11
Nell’impresa capitalista si ha da una parte il capitalista-borghese, detentore
dei mezzi della produzione, e dall’altra il lavoratore-proletariato che vende
il suo lavoro per vivere.
La separazione fra capitale e lavoro implica che si devono instaurare fra i
due fattori della produzione, rappresentati da due diverse classi sociali,
delle relazioni di scambio, al fine di attuare la produzione. Il modo in cui
queste relazioni vengono instaurate influenza il sistema giuridico del
lavoro.
Alla base di tali relazioni c’è l’ideologia del capitalista in merito al ruolo del
lavoratore e quella del lavoratore sul ruolo del capitalista nell’impresa.
Fintanto che il datore di lavoro, vede il lavoratore ed il lavoro che esso
produce, come una risorsa da sfruttare
3
, ed il lavoratore vede nel capitalista
il “padrone” che lo vuole sfruttare, la soluzione della questione sociale,
cioè come la parti instaurano un sistema di diritti e doveri reciproci, volto
3
L. FABBRICIANI, Partecipazione umana e competitività aziendale”, Sperling & Kupfer Ed., Milano, 1995
12
ad unire il capitale con il lavoro al fine della produzione, non può che
essere conflittuale. Tale sistuazione produce delle relazioni industriali
mediate dai rappresentanti delle due parti (capitalisti e lavoratori). Alla
base di relazioni sindacali conflittuali c’è la convinzione che gli interessi
delle due parti sono inguaribilmente inconciliabili.
1.2 La posizione dello Stato nei
confronti della questione sociale
Un aspetto molto importante della questione sociale è come lo Stato
debba intervenire fra le parti e quali sono i suoi obblighi nei confronti
della società.
In primo luogo lo Stato è un grande datore di lavoro
4
, e questo suo ruolo
è destinato a permanere nel tempo, poiché anche quando lo stato non si
occuperà più direttamente della produzione di beni, esso, comunque,
continuerà a dover erogatore i servizi a cui è preposto.
4
M. GIUDICI, L’impresa e le relazioni industriali, Il sole 24 h libri, Milano, 1992, pag. 54
13
Secondo aspetto dell’intervento dello Stato nelle relazioni industriale è la
sua innegabile funzione normativa. Sia che promani norme sia che esso
assurga al ruolo di mediatore. Questo secondo aspetto è influenzato
dall’ideologia dominante nel periodo. Fino all’avvento del fascismo in
Italia la soluzione delle relazioni industriali era lasciata alle parti sociali
5
, lo
stato si limitava, in ossequio ai principi liberisti, a lasciare al libero mercato
la soluzione del conflitto
6
. “In altre parole il mercato era ritenuto il miglior
principio allocatore ed ordinatore delle rivendicazioni”
7
. Solo con
l’avvento del fascismo, lo stato inizia ad occuparsi, con la promulgazione
della Carta del lavoro e l’instituzione dei sindacati corporativi
8
, delle
relazioni sindacali. Il sindacato corporativo, a differenza di un sindacato
privato di parte, non ha una finalità conflittuale, esso subordina gli
5
G. P. CELLA, La solidarietà possibile, Ed. Lavoro, Roma, 1989
6
G. MIRA, op. cit.
7
G. P. CELLA, op. cit.
8
Corporazioni: Le corporazioni, devono rispecchiare nella loro composizione interna
elementi espressi dai lavoratori e dai datori di lavoro, in modo da risultare permeate
di interclassismo e da consentire allo stato di imporre a tutti il rispetto degli interessi
generali su quelli particolaristici.
14
interessi dei lavoratori e dei capitalisti, all’interesse dell’economia
nazionale.
Il secondo aspetto riguarda il c.d. diritto di lavoro. In altre parole, lo stato
è obbligato a fornire un lavoro o semplicemente a favorire le condizioni
idonee a trovarlo con i propri mezzi ed a rimuore gli ostacoli che ne
impediscono il verificarsi. La nostra Costituzione, nei suoi articoli basilari
(art.1 co.1 Cost.) pone a base della Republica il lavoro e all’art.4 co.1 Cost.
fissa esplicitamente il diritto al lavoro. Poiché il diritto al lavoro è un
diritto limite esso è stato interpretato come un “obbligo morale nei
confronti della società”
9
, e dunque vale nei confronti della collettività non
di un singolo individuo. Questo fatto lo rende una sorta di norma di
programma che obbliga lo stato ad intervenire attivamete nella
contrattazione per garantire la realizzazione del diritto di lavoro della
collettività.
9
P. ROSANVALLON, La nuova questione sociale, Ed. Lavoro, Roma, 1997
15
1.3 La domanda di partecipazione
dei lavoratori alla gestione
dell’impresa
Si sono succeduti nel tempo, sulla spinta di eventi storico-politici e socio-
economici, diversi atteggiamenti nei confronti della partecipazione alla
gestione dell’impresa, da parte delle rappresentanze sindacali dei lavoratori
e dei lavoratori stessi. La richiesta dei lavoratori di partecipare alle
decisioni aziendali è perfettamente legittima, ed è causata dalla loro
aspirazione a partecipare alle decisioni “che riguardano il proprio ambiente
o il proprio posto di lavoro”
10
.
A cavallo del 1900 la richiesta di partecipazione era motivata
dall’aspettativa che così facendo si potessero migliorare le condizioni
lavorative dei lavoratori. Oggi giorno, che i bisogni primari dei lavoratori
sono stati appagati, la domanda di partecipazione nasce sia dal bisogno di
superarare un rapporto conflittuale fra le parti sociali, che sebbene
10
W. KOLVENBACH, Partecipazione e governo dell’impresa, Ed. Lavoro, Roma, 1992
16
attenuatosi in questi ultimi anni a favore di una maggiore disponibiltà a
cooperare per il bene comune resta antagonistico, sia dal bisogno di essere
competitivi sul mercato mondiale.
1.4 Limiti della “partecipazione
ragionata” e soluzioni fornite
della “partecipazione spontanea”
all’impresa
Anche se il sindacato ha abbandonato una visione conflittuale del genere:
”il mondo del lavoro che combatte il capitale”
11
ed ha aderito ad una
forma istituzionalizzata di partecipazione alla gestione, quale può essere la
cogestione
12
, esso continua a perseguire una “partecipazione ragionata”
13
,
in cui il lavoratore presta il suo lavoro solo per ottenere un compenso
economico. Questo tipo di partecipazione è quella a cui il legislatore del
codice fece riferimento quando scrisse l’art.2094 c.c. (prestatore di lavoro
11
K. KOLVENBACH, op. cit.
12
G. BAGLIONI , Democrazia impossibile?, Il Mulino, Bologna, 1995
13
. L. FABBRICIANI, op. cit
17
subordinato) oppure nei diritti del lavoratore contenuti nello Statuto dei
Lavoratori (DpR.300/70).
Un prodotto di qualità nasce da una prestazione di qualità, questa non può
essere quella erogata per rispettare un obbligo, ma deve essere una
prestazione che, oltre allo sforzo fisico di fare, associ anche lo sforzo
mentale di “poter voler saper fare”
14
bene. Anche Pacces
15
sposa questa
tesi quando sostiene che “da lungo tempo si è osservato che il salario
acquista lavoro quantificabile in tempo o prodotto, non di qualità ed
efficienza”.
Il fallimento delle diverse forme di partecipazioni, da quelle più soft come i
diritti d’informazione o di consultazione (obbligatori o vincolante che
siano), fino alle forme più incisive, quali la codecisione e la
codeterminazione, non riescono ad attuare quella “participazione
spontanea” al bene comune e alla crescita dell’impresa.
14
L. FABBRICIANI, op. cit.
15
F. M. F. PACCES, Il conflitto impresa società, Li/Ed Edizioni, Torino
18
La partecipazione “spontanea” ha alla sua base una diversa concezione
della gerarchia, che deve essere “sussidiaria alla base”. Gli organi della
struttura devono essere pensati per consentire la sovrapposizione dei
progetti di crescita professionale dal lavoratore con la missione
dell’impresa sul mercato. Se si ha successo in questa progettazione, si ha
“un’organizzazione adeguata”
16
. Una tale modificazione strutturale
comporta un aumento dell’autonomia del lavoratore ed una sua maggiore
autoresponsabilità. La direzione non cessa, ma non è più una direzione
razionale, cioè basata su schemi rigidi di relazione, basati sull’idea che chi
stà in alto sia migliore di chi stà in basso, e di conseguenza, la migliore
forma di organizzazione è quella in cui tutto quello che viene pensato in
alto viene perfettamente eseguito da chi stà in basso, ma una direzione
morale, che si legittima tramite il consenso che gli viene riconosciuto e trae
la sua forza dal fatto che esse è utile a mantenere quell’ordine operativo
16
“è quella che riesce a raggiungere gli obiettivi per cui è stata costituita; perché riesce a integrare i progetti di
professionalizzazione personale con la missione. Dell’azienda sul mercato”, L. FABBRICIANI, op. cit.
19
che serve ad impedire che si generi caos all’interno dell’azienda. Questo
“ordine operativo”
17
, deve essere il miglior modo di fare le cose, non un
vincolo assoluto.
La soluzione alla questione sociale individuata in una partecipazione
spontanea ad un’organizzazione adeguata, organizzata secondo i principi
di sussidiarietà, ben si concilia con il modello della qualità totale, come si
può capire dal capitolo successivo; a patto che non si commetta l’errore di
considerare questo modello di organizzazione della produzione solamente
una “ricetta magica” per risolvere i problemi di concorrenzialità
dell’economia occidentale. Infatti un errore spesso commesso nel cercare
di importare tout court il modello orientale di produzione (il CWQC)
18
, è
quello di non preoccuparsi di capire il pensiero sottostante agli strumenti
operativi, quale just in time, i sette strumenti, PDCA e gli altri strumenti di
problem solving, della qualità totale.
17
L. FABBRICIANI, op. cit
18
Company-Wilde Quality Control
20
L’uomo per poter dar il meglio di se deve essere libero di dar corso a tutte
le sue potenzialità, nel rispetto della mission dell’impresa, ed integrarsi con
gli altri e le loro esigenze. Questo presuppone, sia un elevato grado di
responsabilità, sia che le strutture organizzative siano funzionali ai bisogni
del lavoratore, in altre parole “sussidiarie alla base”. Come per la qualità
totale, anche per l’organizzazione adeguata avviene uno “spalmamento”
del potere lungo l’organizzazione gerarchica. Poiché la partecipazione
spontanea è una partecipazione morale, non occorre creare una struttura
burocratica-gerarchica volta a coordinare e controllare le prestazioni di
lavoro, poiché gli interessi dei lavoratori coincidono con quelli
dell’impresa. Non occorre neanche forzare la prestazione che viene fornita
spontaneamente. Ciò non significa che non esiste l’organizzazione, ma
solamente che questa esiste nella misura in cui è necessaria a svolgere
quelle funzioni che altrimenti sarebbero impossibili da svolgere per la
base. Una simile concezione della direzione ha alla base il consenso, ossia
21
il rifiuto della concezione che il potere direttivo sia esclusiva emanazione
del diritto di proprietà.
1.5 Conseguenze giuridiche di una
soluzione conflituale alla
questione sociale
Il nostro ordinamento giuridico concepisce i rapporti fra capitale e lavoro
basati su di uno scambio di prestazioni. Da una parte la prestazione psico-
fisica fornita dal lavoratore, dall’altra il salario erogato dal datore a
compenso dell’energia lavorativa erogata. Un tale rapporto non può che
essere conflittuale, poiché in ogni scambio in libera concorrenza ogni
parte cerca di ottimizzare il suo tornaconto, anche a scapito di quello
dell’altro.
Allo scopo di regolamentare i loro rapporti, il legislatore ha dovuto
concedere alle parti un insieme di diritti e di obblighi.
Il lavoratore, allora, è tenuto ad un comportamento diligente, fedele e
subordinato alla direzione del datore, poiché è il capitalista che subisce il
22
rischio di mercato, e per questo ha diritto ad organizzare l’impresa come
meglio crede. Al lavoratore vengono riconosciuti anche dei diritti: diritti
patrimoniali, sindacali e personali. Questi altro non sono che
un’estensione di quei diritti civili di cui gode in quanto cittadino.
Al datore di conseguenza sono riconosciuti dei poteri per permettergli di
soddisfare il suo interesse all’esecuzione della prestazione. Essi sono: il
potere sansionatorio degli inadempimenti dell’obbligazione del lavoratore,
il potere di dirigere il lavoratore in quello che fa, e da ultimo il potere di
controllo, entro i limiti di legge, del comportamento tenuto dal lavoratore.
1.5.1 Il deterioramento del Welfare State
Le soluzione della questione sociale, come partecipazione ragionata, negli
anni ’60 e ’70, sulla spinta di concezioni egualitaristiche di stampo
comunista, ha prodotto un sistema di retribuzione “egualitario”
19
, cioè
adottando la strategia contrattualistica di penalizzare le classi lavorative più
19
P. ROSANVALLON, op. cit.
23
elevate al fine di ottenere maggiori benefici per quelle più basse. Se negli
intenti questa strategia appare perfettamente condivisibile, nella sostanza
ha prodotto una demotivazione nelle classi lavoratrici più elevate, poiché
si era inciso su quella funzione d’appagamento che è insita nel lavoro,
appagamento non solo morale, ma anche attinente alla soddisfazione per il
proprio lavoro.
Nella contratazione degli anni ‘ 80 e’90 si è cercato di modificare il sistema
retributivo in senso “meritorio” con l’instituzione di premi incentivanti,
legati ai meriti di produzione, efficienza (qualità) e redditività aziendale, sia
individuali sia di gruppo. Sebbene l’intenzione è delle migliori, nella realtà
questi premi consistono in una parte piuttosto esigua della retribuzione e,
la loro capacità incentivante è fortemente legata all’interesse individuale
all’incremento retributivo.
L’evoluzione del sistema produttivo mondiale ha modificato i tratti della
quastione sociale, dagli anni ’80 si stà assistendo “all’emergere di nuove
24
forme di poverta e di emarginazione”, nonchè al crollo del sistema
assicurativo, che negli anni ’70 aveva fatto ritenere l’individuo protetto
contro qualsiasi rischio (pensioni, cassa integrazione, stabilità del posto di
lavoro, reale od obbligatoria che sia). Il sistema previdenziale stà cedendo
sotto i colpi del cambiamento demografico e della scarsa previdenza dei
legislatori, che si sono ostinati a mantenere un sistema basato sulla
solidarietà intergenerazionale che non era più sostenibile dalla collettività.
In ultima analisi il welfare state si stà sgretolando e segue la necessità di
essere seriamente ripensato. Questa è quella che si può definire “nuova
questione sociale”
20
.
20
P. ROSANVALLON, op. cit.