2
macroeconomiche che emergono indirettamente dall’integrazione ed aggregazione
delle decisioni individuali. Di ciò gli economisti hanno preso progressivamente
coscienza in questi ultimi decenni, stimolando l’elaborazione di nuovi strumenti
analitici e di famiglie di modelli che risultano in grado di rappresentare e manipolare
opportune misure dell’incertezza ed estendendo progressivamente la loro
applicazione ai problemi economici. Gli sviluppi fondamentali hanno riguardato
l’introduzione sistematica dell’incertezza nei due seguenti filoni di ricerca:
- la teoria delle decisioni (parte prima);
- la teoria dei giochi (parte seconda);
L’evoluzione di questi due filoni, rispettivamente inseriti nella prima e seconda parte,
rappresentano il tema di ricerca principale di questo studio.
Nel primo capitolo viene preso in esame l’assunto espresso dall’individualismo
metodologico che sta alla base della comprensione dei fatti sociali mediante l’assunto
di razionalità nelle decisioni individuali. La questione principale che è posta in
questo capitolo è se l’individualismo metodologico come requisito relativo alle
spiegazioni di fatti sociali vada inteso come un requisito formale, riguardante la
logica della spiegazione, oppure come tesi sostantiva sul contenuto delle spiegazioni
sociali medesime. Questo aspetto della discussione è affrontato attraverso l’analisi
della concezione dell’individualismo metodologico come richiesta di
microfondazioni per la scienza sociale. L’argomento qui avanzato implica che il
privilegiamento delle microfondazioni per la spiegazione dei fenomeni aggregati,
acquista un significato definito e preciso solo se riguarda il contenuto delle
spiegazioni con riferimento al peso specifico esercitato dagli individui e dalle loro
azioni nel determinare la configurazione del mondo sociale. E’ tuttavia necessario
specificare ulteriormente la tesi delle microfondazioni, perché una versione troppo
ristretta può risultare immediatamente non plausibile e una versione troppo larga può
diventare tautologica. In altre parole, ci si chiede se tra i diversi tipi di spiegazione
individualistica dei fenomeni sociali è possibile individuarne almeno uno che sia al
tempo stesso plausibile e non tautologico. A questo fine vengono analizzati tre tipi di
spiegazioni individualistiche, associate a tre famiglie di teorie sociali e cioè quelle
dell’individualismo atomistico, quelle behavioristiche e, infine, quelle dell’azione
razionale. Dall’indagine su questi tre diversi modi di intendere la spiegazione
3
individualistica si giunge alla conclusione che solo le spiegazioni proposte dalla
teoria dell’azione razionale, che presuppongono cioè un modello intenzionale
dell’agente, implicano un principio individualistico che soddisfa i requisiti della
plausibilità e della non tautologia. Solo in questo caso, infatti, gli individui come
agenti contribuiscono attivamente alla costituzione del mondo sociale e possono
legittimamente rappresentare l’unità d’analisi nella catena esplicativa per i fenomeni
sociali aggregati.
La teoria standard del comportamento razionale viene introdotta nel capitolo 2.
In questo capitolo viene presentata una tassonomia delle principali teorie delle
decisioni:
- decisioni in stato di certezza
- decisioni in stato di rischio (teoria oggetivistica o frequentista)
- decisioni in stato di incertezza (teoria soggettivistica o bayesiana)
Per altro in questa trattazione si esporrà la situazione di rischio con valore per lo più
esemplificativo. Successivamente, in linea con l’approccio soggettivista, si
considererà rischio e incertezza come sinonimi. Esiste, infatti, un approccio definito
oggettivista o frequentista, che trae origine dai lavori di Knight [1957] e di Keynes
[1921], in cui si sostiene l’esistenza di una distinzione fondamentale tra rischio e
incertezza: è rischiosa una situazione in cui è possibile assegnare probabilità agli
eventi da cui dipendono le conseguenze delle azioni; è invece incerta una situazione
in cui quelle probabilità non sono note. Secondo l’approccio soggettivista della
probabilità, adottato prevalentemente in questa ricerca, la distinzione tra rischio e
incertezza è priva di senso, poiché privo di senso è il parlare di probabilità note o
ignote: la probabilità, da un punto di vista soggettiva, non è qualcosa che esiste
oggettivamente e che si può conoscere o non conoscere; è solo la traduzione
numerica di una valutazione soggettiva, e in quanto tale è necessariamente,
tautologicamente nota al soggetto che la formula.
Se l’agente deve scegliere tra azioni le cui conseguenze non possono essere previste
in modo univoco, al presupposto di razionalità individuale (preferenza per uno degli
esiti possibili) deve essere associata anche una razionalità epistemica. Essa
rappresenta le credenze dell’agente riguardo ai possibili stati del mondo, che si
esprimono nelle probabilità che egli attribuisce a quegli stati. In particolare la teoria
4
soggettivista fornisce il metodo classico di apprendimento (revisione delle credenze
basata sulla regola di Bayes) utilizzata dall’ipotesi di aspettative razionali.
Tale teoria della conoscenza viene poi ripresa e affrontata in maniera sistematica nel
capitolo 3. In questo capitolo viene sottolineato il fatto che nella realtà l’assenza di
incertezza, seppur utile per mettere in risalto alcune caratteristiche del processo di
formulazione della scelta, è raramente verificata. Nella realtà quasi tutte le decisioni
rilevanti avvengono in condizioni di incertezza, ovvero in condizioni in cui le
conseguenze delle azioni della persona non sono univocamente descrivibili: esse
dipendono da quale, tra un certo numero di altre circostanze indipendenti dalla scelta,
si materializza. Ci riferiremo a queste circostanze con il termine eventi. Più
precisamente quindi, l’incertezza verrà identificata con la carenza di informazione
circa la verità (o falsità) di eventi rilevanti per la scelta. La quantità di informazione
di cui i vari agenti economici sono in possesso e il modo in cui essa si modifica sono
quindi fondamentali questioni nello studio delle scelte in un mondo incerto. Vedremo
che l’interesse per l’acquisizione di maggiore informazione deriva dalla possibilità,
che essa consente, di allocare meglio le risorse di cui l’operatore dispone, traendone
così maggiore utilità. Tale nozione di informazione avrà un impatto decisivo sulla
scelta. Poiché la teoria delle decisioni in condizioni di incertezza prescrive la
massimizzazione di una media ponderata delle utilità delle singole conseguenze,
dove i pesi sono dati dalle probabilità che si verifichino i vari stati e l’osservazione di
un segnale conduce a rivedere quelle probabilità, è chiaro che l’informazione ha in
generale impatto sulla scelta, e per questa via acquisisce un valore per colui che deve
prendere la decisione. La conseguenza fondamentale della disponibilità di nuova
informazione è la revisione delle probabilità che originariamente erano attribuite agli
eventi rilevanti. Si mostrerà che un modo formale di derivare le distribuzioni di
probabilità anzidette si ottiene applicando il teorema di Bayes.
Finora si è parlato di decisioni in una situazione in cui l’incertezza poteva derivare
dalla mancanza di in formazione riguardo gli eventi rilevanti. Nella parte seconda
(capitolo 4 e 5) introdurremo situazioni in cui la scelta di un agente è inserita in un
contesto strategico. In questo caso l’incertezza dipende anche dalle possibili
decisioni compiute dagli altri agenti. In tali casi, le scelte degli individui sono
influenzate dalle aspettative sul comportamento degli altri agenti. Date le loro
5
previsioni riguardo al futuro gli agenti ottimizzano, ma il futuro stesso dipende in
parte dalle previsioni effettuate. In un contesto del genere, per decidere in che modo
agire, ogni individuo deve conoscere almeno parzialmente le previsioni degli altri
agenti, e deve sapere su quali informazioni basano le loro previsioni. La razionalità
individuale deve essere integrata dalla conoscenza dell’ambiente, che comprende
azioni e credenze di altri agenti.
L’intima connessione tra preferenze verso le alternative (razionalità strumentale) e
credenze ha richiesto il tentativo di ricostruire una teoria generale della razionalità:
questo è appunto ciò di cui si occupa la game theory. Più in particolare tutta l’analisi
di equilibrio che fornisce la game theory richiede che il gioco, la razionalità dei
giocatori e le credenze che essi si formano siano conoscenza comune (common
knowledge). La conoscenza comune è quel sistema di aspettative dei giocatori
reciprocamente concordanti sul comportamento l’uno dell’altro, che è la base per
giustificare la scelta di un equilibrio come soluzione razionale del gioco. Questi
concetti, come pure le condizioni in base alle quali gli agenti possono formare
aspettative “corrette” per selezionare un equilibrio, sono introdotti nel capitolo 4
attraverso la forma normale del gioco. Il capitolo 5 descrive, invece, questo processo
nell’ambito dei giochi in forma estesa in cui, a differenza dei giochi in forma
normale, diventa rilevante la sequenza delle mosse compiute dai giocatori e la loro
struttura informativa.
In particolare i concetti di equilibrio che si analizzeranno in questi capitoli sono:
equilibrio a strategie dominanti; equilibrio a strategie dominanti iterate; equilibrio del
minimax; equilibrio di Nash; equilibrio tramite induzione retrospettiva; equilibrio di
Nash perfetto nei sottogiochi; equilibrio bayesiano perfetto.
Nel capitolo 6 si introdurrà il concetto di razionalità limitata che di fatto mette in
crisi alcuni postulati basilari (ad esempio la concezione della struttura informativa
partizionale o la possibilità di effettuare stime probabilistiche soggettive per eventi
imprevisti) su cui si fondano sia la teoria delle decisioni sia, essendo di essa una
diretta estensione, la teoria dei giochi. La nozione di razionalità limitata insomma
mette in dubbio la possibilità che sorgano aspettative reciproche tra le parti in grado
di sostenere la loro cooperazione.
6
Un approccio alternativo viene fornito attraverso il codice etico d’impresa [Sacconi
1997] che fornisce una risposta alle situazioni in cui i giocatori affrontano una
situazione di scelta in cui non dispongono di tutte le alternative complete dello stato
del mondo. Più precisamente si sosterrà che tale situazione di razionalità limitata
produrrà casi di abuso d’autorità nell’impresa. Diventa dunque pressante l’esigenza
di introdurre delle norme di condotta, che essendo delle regolarità di comportamento,
possono risolvere i problemi di cooperazione, cioè generare aspettative reciproche.
Tale analisi del codice etico ci porterà ad affrontare due problemi specifici: 1) la
costituzione del codice etico stesso: l’identificazione dei termini di un contratto
sociale ipotetico nella prospettiva ex ante, cioè nella prospettiva di individui che
debbano decidere, da un punto di vista ipotetico, imparziale e impersonale, il
problema di quale sia l’accordo accettabile da parte di tutti coloro che cooperano
all’impresa; 2) il problema della sua osservanza: la generazione di incentivi
appropriati all’osservanza del contratto ex post, cioè nella prospettiva in cui i vari
agenti possono decidere di rispettare o meno il contratto sociale, ipoteticamente
concordato nella prospettiva ex ante, rispondendo ai loro incentivi autointeressati.
Per quanto riguarda il primo dei problemi sopra menzionati si cerca una risposta
attraverso l’utilizzo del modello normativo di contratto sociale, idea questa presa in
prestito dalla filosofia politica. La genesi delle norme non viene quindi spiegata
attraverso un approccio evolutivo, ma attraverso la costituzione di un contratto
sociale ipotetico. Esso diventa così un modello ipotetico di accordo che può fornirci
il criterio per far emergere norme cooperative generali, in risposta a situazioni di
incertezza radicale (eventi ex ante imprevisti imprevisti), che come si vedrà possono
generare un abuso d’autorità all’interno dell’impresa. Per stabilire tali norme non
facciamo perciò riferimento ad al contratto reale ma a un’idea implicita di equità.
L’idea di equità è ricavata dal modello ideale di un contratto imparziale, negoziato
dalle parti in assenza di forze o frode, e senza gli effetti generati dagli investimenti
specifici. Il contratto sociale definisce il termine di paragone ideale dell’uso non
abusivo dell’autorità, stabilendo che ogni membro dell’organizzazione debba
partecipare ad una strategia cooperativa in cambio di una efficiente-equa del surplus.
La teoria che si tratterà per risponde al secondo problema è quella degli effetti di
reputazione [Kreps 1990]. Tale teoria si basa sull’intuizione che sia a causa
7
dell’interesse a mantenere elevata la propria reputazione in vista delle transazioni
future, cioè di sostenere le credenze degli avversari circa il fatto che il giocatore sia
effettivamente impegnato a seguire una strategia cooperativa, che i giocatori sono
incentivati a mantenere già oggi gli impegni. Risolvendo il secondo problema, il
contratto sociale si autosostiene, ovvero può essere concepito come un insieme di
principi morali, che non richiedono per essere fatti valere di ricorrere alla forza
impositiva della legge.
Parte Prima
8
Capitolo 1
L’individualismo come metodo per la spiegazione dei fatti
sociali
1.1 Individualismo vs Olismo: una disputa metodologica.
Il dibattito tra individualismo e olismo è un antico problema che da sempre si
ripropone nella filosofia delle scienze sociali. All’interno di questo dibattito si
possono riscontrare due piani di discorso che, seppur legati, riguardano due
controversie distinte. La prima controversia può essere definita ontologica e pone la
seguente questione: esistono realtà come “la società”, lo “stato”, “la struttura
sociale”, “il sistema economico”, e così via; oppure non esistono queste entità
sovraindividuali ma esistono solo gli individui, i quali agiscono in base ad idee?
[Antisieri e Pellicani 1992].
Per l’olista, sempre realista, ai concetti di Stato, Chiesa, Partito, sistema economico,
corrispondono realtà effettive, senza le quali l’individuo non sussisterebbe. La
società è indipendente e preesiste agli individui, ed è essa stessa che li plasma e
vigila sui loro comportamenti, imponendo ad essi linguaggio, norme e valori.
Sulla sponda opposta a quella dei collettivisti stanno gli individualisti. Per costoro
esistono soltanto individui: individui che hanno certe credenze e che, in base a queste
credenze, compiono determinate azioni. Le entità sovraindividuali, in quanto realtà
specifiche e autonome dagli individui, non esistono, né esiste quindi, una realtà come
lo stato: esistono unicamente la volontà di questo o quel ministro, o di questo o quel
funzionario. Non esiste l’esercito: esistono solo i singoli soldati che danno o
eseguono ordini, che muoiono, si addestrano, sparano, ed uccidono altri individui che
considerano nemici.
Distinguibile da quello ontologico è il problema metodologico che può essere
formulato in questo modo: per quale via, con quale procedura spiegare genesi e
mutamenti di istituzioni sociali quali la moneta, lo Stato, il linguaggio, il mercato?
9
Il collettivista metodologico sostiene che senza comprensione di quei collectiva che
sono lo Stato, la chiesa, il partito, la società, la nazione, le azioni degli individui
rimarrebbero inesplicabili. Queste entità collettive esistono e la loro esistenza
precede ed è esterna all’individuo, che esse poi riescono a plasmare. Quel che è
necessario è, quindi, comprendere i modi di sviluppo di queste realtà collettive e le
leggi che li determinano.
Un approccio apertamente olististico nell’analisi dei processi sociali è, ad esempio, lo
strutturalismo francese. Sia, infatti, la teoria di Althusser che quella di Foucault,
personaggi di spicco di questa corrente, offrono un’immagine del mondo sociale
come intersezione di strutture, processi, funzioni che appaiono analizzati nella loro
compatibilità, contraddittorietà o, viceversa armonia. Il punto della teoria è in
entrambe i casi quello di evidenziare la logica di queste strutture, istituzioni e
pratiche e le modalità delle loro trasformazioni. E’ evidente in questo quadro il ruolo
svolto dagli individui: per Althusser, essi sono solo supporti di rapporti sociali,
analizzabili dunque, seguendo la terminologia marxiana, tramite la loro collocazione
strutturale
1
; per Foucault, essi sono solo corpi passivi, mossi sempre da una causa
strutturale, oscura per l’individuo, che sta dietro il suo piano intenzionale e che
rappresenta la causa effettiva dell’azione
2
.
Quello che il collettivista metodologico reputa il metodo o la procedura giusta per lo
studio di fenomeni sociali è, per gli individualisti, mitologia; una mitologia che
attribuisce esistenza a quei costrutti mentali che sono lo stato, il mercato, l’elettorato,
e così via. Per l’individualismo metodologico i fenomeni sociali e le istituzioni
sociali sono, dunque, spiegabili unicamente in termini di individui che hanno
assorbito certe idee da altri individui o che hanno prodotto nuove idee in base a cui
agire. Una buona definizione di individualismo metodologico ci è proposta da L. von
Mises [1881-1973] in The Task and Scope of the Science of Human Action in cui
scrive:“ Per gli scopi della scienza noi dobbiamo partire dall’azione dell’individuo
poiché essa è la sola della quale noi possiamo avere cognizione diretta. L’idea di una
1
Vedere su questo tema L. Althusser – E. Balibar, Leggere il capitale, trad. it. a cura di R. Rinaldi e
V. Oskian, Feltrinelli, Milano, 1968.
2
Vedere in special modo M. Foucault, La microfisica del potere, trad. it. a cura di A. Fontana e P.
Pasquino, Einaudi, Torino, 1977 e La volontà di sapere, trad. it. a cura di P. Pasquino e G. Procacci,
Feltrinelli, Milano, 1978.
10
società che opererebbe o si manifesterebbe indipendentemente dall’azione degli
individui è assurda. Qualsiasi fenomeno sociale deve in qualche modo essere
riconoscibile nell’azione dell’individuo …”.
L’individualismo metodologico si risolve nella convinzione per cui il modo corretto
di spiegare una situazione sociale è di presentarla come una risultante delle attività di
individui che interagiscono. Sarà, dunque, dagli individui che lo scienziato sociale
dovrà partire per spiegare e comprendere i fenomeni sociali.
1.2 Spiegazioni individualistivhe: le microfondazioni
Nella recente letteratura economica e sociologica si è rilevato il successo
dell’individualismo metodologico. In particolare, la preferibilità delle spiegazioni
individualiste si è affermata nei termini di richiesta di microfondazioni per le
spiegazioni sociali [Galeotti 1988] . Già presente in A. Smith e poi J.S Mill
3
, il
principio generale di microfondazioni è collegabile all’idea secondo cui il piccolo,
l’elementare, il semplice spiega le unità più grandi, aggregate e complesse. L’analisi
deve partire dal micro (individuo) per spiegare il macro (fenomeno sociale
complesso), e non viceversa.
Ma a questo punto ci si domanda: è vero che le spiegazioni migliori sono quelle che
partono a livello delle unità più piccole? E ancora, in che senso si deve la distinzione
tra individualismo e olismo? E perché ritenerli in competizione?
Si potrebbe, infatti, pensare che il livello umano-sociale abbia due livelli di realtà
indipendenti tra loro, uno psicologico-individuale, l’altro sociale-istituzionale.
Di fatto, invece, considerare i due approcci in competizione significa pensare che i
due ordini di fenomeni sono in qualche modo legati causalmente. Ciò ancora non
implica, però, che sia il livello micro a spiegare causalmente quello macro e non
viceversa. Quest’ultima idea è espressa dalla convinzione che le spiegazioni
individualistiche costituiscano il punto di partenza per ottenere la spiegazione anche
dei fenomeni aggregati. Presupposto di quest’idea è che i fatti sociali siano causati in
3
Cfr. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it. a cura di A. Pellanda, UTET, Torino, 1975 e J. S.
Mill, Della Libertà, trad. it. a cura di M. Lerner con uno scritto di Luigi Einaudi, Sansoni, Firenze,
1974.
11
modo saliente dai fatti individuali. Il principio individualistico si precisa, dunque,
come un’affermazione sulla salienza causale degli individui rispetto ai
macrofenomeni. Che il peso causale degli individui sia “saliente” è decisivo per la
pienezza del significato dell’individualismo metodologico, altrimenti sarebbe vuoto e
non differenziabile dagli approcci che si presumono alternativi ad esso. In altre
parole, se interpretata sostantivamente, la preferenza per l’individualismo comporta
l’affermazione che siano gli individui, agenti e interagenti, a determinare in modo
rilevante con la loro attività i fenomeni aggregati.
Una versione debole della causalità degli individui sul sociale risulta infatti
irrilevante: è poco controverso che ogni accadimento o fenomeno sociale avviene o è
prodotto tramite individui e loro comportamenti, indipendentemente da come sono
concepiti, magari anche alla stregua di automi che reagiscono meccanicamente a
inputs esterni. Un simile fatto è perfettamente compatibile con spiegazioni olistiche.
D’altra parte, se l’individualismo metodologico viene connotato in modo troppo
forte, può risultare inaccettabile, in quanto chiaramente implausibile. Questo è il caso
dell’interpretazione atomistica dell’individualismo metodologico.
L’istanza a favore dell’individualismo, come tesi generale sulla migliore spiegazione
scientifica, non porta di per sé, dunque, ragioni conclusive. Tuttavia, se la richiesta
per le microfondazioni è esclusivamente rivolta alle spiegazioni sociali, allora ciò
che si rivendica cambia terreno: non riguarda solo la logica della spiegazione in
generale (dal più piccolo al più grande), ma implica un’ipotesi sostantiva sulla
salienza causale del mondo umano. Così l’individualismo metodologico abbandona il
solo terreno formale, rispetto al quale non aveva nulla di definito e rilevante da dire;
sul piano sostanziale, avanza invece l’ipotesi che siano gli individui agenti in
situazioni di interdipendenza a determinare gli eventi sociali e a generare le regole e
le istituzioni sociali.
L’argomento qui avanzato è che il privilegio dato alle microfondazioni per la
spiegazione dei fenomeni aggregati acquista un significato definito e preciso solo se
riguarda il contenuto delle spiegazioni con riferimento al peso specifico esercitato
dagli individui e dalle loro azioni nel determinare il mondo sociale.
E’ tuttavia necessario specificare ulteriormente la tesi delle microfondazioni, perché
una versione troppo ristretta può risultare immediatamente non plausibile, e una
12
versione troppo larga può diventare tautologica. In altre parole, ci si chiede se tra i
diversi tipi di spiegazione individualista dei fenomeni sociali sia possibile
individuarne uno che sia al tempo stesso plausibile e non tautologico. A questo fine
verranno analizzati tre tipi di spiegazione individualistiche, associate a tre approcci
distinti e cioè a quello atomistico individualistico, a quello behavioristico e infine a
quello dell’azione razionale. Dall’indagine su questi tre diversi modi di intendere le
spiegazioni sociali si giunge alla conclusione che solo le spiegazioni proposte dalla
teoria dell’azione razionale, che presuppongono un modello intenzionale dell’agente,
implicano un principio individualistico che soddisfa i requisiti della plausibilità e
della non tautologia. Solo in questo caso, infatti, gli individui come agenti
contribuiscono attivamente alla costituzione del mondo sociale e possono
rappresentare l’unità d’analisi nella catena esplicativa per i fenomeni aggregati.
1.3 Due approcci all’individualismo metodologico: individualismo atomistico (la
tesi di Robinson Crusoe) e individualismo behaviorista.
L’analisi che seguirà sulla teoria atomistica detta di “Robinson Crusoe” e teoria
behaviorista ha come oggetto soltanto il criterio individualistico da esse
esplicitamente o meno avanzato. Il problema riguarda cioè la comprensione del
modo in cui queste due famiglie teoriche sono state associate all’individualismo e se
quest’associazione è giustificata alla luce delle considerazioni fatte sin qui. Non è, e
non vuole essere, pertanto un’analisi della genesi e del contenuto delle due teorie nel
loro insieme che aprirebbe altri problemi assai ampli e complessi [McPherson 1963;
O’Neil 1973; Lukes 1960; Levine 1986] .
� L’atomismo sostiene che le spiegazioni dei fenomeni sociali sarebbero interamente
derivabili da teorie sull’individuo in isolamento con la specificazione di condizioni di
contorno. In altre parole, questa interpretazione dell’individualismo metodologico
escluderebbe dai fattori esplicativi dei fenomeni sociali tutte le categorie relazionali,
vale a dire quelle che si riferiscono all’individuo in conseguenza delle relazioni con
altri individui. Per esempio, “amico”, “dipendente”, “padre” sono attributi di un
13
individuo solo in quanto parte di una relazione con un altro o altri. Ora negare che
queste altre categorie relazionali abbiano mai peso esplicativo sui fatti sociali suona,
a dir poco, implausibile.
L’importante illustrazione che Nozick
4
fa della tesi di Robinson Crusoe permette di
capire l’intento programmatico sottostante l’approccio atomistico. La posizione
centrale che ne esce è quella di ridurre la teoria dell’iterazione di Crosoe e Venerdi
alla sola teoria di Crosoe e, dunque, alla teoria dell’iterazione di Crosoe con il solo
ambiente inanimato e animale.
Sembra indubbio che se l’individualismo metodologico viene a coincidere con la tesi
di Robinson è inaccettabile, ancorché in questo caso il principio individualistico
risulti ben contrastato rispetto all’olismo.
Si ponga, ad esempio, che un individuo si trovi a litigare con un altro per un’eredità.
Questo fatto avviene solo in virtù della relazione di parentela fra due individui;
questa spiegazione è pertanto un fattore saliente per la spiegazione del litigio,
mentre, per esempio, l’individuale propensione di uno dei due o di entrambi
all’ingordigia non rappresenta da sola una condizione sufficiente.
La tesi atomistica risulta chiaramente implausibile ed è in genere respinta da tutti i
sostenitori dell’individualismo metodologico. In un certo senso rappresenta più un
caso limite “inventato” dai non individualisti che un argomento propriamente
avanzato per l’individualismo metodologico.
Se però gli individualisti accettano gli “individui sociali”, ci si potrebbe chiedere
dove si può tracciare la linea di confine fra individualismo metodologico e olismo. E’
infatti sulla base di questo interrogativo che Nozick rifiuta di considerare altre
versioni individualistiche, argomentando, spesso a ragion veduta, che finirebbero per
essere insignificanti, e quindi non ben distinguibili da approcci olistici, con il rischio
di infrangere il principio della non–tautologia.
D’altro canto, seppur la tesi di Robinson si contrapponga nettamente all’olismo e non
rischi dunque la tautologia, essa non fornisce un criterio plausibile all‘analisi dei fatti
sociali che parta sì dagli individui, ma tenga conto della indubbia componente
rappresentata dalle categorie relazionali tra essi.
4
Cfr. R.Nozick, On Austrian Methodology, Synthese, 36, 1977.Un ulteriore illustrazione della tesi
atomistica è reperibile in A. Levine; E. Sober; E.0. Wright Marxism and Methodological
Individualism, New Left Review, 162, 1987.
14
� Un approccio individualista che si differenzia dall’interpretazione atomistica per il
peso che da all’iterazione tra individui è quello delle teorie sociologiche di
ispirazione behavioristica [G. Homas 1961].
Nell’accezione behaviorista, l’individualismo metodologico appare coincidere con la
tesi delle microfondazioni, secondo la quale la complessità sociale va spiegata a
partire dall’analisi delle unità più piccole e più semplici: gli individui. Nella
posizione behavioristica possiamo quindi cogliere la tesi dell’individualismo
ontologico che esprime il rifiuto dell’esistenza dei collettivi al di là degli individui
che ne fanno parte. Ma tale posizione non comporta una ragione sufficiente per
adottare l’individualismo metodologico in quanto principio esplicativo. Il
comportamentismo avanza peraltro anche una tesi esplicativa ben precisa, e cioè che
le caratteristiche non sociali degli individui, unitamente alle circostanze
dell’iterazione, determinano tutte le complesse caratteristiche dei gruppi sociali e
delle società. La tesi comportamentistica, pur assomigliando alla tesi di Robinson, in
realtà se ne differenzia, poiché pone a fondamento delle spiegazioni non individui
isolati, ma “un certo numero” di essi in contatto fra loro. Di conseguenza per
spiegare fatti sociali è richiesta una teoria individualistica, ma relazionale, epperò
pre-sociale. La tesi behavioristica può essere così riformulata: proposizioni sul
comportamento pre-sociale degli individui in contatto fra loro sono in grado di
spiegare esaustivamente il comportamento dei gruppi sociali.
Qui ci si imbatte nella caratteristica posizione behavioristica secondo cui la teoria
degli individui della specie umana considerati nel loro aspetto animale è la chiave dei
comportamenti sociali evoluti e complessi. In altre parole, è solo attraverso una
conoscenza, rigorosamente sperimentale, delle leggi psicologiche che muovono
l’animale uomo/donna nei suoi rapporti con l’ambiente naturale composto da cose, di
altri esseri animati e di esseri consimili che possiamo comprendere nel profondo
fenomeni sociali come il potere, l’ubbidienza o la rivolta.
Come abbiamo già ribadito non entreremo qui nel merito della posizione
comportamentistica, concentrandosi invece sulla posizione individualistica da essa
espressa.