II
delle due versioni della pericope delle Beatitudini, mediante una
manipolazione di tale fonte da parte degli evangelisti,
conseguente alla differente sensibilità dei diversi autori.
In questa indagine mia guida fondamentale è stata lo
studio di Jacques Dupont dedicato alle Beatitudini
1
ritenuto da
più parti l’opera che affronta con più completezza l’argomento,
senza indulgere in interpretazioni che si discostano troppo dal
testo scritto, ma anzi partendo da esso e fondando su esso
ogni tipo di riflessione. Ed è su questa linea che Dupont cerca
di dimostrare l’infondatezza di alcune interpretazioni delle
Beatitudini, che si indirizzano verso una esegesi troppo
speculativa, interessata cioè a dare, secondo me, più una
lettura attualizzante che un giudizio che si fondi su quello che
gli evangelisti avranno voluto dire riportando le parole che Gesù
pronunciò quel giorno.
Il presente lavoro cerca di analizzare i termini usati da
Matteo e Luca nella redazione della prima beatitudine, partendo
dai testi della letteratura greca più antica, in cui si può
riscontrare un’abbondante presenza di materiale inerente ai
macarismi, proseguendo con i testi della Bibbia dei LXX,
avvalendomi anche del confronto, seppure a livello di citazione,
con la lingua ebraica (che costituisce la base dei testi
veterotestamentari tradotti dai Settanta e il precedente
immediato degli scritti del Nuovo Testamento), notando infine
l’evoluzione semantica delle parole, dei costrutti simili, fino ad
arrivare a studiare la letteratura neotestamentaria.
1
J. Dupont, Le Beatitudini, vol.1: I. Il problema letterario, II. La buona novella, vol.
2: III. Gli evangelisti, Milano, Ed. Paoline, 1992 [1969]. Da quest’opera ho ripreso
parecchi studi bibliografici che ho citato in nota.
1
Capitolo I
I MACARISMI: ANALISI DEL LESSICO DELLA
“BEATITUDINE” DALLA GRECITA’ PROFANA
ALLA ESPERIENZA NEOTESTAMENTARIA
1.1. I MACARISMI NELLA LETTERATURA GRECA
L’evangelista Matteo e l’evangelista Luca, riportano,
attribuendole a Gesù di Nazareth, espressioni di beatitudine
rivolte ad alcune categorie di persone quali i poveri in spirito, gli
afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i
misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati
per la giustizia
1
. Queste espressioni, con cui si esalta qualcuno
come “felice”, “beato”, mettendone in chiaro il motivo, sono
definite macarismi.
Il termine macarismo si riscontra per la prima volta in
Platone, Repubblica 9, 591 d, dove si riferisce all’esaltazione
fatta dal popolo nei riguardi di uomini stimati che evitano di
accrescere il possesso di denaro, per non procurarsi disgrazie,
tendendo all’armonia e all’equilibrio interiore:
" OÈkoËn, e‰pon, ka‹ tØn §n tª t«n xrhmãtvn
ktÆsei sÊntaj¤n te ka‹ sumfvn¤an; ka‹ tÚn ˆgkon
toË plÆyouw oÈk §kplhttÒmenow ÍpÚ toË t«n
2
poll«n makarismoË êpeiron aÈjÆsei, ép°ranta
kakå ¶xvn; "
“Dunque, dissi, non cercherà l’equilibrio e l’armonia nel
possesso delle ricchezze? E accrescerà la massa illimitata dei
beni senza lasciarsi scuotere dalla proclamazione di felicità
fatta dalla moltitudine?”.
Aristotele utilizza in senso tecnico il termine makarismÚw
nella Retorica 1, 9, p. 1367b 33:
" makarismÚw d¢ ka‹ eÈdaimonismÚw aÍto›w m¢n
taÈtã "
”ritenere qualcuno beato o felice sono, in se stessi,
un’identica cosa”
2
.
Epicuro riporta il termine makarismÚw nelle Sentenze
Vaticane 52 in cui l’amicizia spingerebbe gli uomini ad un
atteggiamento non passivo, tendente alla beatitudine:
" ÑH fil¤a perixoreÊei tØn ofikoum°nhn khrÊttousa
dØ pçsin ≤m›n §ge¤resyai §p‹ tÚn makarismÒn "
1
Cf. Vangelo di Mt 5, 3-12; Lc 6, 20-23.
2
Aristotle, Rhetoric I a commentary William M. A. Grimaldi, New York, Fordham
University Press, 1980, 1367b 33, a proposito di makarismÚw, dice: ”Questo
esempio apparentemente unico della forma del sostantivo in Aristotele è
probabilmente meglio tradotto “vocazione beata”. Qui è identificato ("aÍto›w m¢n
taÈtã") con eÈdaimonismÒw, ”vocazione felice”, e entrambi sono differenti da
¶painow e §gk≈mion: toÊtoiw d'oÈ taÈtã". Nella nota successiva 1367b 34-35
chiarisce il motivo della differenza: ”eÈdaimonismÒw e makarismÒw costituiscono
una più larga classe che include dentro di sé ¶painow e §gk≈mion. Una
spiegazione valida di queste righe è da trovare nell’Etica a Nicomaco 1101b 10 –
1102a 4 dove Aristotele considera che eÈdaimon¤a faccia parte delle cose che
lodiamo”. Vedi anche A. Wartelle, Lexique de la Rhétorique d’Aristote, Paris, ed.
Les Belles Lettres, 1982 che a pag. 248, s.v. makarismÚw, scrive: “celebrazione
della beatitudine altrui, ‘beatificazione’ ”.
3
“l’amicizia trascorre per tutta la terra annunciando a tutti noi di
svegliarci riguardo all’elogio della felicità”.
Plutarco nel De tranquillitate animi (Moralia II p. 471 c)
riporta un altro macarismo tratto da Omero, Iliade 3, 182:
" œ mãkar 'Atre¤dh, moirhgen¢w, ÙlbiÒdaimon:
ßjvyen o?tow ı makarismÚw, ˜plvn ka‹ ·ppvn
ka‹ stratiçw perikexum°nhw "
”o beato Atride, generato dal fato e felice, questo macarismo
prescinde dalle armi, dai cavalli e dall’esercito raccolto intorno”.
Qui Agamennone, circondato dalle armi, dai cavalli e dai
guerrieri, offrirebbe un’immagine di sé tale da giustificare
l’esaltazione della sua condizione da parte di Priamo. Ma dietro
questa apparente felicità, si nasconde un volto sofferente, uno
spirito inquieto, a cui la tragicità degli avvenimenti della vita ha
tolto la gioia di vivere. Perciò, nonostante le apparenze, l’Atride
è infelice.
Analizzando i termini usati in questo macarismo mãkar
alluderebbe alla beatitudine simile a quella di cui godono gli dèi,
i mãkarew, e di cui Agamennone parrebbe partecipare. Per
moirhgen¢w mi pare condivisibile la posizione di De Heer
3
che lo
traduce “Figlio di Moira” cioè della divinità che distribuisce
all’uomo la sua porzione permanente di cose buone o cattive:
l’Atride sarebbe allora
3
C. De Heer, MAKAR, EUDAIMVN, OLBIOS, EUTUXHS. A study of the
semantic field denoting happiness in ancient greek to the 5
th
century B. C.,
Amsterdam, 1968, pag. 8.
4
dispensatore del favore divino in quanto l’epiteto mette in
relazione l’uomo con il favore di poteri immortali. ÉOlbioda‹mvn
è interpretato da De Heer come “uno che il da‹mvn ha reso
ˆlbiow ” dove da‹mvn è una divinità generica che protegge il
comandante col suo favore.
In questa citazione, poi, si possono notare due dei quattro
termini che nella lingua greca classica designavano la
beatitudine, mãkar e ˆlbiow; gli altri due termini sono eÈda¤mvn
ed eÈtuxÆw. Di questi termini che nella grecità indicavano la
beatitudine sotto vari aspetti
4
, per il favore degli dèi, per il
possesso dei beni materiali, per la protezione di un buon dio e
per la buona sorte, la Bibbia utilizza soltanto makãriow
5
.
De Heer
6
fa notare come lo sviluppo del campo semantico
di questi quattro termini da Omero fin al V sec. a. C. non sia
ancora chiaro. Per la parola eÈtuxÆw si mette in luce come
essa, in virtù di associazioni morfologiche con eÈda¤mvn, si sia
modellata più di recente di quest’ultima.
4
F. Hauck, makãriow, makar¤zv, makarismÚw, in Grande Lessico del Nuovo
Testamento VI 977, Brescia, Paideia.
5
J. Gruber, Gnomon 1971, pagg. 16-20, riguardo al volume di De Heer, afferma: “Il
nome mãkar evoca un senso complesso associato al mondo divino. Se applicato
agli dèi denota una vita fatta di agio e di divertimento perenni. ÖOlbiow è utilizzato
per indicare il possesso di beni di grande valore, ricchezze materiali, possedimenti
che rendono completa la vita di un uomo o che lo caratterizzano come individuo
straordinario”. Poi sottolinea come ˆlbiow sia la forma aggettivale di ˆlbow, col
significato di “relativo alla benedizione, che riceve la benedizione”, tant’è che
Odisseo chiama così Telemaco perché spera che abbia già preso il suo posto e stia
esercitando i poteri in sua vece. Quindi qui la nozione di felicità derivante dal
possesso di beni materiali è assente. (Esiodo, ad esempio, utilizza ˆlbiow con un
significato molto simile a mãkar). In Esiodo, poi, eÈda¤mvn è termine che
significa “abile nell’evitare i da¤monew” e “che gode dei favori dei da¤monew”.
5
Lo studioso congettura che, come eÈdaimon°v si è
formato dopo l’aggettivo che gli è strettamente imparentato,
così analogamente si è potuto supporre che l’aggettivo eÈtuxÆw
abbia preceduto il verbo eÈtuxe›n. Questo deve essere stato
inventato dopo Esiodo per il quale invece eÈda¤mvn indicava la
consapevole contraddizione tra la condizione permanente in cui
versava l’individuo e lo stato di un cambiamento verso una
migliore condizione, non dovuto a pregi o meriti personali.
Per makãriow i dati sono altrettanto incerti: molto
probabilmente esso avrà avuto origine nell’ambito della
religione e del senso religioso, cosa che avrà interdetto il suo
uso agli uomini; se ne attribuisce l'invenzione a Pindaro.
EÈda¤mvn ha avuto la carriera più spettacolare: se in
Esiodo il suo significato era quello semplice di “felice”,
“fortunato”, nel V sec a. C. il significato recava in sé tutto il
portato delle speranze e delle passioni che il tempo rifletteva.
Un ulteriore elemento da prendere in considerazione è che il
simile uso che ne fa Tucidide e gli oratori nei lavori in prosa
porterebbe alla conclusione che il gruppo semantico di
eÈda¤mvn ha come destinatarie persone dalla condizione
sociale ricca ed elevata.
Il fatto, poi, che makãriow non compaia in Sofocle e in
Eschilo non porta a denotare una ripugnanza di questo termine
Invece la prima attestazione dell’aggettivo makãriow come “colui che condivide la
distinzione dell’essere mãkar” è presente in Pindaro, Pitica 5, 47.
6
in questi autori
7
; in Euripide questa parola non è neppure
configurata, dato che secondo De Heer essa sarebbe dovuta
“ad una valutazione comune e volgare”.
Se questa parola è assente anche negli autori di prosa del
tardo V sec., cosa che vale anche per ˆlbiow, ciò indicherebbe
che tali termini sono via via stati considerati come vocabula
sollemnia, destinati quindi a contesti e occasioni
particolarmente solenni.
Sinesio, nella epistola “All’imperatore sulla regalità”, a p. 4
A, rivolgendosi all’imperatore Arcadio (395–408),
presso il quale Sinesio era stato inviato dal senato di
Cirene per perorare la causa di quella provincia oppressa dalla
guerra, riferisce:
" ¶sti d¢ oÈ m¤a fÊsiw, éll' ßteron, •kãteron,
makarismÚw ka‹ ¶painow: makar¤zetai m¢n går tiw
§p‹ to›w ¶jvyen, §paine›tai d¢ §p‹ to›w ®ndoyen,
§f'œn eÈdaimon¤a tØn to›w ‡sxei "
“non sono la stessa cosa, ma cose diverse l’una dall’altra, il
macarismo e la lode. Si proclama beato qualcuno per fatti
esteriori, lo si loda per i meriti interni sui quali si tiene ferma la
sua felicità”.
Per Sinesio quindi si proclamerebbe beato un tale per le
qualità esteriori mentre lo si loderebbe per le qualità interiori.
6
C. De Heer, op. cit. pagg. 102–103.
7
Dirichlet, in De veterum Macarismis, sostiene il contrario.
7
In Stobeo, ecloga 3, 57, 13s., il nostro termine è riferito
all’esaltazione di un uomo che ha provato una gioia:
" g¤netai d¢ ı m¢n ¶painow §p'éretò, ı d¢
makarismÚw §p'eÈtux¤a "
“la lode è per la virtù, la beatitudine per la fortuna”.
Facciamo un accenno al fatto che anche i Padri della
Chiesa
8
trattano di macarismi. Negli Apophtegmata Patrum
9
in
Epiphanio Cypri Episcopo al n. 13 si legge:
" Diå t¤ d°ka m°n efisin afl nomika‹ §ntola‹, §nn°a d¢
ofl makarismo¤ "
”perciò dieci sono le prescrizioni della legge, nove sono i
macarismi” con riferimento alle Beatitudini pronunciate da
Cristo nei vangeli.
In un passo di Antonio Melissa, monaco greco del XI sec.
autore di racconti e di sentenze morali di cui uno è intitolato
“ M°lissa ”, il termine makarismÒw è usato come sinonimo di
virtù
10
.
Fissiamo ora lo sguardo sull’aggettivo makãriow, usato
nell’Antico e nel Nuovo Testamento e per questo oggetto della
nostra indagine, e cerchiamo di rilevarne i diversi aspetti
semantici ed etimologici.
8
Vedi Glossarium ad Scriptores Mediae & Infimae Graecitatis, tomus primus, s.v.
makarismÒw, col. 853, Lugduni, apud Anissonios, J. Posuel, & C. Rigaud, 1688,
ristampa giugno 1943.
9
Raccolta di detti, storie, biografie, consigli, i cui autori erano monaci eremiti
vissuti fra il IV e il V secolo.
8
Paul Chantraine nel Dictionnaire étymologique de la
langue grecque lo fa derivare da mãkar, un antico neutro
diventato aggettivo
11
, che non ha etimologia (nonostante
qualche studioso vi veda un’impronta egiziana
12
), il cui senso è
“beato” in riferimento agli dèi; in questa direzione spesso è
usato al plurale, ma si può dire degli uomini già a partire da
Omero che nell’Iliade 3, 182 dice:
" Œ mãkar 'Atre¤dh "
“o beato Atride”, dove l’ énÆr mãkar indica un uomo favorito
dagli dèi e che è senza preoccupazioni come le divinità
13
.
Nell’Iliade 24, 99 si legge:
" ëpantew ¥ay'ımhger°ew mãkarew yeo‹ afi¢n §Òntew "
”riuniti in assemblea sono seduti tutti gli dèi, i beati sempiterni”;
nell’Odissea 14, 83 Omero riporta:
10
A. Melissa mon. l. 2, c. 3: " TÚn proest«ta mØ §pair°tv tÚ éj¤vma, ·na
mØ §kp°s˙ toË makarismoË t∞w tapeinofrosÊnhw " ”che il valore non
innalzi il capo perché non perda la virtù – la condizione beata – dell’umiltà”.
11
Benveniste, Origines 18.
12
A. H. Krappe, Rev. Ph. 1940, 245, sostiene per mãkar una etimologia derivante
dall’egiziano m
c
.hrv, “giustificato a voce”, un epiteto comunemente applicato al
morto quando viene identificato con il dio Osiride; Hemmerdinger, Gl. 46, 1968,
240, sostiene la derivazione di mãkar dall’egiziano m
c
r, “beato, felice”. (Cf.
Symbolae Osloenses 46, 1971, pag. 105). De Heer, nell’introduzione della sua opera
afferma che mãkar è etimologicamente relazionato all’egiziano maâ kherou, che
significa “colui che dice il vero”, ed è legato al greco makrÒw ”grande” o al latino
macer “magro”.
13
Cf. Omero, Iliade 11, 68 dove, all’interno della similitudine fra le due squadre dei
mietitori che si incontrano seguendo il solco dei campi di grano e gli eserciti dei
Troiani e dei Greci, si dice che il possessore di questi campi è mãkarow, ricco,
felice per il possesso e capace di condurre una vita tranquilla e piacevole: " Ofl d'Àw
t'émht∞rew §nant¤oi éllÆloisin ˆgmon §laÊnvsin éndrÚw mãkarow
kat'êrouran pur«n ≥ kriy«n [...] ÀwTr«ew ka‹ ÉAxaioi " ”Come i mietitori
si vengono incontro seguendo il solco dei campi di un uomo ricco, campi di grano e
di orzo, così i Troiani e i Greci”. Probabilmente la similitudine qui mira a creare un
9
" oÈ m¢n sx°tlia ¶rga yeo‹ mãkarew fil°ousin "
”gli dèi beati non amano le azioni crudeli”.
In ambedue i casi l’aggettivo mãkarew, epiteto divino, pur
non indicando un macarismo, può essere considerato un indizio
importante riguardo al concetto generale di cosa costituisca la
differenza tra uomini e dèi
14
.
Mãkarew sono anche i defunti in quanto, come gli dèi non
partecipano alle vicissitudini umane e per questo sono beati,
così gli uomini, lasciata questa terra, vivono nelle isole dei
beati, degli dèi, lontano da affanni (§n makãrvn nÆsoisi)
15
.
Teognide nelle Elegie, ai versi 1013-1014 scrive:
" î mãkar, eÈda¤mvn te ka‹ ˆlbiow, ˜stiw êpeirow
êylvn efiw ÉA¤dou d«ma m°lan kat°bh "
“ah beato, fortunato e favorito dalla sorte colui che, senza aver
sofferto, scende nella nera dimora di Ade”.
Si tratta di un macarismo particolare: oltre che per
l’accostamento serrato dei termini che, pur nella vicinanza di
senso, recano ciascuno una diversa sfumatura del concetto
felicità, anche per l’ossimoro presente tra il primo e il secondo
verso in cui si proclama felice, beato colui che muore senza
contrasto tra il mondo violento, brutale e forte dell’Iliade e la serenità, la pace che
certe immagini evocano.
14
C. De Heer, op. cit., pag. 5.
15
Esiodo, Le opere e i giorni 171: " ka‹ to‹ m¢n na¤ousin ékhd°a yumÚn ¶xontew
§n makãrvn nÆsoisi par' ÉVkeanÚn bayud¤nhn " ”e abitano avendo il
cuore lontano da affanni nelle isole dei Beati, presso Oceano dai gorghi profondi”;
cf. Pindaro, Olimpica. 2, 127. In un epitaffio di una donna ignota, probabilmente
una tale Mélas, datato alla bassa epoca ellenistica, si legge: " p°mcan d'éyãnato¤
me yeo‹ makãrvn §b‹ nÆsouw eÈd°n[d]rou y'fleraw ÉHlus¤oio g[Ê]aw " “Gli dèi
10
ambasce umane. De Heer
16
, a proposito di questi versi, fa
notare come si possa notare una climax discendente di senso
emotivo tra i tre termini usati dal poeta di Megara Nisea: se
mãkar indica colui che ha raggiunto una condizione beata rara
e dura da raggiungere, e ˆlbiow caratterizza l’uomo che vive la
felicità con una certa frequenza e perciò più facile da
raggiungere ed effimera, allora anche discendere agli inferi
senza affanni è considerata una fortuna che però non toglie
l’amarezza della morte.
Pindaro lo utilizza in relazione a luoghi, come nella Pitica
10, 1-2:
" Ùlb¤a Lakeda¤mvn, mãkaira Yessal¤a "
”felice Sparta, beata Tessaglia”
17
.
Si tratta di due invocazioni rivolte a Sparta e alla Tessaglia
oppure si potrebbero interpretare come due affermazioni con il
verbo §st¤ sottinteso. I due aggettivi, utilizzati in stretta
vicinanza, accordati ai nominativi cui si riferiscono, chiariscono
l’interpretazione del passo: i due paesi sono felici perché su di
essi regnano stirpi discese da Eracle. Se per Van Groningen
18
nell’uso dei due aggettivi non si può scorgere una climax, De
Heer
19
afferma che la chiave di lettura del passo consiste nel
fatto che l’ode fu commissionata da Aleuade, il principe
mi hanno inviato verso le isole dei beati e i sacri campi dell’ombreggiato Eliso”.
(Bernard, Inscr. Métr. nr. 38, 9).
16
Op. cit., pag. 48-49
17
Cf. Pindaro, Istmica 7,1.
18
La Composition, pag. 346, nota 3.
11
ereditario di Larissa. Pindaro allora, nei versi di apertura,
compirebbe un atto di ossequio verso il principe paragonando
la Tessaglia con Sparta e utilizzando Ùlb¤a prima del più antico
mãkaira. Questo sarebbe dovuto alla forza emotiva di mãkar
che è più forte di quella di ˆlbiow. Mentre il fatto di essere usati
in così stretta vicinanza sarebbe indice del perspicuo significato
intercorrente fra i due termini.
A. Wartelle
20
s.v. mãkar, mãkaira, mãkar, rimanda al un
frammento 96 = fr. 4 Puech, dei Parteni di Pindaro, in cui si
trova scritto:
" Ÿ mãkar, ˜n te megãlaw yeoË kÊna pantodapÒn
kal°oisin ÉOlÊmpioi "
“oh beato te che gli dèi dell’Olimpo chiamano il cane multiforme
della Grande Dea”. A commento di questo testo diciamo che la
biografia Ambrosiana (pagina 2, nell’edizione degli scolii di
Drachman, tomo I) riferisce una ridicola leggenda secondo cui
“il dio Pan fu scorto tra il Citerone e l’Elicona, a cantare un
peana di Pindaro”. Per questo il poeta, con atto di
riconoscenza, gli avrebbe composto un canto
21
. Di tale
devozione per il dio Pan, Pindaro aveva manifestamente scritto
nella Pitica 3, ai versi 78–79.
Pindaro qui proclamerebbe “beato” Pan riscattandolo: non
più demone locale, ma inserito definitivamente tra le divinità
19
Op. cit., pag. 48.
20
Op. cit., pag. 248.
12
olimpiche maggiori, i mãkarew §n ÑOlÊmpƒ ”dai quali verrebbe
sancita l’investitura e la cui menzione chiude organicamente il
frammento”
22
.
Infine al plurale mãkarew designa i Beati, i morti che
risiedono nelle isole dei Beati
23
.
Diviene poi sinonimo di immortale e di uso costante in età
ellenistica: un epigramma di Corcira inizia con ZeË mãkar
24
; nel
Monumento di Agrio si legge: ”i dodici dèi che unitamente a
Zeus, sono detti beati”
25
.
Lo studioso G. Semerano, attribuendo all’aggettivo mãkar
il significato di “favorito, privilegiato, beato” e al derivato
makãriow il significato di “favorito dagli dèi, felice, beato”,
sottolinea come questa sfumatura semantica del favore
rimanderebbe all’accadico MAGĀRU (“accordare favori, essere
consenziente”) mettendolo a confronto con l’accadico MAGRU
(“che accorda favori”). Ma il significato di ofl mãkarew come “i
defunti, i morti che abitano nelle isole dei beati” mostra che la
base di mãkar si incrociò con quella del medio babilonese
MAHAR� che ha legame con l’accadico MAHR�M (“passato,
antico, primo”)
26
.
21
Pindare, Isthmiques et fragments, tome IV, texte établi et traduit par A. Puech,
Paris, Les Belles Lettres, 1952, pag. 178.
22
L. Lehms, L’inno a Pan di Pindaro, Modena, ed. Cisalpino–Goliardica, 1979,
pagg. 151. 153.
23
Cf. Esiodo, Le opere e i giorni 171. (vedi. nota 15 di questo capitolo).
24
J. e L. Robert, Bullettin épigraphique: REG 1964 175, nr. 217.
25
Bernard, Iscr. Métr. Nr.114 col.2,11; cfr. col. 3,12.
26
G. Semerano, ”Le origini della cultura europea”, Dizionario etimologico, Vol. II.
Basi semitiche delle lingue indoeuropee, Dizionario della lingua greca, s. v. mãkar,
Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1984, pag. 173.
13
Makãriow col significato di “beato, favorito dagli dèi” è
usato da Pindaro in riferimento agli uomini nella Pitica 5, 47,
dove è riferito a un tal Carroto, figlio di Alessibio, che condusse
intatto il carro del re di Cirene, Arcesilao, alla vittoria dei giochi
Pitici:
" makãriow ˜w ¶xeiw ka‹ pedå m°gan
kãmatvn lÒgvn fertãtvn mnamÆia "
“te beato, che pure, dopo grande fatica, hai un monumento di
altissime parole”.
Tutta l’ode è a esaltazione della stirpe dei Battiadi, infatti
l’epiteto mãkar è rivolto all’indirizzo sia del capostipite Batto al
verso 94:
" mãkar m¢n éndr«n m°ta ¶naien "
“Beato dimorava tra gli uomini”, ma anche all’ultimo
rappresentante della stirpe, Arcesilao
" mãkar d¢ ka‹ nËn, kleennçw ˜ti eÔxow µdh parå
Puyiãdow ·ppoiw "
“e ancora felice tu sei perché traesti coi cavalli il vanto
dell’insigne festa pitica”.