del lettore come cittadino da educare e del giornalista
come pedagogo, con conseguenze molto rilevanti sull’etica dell’operatore
dell’informazione:
21
C. Sorrentino, I percorsi della notizia, cit., pag. 35.
22
C. Sorrentino, I percorsi della notizia , cit., pag. 38.
23
Cfr. E. L. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, 1979, tr. it. Il
Mulino, Bologna, 1985.
24
C. Sorrentino, I percorsi della notizia , cit., pag. 39.
12
Ne consegue una diversa deontologia professionale, che non si basa – come nella tradizione anglosassone
– sulla visione dell’informazione come watchdog, garanzia del cittadino, strumento a disposizione di
questi per controllare i poteri pubblici. Piuttosto, la responsabilità sociale che si attribuisce è quella di
“forgiare”, prima agli ideali risorgimentali, poi a quelli nazionali.
25
I giornali non diventarono l’arena in cui gli italiani potevano confrontarsi e
riconoscersi. “La stampa – denuncia Sorrentino – non è il luogo dove la società si
incontra”
26
. Dall’aver perso questo appuntamento con la storia deriva, a nostro avviso,
l’attuale “anoressia del senso comunitario”
27
che Morcellini ritiene provata dallo scarso
consolidamento culturale e dalle crisi endemiche del giornalismo.
Nei primi anni del 1900 la nascita della terza pagina e l’orientamento verso
un’informazione a carattere nazionale, nonostante la diffusione a livello regionale,
confermavano la tendenza della stampa a formare più che a informare e delle
professioni giornalistiche a consolidarsi a ridosso di altre esperienze, legate alla
militanza politica o ad ambizioni letterarie. Nasce da questo fenomeno, unito alla
debolezza della cronaca (le informazioni istituzionali godevano sempre di maggiore
centralità), la prevalenza del commento sulla semplice esposizione dei fatti. Solo per la
“nera” si verificò un’attenzione crescente: il racconto della devianza permetteva la
libertà, perché non minacciava di urtare la sensibilità delle autorità, e il
sensazionalismo, che attraeva i lettori e faceva aumentare il numero delle copie vendute.
L’avvento del fascismo non fece che acuire la subalternità della stampa alla
politica: le resistenze dei giornalisti alla fascistizzazione furono deboli e scarse.
Contemporaneamente, però, fu dato impulso al rinnovamento tecnologico e, quando si
presentò la necessità di potenziare la macchina della propaganda, le pagine aumentarono
di nuovo, furono lanciati i quotidiani della sera e nacque il numero sportivo del lunedì.
Le ambizioni internazionali del fascismo e l’orientamento all’espansione portarono,
nonostante il carattere autoritario del regime, a uno svecchiamento e a
un’europeizzazione della stampa italiana, evidente nella titolazione, nell’introduzione
delle fotografie e nella diversificazione dei generi trattati.
Le vendite aumentarono: Il Corriere della Sera vendeva circa 500.000 copie, Il
Popolo d’Italia 350.000, La Stampa 300.000, Il Giornale d’Italia 200.000, Il
Messaggero 100.000.
28
Lo sport e gli spettacoli (compreso il cinema) puntavano ad
avvicinare alla lettura nuove fasce di pubblico. Alla fine degli anni ’30 fu inoltre il
momento dei settimanali: nacquero, anche grazie al progresso della tecnica, Omnibus, di
Leo Longanesi, Oggi, di Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio, Tempo, di Alberto
Mondadori. Rispetto al conformismo dei quotidiani, la stampa settimanale si accreditò
come la vera novità per una nuova fascia di lettori, cresciuta nei miti secolarizzati
dell’americanismo e della modernità.
Il ruolo degli angloamericani nella ricostruzione del sistema informativo italiano
dopo la Seconda guerra mondiale guerra fu rilevante. Fu istituito un organismo integrato
25
C. Sorrentino, I percorsi della notizia , cit., pag. 40.
26
Ibidem
27
M. Morcellini, “Il difficile racconto del mutamento la crisi di relazione tra giornalismo e società
italiana”, cit., pag. 33.
28
Cfr. N. Quilici, “Spirito e forme del giornalismo fascista”, in Annuario della stampa italiana 1933-
1934, Roma.
13
apposito, il Psychological Warfare Branch, chiamato a creare propri organi
d’informazione nelle città liberate e a coadiuvare i movimenti di liberazione,
controllandone l’attività.
Gli alleati cercarono sì di favorire lo sviluppo di capacità imprenditoriali
attraverso la costituzione di cooperative di giornalisti, ma esercitarono anche pressioni
affinché le grandi testate fossero restituite ai proprietari (è evidente in questa mossa il
timore di cedere il controllo politico alle forze di sinistra). Il primo intento fallì. Sul
secondo, il Comitato di liberazione nazionale espresse perplessità sia perché il Cln
intendeva esprimere attraverso la stampa ogni possibile energia politica, sia perché
temeva il ritorno di editori compromessi con il fascismo. Non solo: il Comitato tendeva
a riproporre un progetto pedagogico per costruire i valori della partecipazione e della
democrazia, mentre l’impostazione anglosassone si basava sui principi
dell’emancipazione individuale e della difesa estrema della libertà di stampa.
Il risultato fu la restituzione delle testate tradizionali ai loro editori, ma anche la
proliferazione di tanti nuovi giornali, espressione delle diverse forze politiche. Murialdi
commenta:
Le vecchie testate, appena camuffate da “nuovo” e “nuova” (composto con caratteri sempre più piccoli)
sono avvantaggiate dalle radicate abitudini dei lettori che appartengono nella grandissima maggioranza
alla media e alta borghesia, dalle disponibilità finanziarie e dal mestiere dei giornalisti.
29
All’appuntamento con la democrazia, il panorama della stampa quotidiana si
presentò estremamente frastagliato:
Continua la girandola delle testate. Decine di giornali nascono e scompaiono, anche nel giro di pochi
mesi. Nessuno è in grado finora di stabilire effettivamente quanti quotidiani siano usciti nell’immediato
dopoguerra in Italia. In certi momenti la cifra è vicina a 150. A Roma la media oscilla tra 20 e 25 testate;
a Milano tra 16 e 18. A Torino 9, a Genova 7.
30
Prevaleva la politica, sempre e comunque, con gli editori interessati a compiacere
il potere e una classe di giornalisti salvata dalla mancata epurazione e cresciuta
professionalmente durante il fascismo. Non per questo allineati all’ideologia del regime,
ma comunque “abituati a ubbidire, quindi ben pronti a riadattarsi al clima autoritario che
gli editori restaurano nei giornali”
31
. Ecco come un osservatore straniero rilegge quegli
anni:
Dopo il ventennio fascista, alla stampa italiana si presentò un’occasione unica per risorgere adottando
nuovi parametri di completa libertà e divincolarsi completamente dal potere politico. In realtà ciò non
avvenne, mentre invece rimasero intatte alcune caratteristiche dell’ordinamento fascista che si
tramandarono alla nuova stampa italiana, viziandone così la nascita.
32
La connotazione partitica, la moderazione degli editori e la riorganizzazione del
settore giornalistico secondo criteri corporativi resero arduo alla stampa il compito di
29
P. Murialdi, La stampa italiana dalla Liberazione alla crisi di fine secolo, Laterza, Roma-Bari, 1995,
pag. 38.
30
P. Murialdi, La stampa italiana dalla Liberazione alla crisi di fine secolo, cit., pag. 52.
31
C. Sorrentino, I percorsi della notizia , cit., pag. 59.
32
W. M. Achtner, Penne, antenne e quarto potere, Baldini e Castoldi, Milano, 1996, pag. 67.
14
interpretare il cambiamento economico e sociale che avrebbe portato verso il boom del
quinquennio 1958-1963.
“La stampa non sa ‘leggere’ la società”
33
, scrive Sorrentino per indicare questa
inadeguatezza dei giornali all’indomani delle elezioni del 1948. E’ sorprendente che a
distanza di più di 50 anni il problema sia rimasto lo stesso. Allora la difficoltà nasceva
da una più generale incapacità della cultura italiana di raccontare un Paese in
trasformazione. Non ci riuscivano le due subculture – quella cattolica e quella
marxista
34
- a causa delle loro caratteristiche intrinseche: la prima cercava di sfruttare la
propria centralità politica per frenare una secolarizzazione ormai inevitabile; la seconda
si declinava come ideologia anti-industria. Non ci riusciva la letteratura, che faceva da
cassa di risonanza ai lamenti di una borghesia incapace di diventare classe dirigente.
Non ci riuscivano gli intellettuali in genere, “sdegnosi nel respingere gli strumenti
interpretativi proposti dalle scienze sociali, chiusi in atteggiamenti crociani che
pervadono anche gli epigoni della critica all’idealismo”
35
. Solo il cinema neorealista si
fece interprete delle tendenze in atto nella società: colse il cambiamento che stava
investendo il Paese e lo portò sullo schermo, rappresentandolo attraverso la nostalgia
verso la “vecchia Italia”, contadina e arcaica, che andava scomparendo.
E la stampa? L’appiattimento sulla politica creò la situazione paradossale descritta
ironicamente da Enzo Forcella:
Un giornalista politico, nel nostro Paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i
sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche
industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila
copie. […] Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori
privilegiato.
36
L’affermarsi del “pastone” è un indicatore chiaro del tipo di informazione di
quegli anni:
La trovata è di Enrico Mattei (Gazzetta d’Italia, poi Gazzetta del Popolo), uno dei corrispondenti romani
più informati e abili del dopoguerra. Il “pastone” non è un riassunto schematico di notizie, ma consiste
nell’inanellare notizie, spiegazioni e commenti. Ne viene fuori un articolo ibrido, nel quale il lettore non
può discernere le notizie dalle opinioni, dove si traduce in formule per iniziati il linguaggio difficile,
sovente criptico, dei documenti di partito e delle dichiarazioni degli uomini politici.
37
L’informazione che ne derivava era autoreferenziale, colma di raffinatezze,
sofismi e dietrologie. Se si aggiungono i lunghissimi articoli di fondo, spesso
incomprensibili e pieni di citazioni colte, e l’ampio spazio concesso agli scrittori e alla
letteratura, si capisce che il quotidiano degli anni ’50 era inaccessibile alla gran parte
della popolazione italiana. “Documentazione italiana”, un compendio ufficiale curato
nel 1952 dalla presidenza del Consiglio, elenca 111 quotidiani: 61 al Nord, 26 al Centro
33
C. Sorrentino, I percorsi della notizia , cit., pag. 61.
34
Cfr. S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 1996.
35
C. Sorrentino, I percorsi della notizia , cit., pag. 62.
36
E. Forcella, Millecinquecento lettori. Confessioni di un giornalista politico, in “Tempo presente”, n. 6.,
1959, pag. 11.
37
P. Murialdi, La stampa italiana dalla Liberazione alla crisi di fine secolo, cit., pag. 75.
15
e 24 al Sud e nelle Isole. Lo stesso documento sottolinea che il numero dei lettori era
sempre modesto: la diffusione complessiva non superava ancora i 5 milioni di copie.
Un altro segnale della lontananza dei giornali dalla società stava nella sostanziale
assenza della stampa locale che, fatta eccezione per la Lombardia e poche altre zone del
Settentrione, sarebbe stata superata solo negli anni ’80. Non c’è traccia, nelle cronache
cittadine del tempo, della vitalità che si stava manifestando nei centri urbani, dei
cambiamenti nel mondo del lavoro, dell’ampliamento delle possibilità di consumo dei
cittadini, del nuovo scenario del tempo libero.
Nelle cronache dei giornali non compaiono i fermenti del cambiamento, le dinamiche di processi
interattivi che si intensificano. E’ rappresentata una società statica, cristallizzata, preoccupata quasi
esclusivamente di ribadire la ricerca dell’ordine sociale attraverso una dicotomizzazione tra bene e male.
Si stabilisce una netta divisione fra i due soggetti sociali presenti sui giornali. Da un lato i devianti,
protagonisti di una dettagliata cronaca nera. Dall’altro lato, la classe politica detentrice dell’azione
propositiva e propulsiva di sviluppo.
38
In questo quadro poco edificante, una sola esperienza rappresentò una ventata di
novità: Il Giorno, di proprietà dell’Eni, allora diretto da Enrico Mattei. L’ingresso del
manager pubblico nell’editoria derivava, come al solito, da interessi diversi: a Mattei
serviva un organo d’informazione che sostenesse il suo progetto, mirante a svincolare la
politica petrolifera italiana dall’impresa privata e dalle grandi società americane dell’oro
nero. Una manovra naturalmente invisa al cartello internazionale delle “sette sorelle”
39
.
Due edizioni, una del mattino e una pomeridiana, titoli evidenti con aperture a sette e
otto colonne, otto pagine d’informazione (nell’edizione del mattino) con un inserto
stampato in rotocalco e dedicato alla cultura, uso del colore, grande fotografia in prima
pagina, fatti separati dai commenti, stile asciutto e conciso: sono queste le innovazioni
introdotte da Il Giorno, anche grazie all’intraprendenza del suo direttore, Gaetano
Baldacci, ex inviato del Corriere della Sera.
Murialdi sottolinea il merito del quotidiano di Mattei:
C’erano grandi spazi vuoti nel giornalismo quotidiano: molti li ha riempiti Il Giorno. La pagina per le
notizie e gli articoli economici e finanziari; quella degli spettacoli (nessun giornale del mattino aveva
ancora dato tanta attenzione e tanto spazio agli spettacoli televisivi); pagine particolari, già in voga
trent’anni prima e poi trascurate, per la letteratura, per la scienza e per la tecnica, per la moda; rubriche
personali come “La colonna” di Gianfranco Fusco ecc. Era in pratica la ricetta del rotocalco trasferita su
un quotidiano.
40
Ma è ancora una volta la politica a determinare la storia di questo quotidiano.
Fautore dell’apertura a sinistra (di lì a poco sarebbe nato il primo governo con i
socialisti, guidato da Amintore Fanfani) e dell’intervento dello Stato in economia, Il
Giorno, già in passivo per i costi dell’inserto in rotocalco e per quelli di distribuzione,
subì gli attacchi delle destre, ma anche quelli del Pci. Nel 1959 le vivacissime reazioni
alla rivelazione in Senato della proprietà del giornale (49% Eni, 49% Iri e 2%
38
C. Sorrentino, I percorsi della notizia, cit., pag. 66.
39
Per ricostruire la vicenda di Mattei e de Il Giorno cfr. G. Baldacci, “Parliamo del Giorno e di Mattei”,
in Abc, 11-18-25 settembre, 2-9-23-30 ottobre, 6 novembre 1960, e N. Tranfaglia, “La polemica del
Giorno”, Nord e Sud, n. 57, 1959.
40
P. Murialdi, La stampa italiana dalla Liberazione alla crisi di fine secolo, cit., pag. 145.
16
ministero delle Partecipazioni) portarono all’allontanamento di Baldacci, che aveva
replicato “mettendo in luce i panni sporchi degli avversari più pericolosi”
41
. Gli fu
consentito, comunque, di nominare Italo Pietra, socialista ed ex partigiano, come suo
successore.
Al quotidiano arrivarono Enzo Forcella, Giorgio Bocca, Pietro Citati e Alberto
Arbasino, insieme con una folta schiera di scrittori (Gadda, Pasolini, Calvino,
Bertolucci) e collaboratori “che Il Corriere non invita perché innovatori”
42
. Il Giorno si
mosse dalle 150.000 verso le 200.000 copie. Nel 1962, dopo l’intesa tra cattolici e
socialisti, Mattei decise di pubblicare un’edizione romana, più per intenti politici
(sostenere la Dc) che editoriali. Lo prova, secondo Murialdi, la scelta del giornalista
Ettore Della Giovanna, firma del Tempo e noto per le sue posizioni moderate, come
responsabile della nuova edizione. Da allora in poi (Mattei morì il 27 ottobre 1962) Il
Giorno seguì la stessa sorte del centro-sinistra e del suo progressivo logoramento. Le
vicende de Il Giorno sono paradigmatiche: rappresentano tutte le contraddizioni di una
stampa che vuole “incontrare” la società cavalcando una fase di cambiamento ma che,
allo stesso tempo, ne è impedita dai freni e dai condizionamenti della politica. Con i
suoi passivi, il quotidiano di Mattei simboleggia anche l’asservimento dell’impresa
editoriale ad altri fini: il risultato economico non conta, perché gli obiettivi da
raggiungere sono altri. Sorrentino cita in proposito la dichiarazione di un ex dirigente
dell’editoriale La Stampa: “Se gli Agnelli avessero gestito la Fiat come si gestiva in
quegli anni La Stampa, ora non esisterebbero più”
43
.
In questa situazione, è ovvio che l’effervescenza del “miracolo economico” e la
crescita dei tassi di alfabetizzazione (nel 1962 fu approvato l’obbligo scolastico a 14
anni) non ebbero alcuna ripercussione sulle vendite dei quotidiani. Lo confermano i dati
forniti da Murialdi:
Al 1° gennaio 1960 circolano solo 104 copie ogni mille abitanti, con grossi squilibri fra il Mezzogiorno e
le altre regioni. Soltanto quattro quotidiani superano le 200.000 copie di tiratura e tredici le 100.000. Il
56,8% della tiratura globale è controllato da grandi imprese private e dalle loro organizzazioni. I bilanci
sono ancora un segreto, ma la fragilità dell’editoria di quotidiani è evidente.
44
Stupisce che, a distanza di oltre 40 anni, le condizioni siano rimaste
sostanzialmente identiche, fatta eccezione per i dati di tiratura. Anche l’ordinamento
della professione giornalistica, così come lo conosciamo oggi, risale a quegli anni.
I quotidiani scelsero la strada degli investimenti e dell’aumento delle foliazioni
per superare il tetto dei 5 milioni di copie e questo presunto boom fornì a tecnici e
giornalisti l’occasione per avanzare le loro rivendicazioni. I primi ottennero l’aumento
del 18% sulla paga base, i secondi del 20%, insieme con la riduzione dell’orario di
lavoro a 36 ore settimanali. Ma la conquista più densa di conseguenze per il futuro fu
l’approvazione della legge 69/1963, che sancì l’istituzione dell’Ordine dei giornalisti.
Un passo che ancora oggi divide gli esperti tra quanti criticano la funzione dell’Ordine,
ritenendolo un organismo corporativo teso a perpetrare i privilegi di una categoria
ritenuta troppo protetta, e quanti, invece, lo difendono, pur auspicando una seria riforma
41
P. Murialdi, La stampa italiana dalla liberazione alla crisi di fine secolo, cit., pag. 151.
42
P. Murialdi, La stampa italiana dalla liberazione alla crisi di fine secolo, cit., pag. 152.
43
C. Sorrentino, I percorsi della notizia , cit., pag. 70.
44
P. Murialdi, La stampa italiana dalla liberazione alla crisi di fine secolo, cit., pag. 155.
17
che ne potenzi il ruolo di garante della deontologia professionale e dell’indipendenza
dei giornalisti nei confronti degli editori. L’Ordine permise comunque agli iscritti di
rafforzare il proprio potere contrattuale e di sanare molte situazioni di precarietà. Non è
un caso che, complici l’affermazione dell’informazione televisiva e l’aumento della
foliazione anche dei settimanali, il numero dei giornalisti professionisti salì da 2.064 nel
1956 a 3.161 nel 1964.
Nel 1965 si assisté alla prima vera crisi della stampa, che portò alla chiusura di
sette quotidiani. Contemporaneamente si avviò un processo di concentrazione editoriale
anomalo, come rileva Mosconi:
Ciò che infatti caratterizza l’industria italiana dei quotidiani non è l’elevata concentrazione (che è tratto
comune a tutti i Paesi industrializzati), quanto piuttosto il suo essere da decenni controllata da grandi
aziende industriali e finanziarie (caratteristica, questa, condivisa con la Francia).
45
Si tratta delle “grandi famiglie” del capitalismo italiano, responsabili della
creazione di un sistema produttivo caratterizzato da forti squilibri interni, con rendite di
posizione quasi inattaccabili e non regolamentate dal sistema politico
46
. Questi gruppi si
confermarono poco attenti alla gestione economica delle imprese editoriali. Del Boca
riporta ad esempio la sarcastica affermazione di Mario Missiroli, allora presidente della
Federazione nazionale della stampa:
“Quelli che accusano perdite sono sufficientemente compensati dai vantaggi che, con i loro servizi,
recano alle varie proprietà. Si tratta di voci passive di bilanci attivissimi. Non è vero che quegli enti
pagano i tecnici, gli avvocati, i consulenti, gli operai? Ebbene, paghino anche il servizio politico”.
47
Negli anni successivi al boom economico, dunque, quando il nuovo orientamento
al consumo degli italiani ne ridefiniva valori e status e quando alla modernità si univano
elementi tipici della nostra cultura (“forme di identificazione tradizionali, circoscritte
alla famiglia e al vicinato”
48
), la stampa non svolse alcuna funzione alternativa di
integrazione sociale, né si accreditò come strumento di crescita individuale degli
italiani. La ragione è duplice: da un lato pesò il neo-individualismo intimistico
49
con cui
il processo di modernizzazione fu metabolizzato nel nostro Paese, per cui le
trasformazioni vennero assorbite e ammortizzate all’interno di una dimensione molto
privata e poco sociale; dall’altro influirono le caratteristiche intrinseche
dell’informazione stampata, che non fece degli interessi umani e dell’attenzione al
cambiamento la componente fondamentale della propria missione. Questo fu il risultato,
secondo Sorrentino:
La stampa quotidiana tende a restare un corpo estraneo, un prodotto elitario che cala sugli individui; non
la risultante di scambi sociali orientati alla costruzione di una dimensione pubblica.
50
45
F. Mosconi, op. cit., pag. 179.
46
Cfr. C. Sorrentino, I percorsi della notizia, cit.
47
In L. Del Boca, Giornali in crisi, Aeda, Torino, 1968, pag. 143.
48
C. Sorrentino, I percorsi della notizia, cit., pag. 78.
49
Cfr. L. Sciolla, “Identità e mutamento culturale nell’Italia di oggi”, in V. Cesareo, La cultura dell’Italia
contemporanea, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1990.
50
C. Sorrentino, I percorsi della notizia , cit., pag. 79.
18
La perdita di questa occasione cruciale è tanto più grave se consideriamo che, in
quegli stessi anni, la televisione consolidò quello che sarebbe diventato il suo primato
assoluto sul sistema dei media, accreditandosi come “prima esperienza culturale di
massa per gli italiani”
51
e sancendo il definitivo trionfo dell’audiovisivo sulla scrittura-
lettura
52
. Senza, peraltro, modificare il modello informativo, basato sulla dipendenza
dalla politica. Neppure il ’68, nonostante la contestazione e la nascita della stampa
alternativa, tagliò i ponti con questa tradizione: la militanza rimase il motore
dell’informazione e la generazione di giovani giornalisti affacciatisi nel sistema (la
stessa cui appartengono oggi i direttori delle principali testate) era fortemente
politicizzata. La novità fu piuttosto rappresentata dalla volontà di creare un’alternativa
alla stampa giudicata “di regime”, inserendo nel dibattito pubblico nuovi temi ed eventi,
e dalla maggiore presa di coscienza, da parte dei giornalisti, della propria funzione
sociale. Si impose così il giornalismo di denuncia e d’inchiesta.
Mentre il nuovo fervore contagiava anche le grandi testate (nel 1972 Piero Ottone
divenne direttore de Il Corriere della Sera, aprendo ad argomenti inediti trasformatisi in
notiziabili e permettendo a Pier Paolo Pasolini di scrivere in prima pagina), in realtà la
crisi della stampa proseguiva inesorabile: il deficit dei quotidiani cresceva, fino a
superare globalmente, nel 1974, i 100 miliardi di lire in un anno. Ancora non era stata
superata la soglia dei 5 milioni di copie vendute. Ma qualcosa si stava muovendo,
almeno nella capacità della stampa di sintonizzarsi con l’opinione pubblica. Siamo
d’accordo con Sorrentino, quando cita il referendum sul divorzio come sentore di questo
atteso passo in avanti:
[…] L’ampio fronte divorzista presente sulla stampa italiana, che contraddice la pluriennale fedeltà alla
Democrazia cristiana e l’implicito appoggio al Vaticano, è forse il primo caso di convergenza con la
posizione espressa dagli italiani nel referendum del maggio 1974.
53
Nella seconda metà degli anni ’70 furono tre gli eventi che segnarono la storia dei
quotidiani. Il primo cambiamento fu indotto dalla nascita di La Repubblica, alle cui
innovazioni accenneremo in seguito
54
, che per prima individuò la readership cui
riferirsi, sviluppando una strategia market-oriented. La seconda trasformazione fu
provocata dall’affermazione della televisione commerciale: la moltiplicazione delle
emittenti locali favorì la nascita del mercato pubblicitario locale, stimolato dal desiderio
di espansione delle piccole e medie imprese, e trainò l’intero mercato nazionale.
Secondo molti osservatori, fu proprio questa spinta, unita alla capacità di offrire gli
spazi opportuni attraverso una politica più dinamica, a far decollare il gruppo Fininvest,
dal momento che la Rai fissava rigidi paletti per l’affollamento pubblicitario sulle sue
tre reti. La rapida crescita degli investimenti pubblicitari fece lievitare l’intero sistema
dei media. Il terzo fattore di cambiamento fu quello tecnologico e di organizzazione del
lavoro: fu rivoluzionato il ruolo dei poligrafici, si ridussero i costi dei materiali di
51
C. Sorrentino, I percorsi della notizia , cit., pag. 81.
52
Cfr. M. Morcellini, “Il difficile racconto del mutamento: la crisi di relazione tra giornalismo e società
italiana”, in M. Morcellini e G. Roberti (a cura di), op. cit.
53
C. Sorrentino, I percorsi della notizia , cit., pag. 89.
54
Cfr. par. 1.3.1.
19
composizione e si impose il videoterminale come mezzo di scrittura. I tre elementi che
abbiamo descritto brevemente hanno concorso a preparare l’espansione del decennio
’80, razionalizzando i costi, consentendo per la prima volta ai quotidiani la produzione
di utili e favorendo la diffusione della stampa locale. Fattori, però, che si possono
definire “esogeni”
55
: l’andamento positivo degli anni ’80 è stato favorito principalmente
dai ricavi pubblicitari, mentre molto più lenta è stata la crescita delle vendite. Lo
dimostra il fatto che, non appena il mercato pubblicitario ha cominciato a indebolirsi e a
saturarsi, i quotidiani sono precipitati di nuovo nella crisi.
L’eredità del decennio “drogato” è stata soprattutto quella di aver introdotto una
logica di marketing nella gestione del prodotto “quotidiano”, suscitando maggiore
attenzione nei confronti della domanda. Ma i vecchi vizi permangono. E non basta, per
risalire la china, la fissazione di “tetti” agli spot televisivi, come invocato ormai da anni
dagli editori, che lamentano l’iniqua ripartizione delle risorse pubblicitarie tra
televisione e carta stampata
56
. E’ tempo di un esame attento dei fattori endogeni che
hanno determinato – e continuano a determinare – la crisi.
1.3 L’offerta degli anni ‘90
1.3.1 La crisi d’inizio decennio
Il 1990 è un anno spartiacque per la stampa quotidiana italiana. Dopo
“l’espansione fragile”
57
degli anni ‘80 – il numero delle copie vendute è balzato da
5.580.394 del 1983 a 6.721.098 del 1988 con un incremento di circa il 20,5%, legato
però soprattutto a fattori esogeni (segmentarsi progressivo dei nuclei familiari, crescita
professionale delle donne, ristrutturazione tecnico-produttiva possibile grazie alle
provvidenze previste dalla legge 416/1981) – le vendite toccano il loro apice: 6.808.501
copie vendute, con un aumento dell’1,1% sull’anno precedente. “Una cifra da
sottolineare - scrive Murialdi - perché rappresenta un massimo storico”
58
. Da qui
cominciano “otto anni di caduta”
59
.
La prima è nel 1991, brusca, del 4,4%. Si tratta della peggiore variazione del
decennio: le copie vendute scendono a 6.525.529, per restare sostanzialmente stabili nel
1992 e calare ancora nel 1993, a 6.358.997 (-2,6%), e nel 1994, a 6.208.188 (-2,4%).
Nel giro di quattro anni la stampa italiana ha perso oltre 600.000 copie: una vera
emorragia di lettori.
I fattori esogeni di espansione si spengono uno dopo l’altro, le modificazioni strutturali della società
rallentano il passo, proprio mentre la fine del prezzo amministrato scatena una rapida e generalizzata
corsa al rialzo […]. Fatto pari a 100 il prezzo medio vigente al gennaio 1986 (700 lire), al dicembre 1995,
dopo dieci anni, l’indice risulta pari a 214. Nello stesso periodo il costo della vita non supera l’indice 160.
Il brusco rincaro (50% di aumento tra il 1990 e il 1995, esattamente nel periodo in cui le copie calano)
55
Cfr. par. 1.3.1.
56
Cfr. par. 1.5.1.
57
A. Pilati e G. Richeri, La fabbrica delle idee, Baskerville, Bologna, 2000, pag. 244.
58
P. Murialdi, La stampa italiana dalla liberazione alla crisi di fine secolo, cit., pag. 253.
59
A. Pilati e G. Richeri, op. cit. ,pag. 246.