VI
Con l’introduzione del contratto di lavoro ad interim, la legislazione italiana si è
equiparata alle legislazioni degli altri paesi europei in termini di strumenti
contrattuali di base per la flessibilità del mercato del lavoro. Rispetto alle diverse
forme che ha assunto il lavoro interinale in Europa, il modello italiano si
caratterizza per aver regolato attraverso atti normativi particolarmente dettagliati le
fattispecie in cui è ammesso il ricorso al lavoro temporaneo. Lo schema adottato in
Italia si inserisce in un quadro di riforme del mercato del lavoro più ampio, che ha
seguito prevalentemente la strada della regolamentazione delle forme non standard
di lavoro (in alcuni casi accompagnata da strumenti di incentivazione all’utilizzo di
queste forme contrattuali, come è il caso del part-time), piuttosto che di
deregolamentazione delle forme standard (ad esempio la liberalizzazione del
contratto a termine o del collocamento).
Il percorso di analisi sviluppato in questa trattazione si divide in quattro capitoli
impostati come segue.
Il primo capitolo si apre con un’elencazione di alcuni fatti stilizzati che descrivono
cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro negli ultimi quindici anni. Tra questi
l’aspetto che interessa porre in evidenza è l’affermarsi di modelli organizzativi
flessibili e il legame di questi con l’evoluzione dei regimi di protezione
dell’impiego avvenuta negli anni novanta, soprattutto per quanto riguarda
l’occupazione a tempo determinato che ha significato un aumento della cosiddetta
flessibilità al margine.
Il secondo capitolo si concentra sul dibattito che si è sviluppato intorno alle
posizioni espresse dall’Oecd relative alla presenza di rigidità all’interno del mercato
VII
del lavoro europeo che sarebbero state responsabili dell’alto tasso di disoccupazione
in questa area nella prima metà degli anni novanta, e sulle strategie per
l’occupazione delineate in occasione del Trattato di Amsterdam del 1997 (rese
operative dal vertice straordinario sull’occupazione di Lussemburgo del 1999), che
seguivano appunto le indicazioni espresse dall’Oecd. Le rigidità cui si riferisce
l’Oecd operano in quattro aspetti relativi al mercato del lavoro, vale a dire:
nell’assetto della contrattazione, nella regolamentazione del mercato del lavoro,
mediante il livello dei sussidi alla disoccupazione e il cuneo fiscale. Le linee guida
che formano il piano d’azione per l’occupazione ruotano introno a quattro pilastri,
strutturati su quattro dimensioni: a) il miglioramento dell’occupabilità; b) lo
sviluppo dell’imprenditorialità; c) la promozione dell’adattabilità delle imprese e
dei loro dipendenti; d) il rafforzamento delle politiche di pari opportunità fra uomini
e donne. All’interno del pilastro “adattabilità” sono previste forme di
riorganizzazione del lavoro (orari e contratti) e tra queste si collocano anche le
temporary work agencies, le società di lavoro interinale.
Il terzo capitolo analizza in modo specifico l’introduzione e l’evoluzione del
contratto interinale in Italia: nella prima parte vi è un’esposizione dettagliata della
legge n° 196 del 24 giugno 1997, dei soggetti coinvolti e delle modifiche legislative
che sono state successivamente apportate alla legge; nella seconda parte si definisce
il ruolo di questo strumento legislativo nel mercato del lavoro italiano. Si argomenta
che il contratto interinale interviene a risolvere almeno quattro rigidità che
caratterizzano il nostro paese: la scarsa mobilità territoriale dei non occupati; le
difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro delle persone alla ricerca del primo
VIII
impiego; la difficoltà a rispondere a shock positivi e inattesi della domanda di beni;
le difficoltà/costi associati alla copertura permanente di un posto di lavoro vacante.
L’ultimo capitolo è infine dedicato ad un’analisi comparativa della
regolamentazione dell’istituto nei Paesi dell’Unione Europea. Nei primi paragrafi
si analizzano gli aspetti comuni del contratto interinale nei vari paesi, mentre negli
ultimi cinque paragrafi si trova una descrizione dettagliata del temporary work
soltanto per alcuni (Regno Unito, Spagna, Germania, Francia , Olanda).
Il lavoro si chiude con un giudizio sostanzialmente positivo: i dati del Ministero
del Lavoro mostrano come effettivamente questo strumento contrattuale intervenga,
da un lato, a rispondere alle richieste di flessibilità delle aziende e, dall’altro, ad
aumentare le chances occupazionali dei disoccupati. Non si può però trascurare il
fatto che il contratto interinale si inserisce in un sistema di Welfare inadeguato a
rispondere alle nuove esigenze e ai nuovi problemi che pone un mercato del lavoro
flessibile. La “cittadella del lavoro regolare e iperprotetto” per usare le parole di
Pietro Ichino, cioè il gruppo di insiders che godono in Italia di un elevato livello di
tutele, ha di fronte a sé un numero crescente di lavoratori “atipici” (tra questi anche
gli interinali) che necessita di nuove forme di tutela. Questo potrebbe voler dire un
ripensamento nei prossimi anni (in un tempo che potrebbe non essere poi così
lontano) del sistema degli ammortizzatori sociali, delle istituzioni di formazione e di
quelle di informazione.
Capitolo 1
Flessibilità e rigidità nel mercato del lavoro
§ 1.1 Il lavoro che cambia: alcuni fatti stilizzati
L’obiettivo di questo paragrafo è di mettere in evidenza una serie di fatti stilizzati,
relativi all’evoluzione dei mercati del lavoro e dei sistemi economici, su cui si è
concentrata l’attenzione degli scienziati sociali e degli economisti, perlomeno in
questi ultimi quindici anni. I fatti stilizzati cui ci si riferisce nel paragrafo sono otto
e riguardano avvenimenti e trasformazioni occorse ai più avanzati sistemi
economici occidentali e cambiamenti specifici al contesto economico italiano.
Ciascuno di questi fatti sarà preso in considerazione disgiuntamente rispetto agli
altri. Questo, però, non significa necessariamente che ci si riferisca a cambiamenti e
trasformazioni verificatisi indipendentemente gli uni dalle altre. Alcuni di questi
eventi sono strettamente connessi l’un l’altro, tuttavia si è talvolta deciso di
enuclearli in maniera indipendente per enfatizzarne il ruolo svolto.
Un primo fatto stilizzato è la nascita e lo sviluppo della New Economy. Gordon
1
associa a questo termine una serie di eventi quali lo sviluppo di Internet,
l’accelerazione delle capacità computazionali dei computer e delle reti di
telecomunicazione e il declino dei prezzi di hardware e software. In generale
l’economista statunitense si riferisce all’accelerazione tecnologica legata alle
1
Gordon R. (2000).
2
cosiddette Information Technologies, avvenuta a partire dalla seconda metà degli
anni ’90.
Strettamente connesso a questo primo fatto è il sorgere e l’affermarsi del secondo
fatto stilizzato, vale a dire della cosiddetta learning economy. Secondo Lundvall
2
,
l’idea di learning economy può essere intesa in due opposte accezioni. Secondo la
prima ci si riferisce ad una prospettiva dell’analisi economica che enfatizza il ruolo
dei processi di cambiamento nelle tecnologie, negli skill, nelle preferenze e nelle
istituzioni. Nella seconda accezione, invece, si fa riferimento ad una fase storica in
cui la conoscenza e l’apprendimento giocano un ruolo fondamentale a tutti i livelli
dell’economia. In questo contesto il successo degli individui, delle imprese e dei
sistemi economici nazionali e sovranazionali dipende strategicamente dalla
capacità di apprendimento individuale e organizzativo degli attori economici
coinvolti, in presenza di scenari in continua evoluzione. E’ importante sottolineare,
però, che la learning economy non coincide con un’idea di economia basata
esclusivamente su comparti produttivi high-tech e su disponibilità di forza lavoro di
elevato livello educativo. La centralità dei processi di apprendimento coinvolge tutti
i settori dell’economia, anche quelli tradizionali.
Il terzo fatto stilizzato riguarda la composizione della struttura occupazionale che
ha determinato un notevole ridimensionamento occupazionale, in termini relativi ed
assoluti, dei comparti industriali e manifatturieri in tutti i principali paesi
occidentali. In Italia l’incidenza dell’occupazione industriale è passata dal 38,5%
del 1975 al 31,6% del 1998. A questa contrazione del comparto industriale fa fronte
2
Lundvall B.A. (1996).
3
un ampliamento dell’incidenza occupazionale dei servizi: in Italia l’incidenza
relativa dei servizi è passata dal 45,7% del 1975 al 61,9% del 1998.
Il quarto fatto stilizzato riguarda il mutamento qualitativo della domanda di lavoro.
L’idea fondamentale è che il cambiamento tecnologico legato all’introduzione e alla
diffusione delle Information Technologies tende a privilegiare la domanda di
lavoratori dotati di elevate qualifiche professionali a scapito dei lavoratori meno
addestrati. Queste dinamiche occupazionali hanno determinato due rilevanti
conseguenze. La prima riguarda l’ampliamento del differenziale fra il tasso di
disoccupazione relativo ai lavoratori low skilled rispetto a quello dei lavoratori
skilled. Inoltre questo cambiamento nella struttura della domanda di lavoro ha
determinato un cambiamento nella struttura dei salari relativi, dando luogo ad un
incremento del salario dei lavoratori dotati di elevate qualifiche scolastiche rispetto
a quello dei lavoratori con basso titolo di studio.
Il quinto fatto stilizzato è l’aumento dell’incidenza di lavoratori non manuali nei
comparti manifatturieri. Nella letteratura economica questo fenomeno è studiato
congiuntamente a quello esposto nel paragrafo precedente. Utilizzando dati relativi
ai comparti manifatturieri nel Regno Unito, Machin
3
mostra come sussista una
correlazione positiva tra quota di lavoratori non manuali e livello educativo dei
lavoratori, sostenendo quindi che la crescente incidenza dei lavoratori non manuali
sia un indicatore di upskilling dei lavoratori e sia perciò un fenomeno coincidente
con l’accresciuto livello delle qualifiche scolastiche dei lavoratori.
3
Machin S. (1996).
4
Il sesto fatto stilizzato riguarda la diffusione di nuove forme di organizzazione del
lavoro, con particolare riferimento all’introduzione del cosiddetto modello
organizzativo giapponese, basato in particolare sull’esperienza della casa
automobilistica Toyota. Secondo Coriat
4
le caratteristiche salienti del modello
Toyota sono date dall’automazione e dal metodo just-in-time . Nell’automazione la
macchina che esegue il lavoro è controllata e governata da un’altra macchina che
adempie a tutte le funzioni che nel caso della meccanizzazione - cioè la sostituzione
di forza lavoro umana mediante macchine - erano invece assolte dall’uomo. Per
just-in-time , invece, si intende la “produzione senza scorte” che ha l’obiettivo di
minimizzare la permanenza delle componenti del prodotto in magazzino.
Il settimo fatto stilizzato riguarda la globalizzazione dei mercati. Secondo
Antonelli e Montresor
5
la globalizzazione è un fenomeno estremamente sfaccettato
caratterizzato, da un lato, da un incremento degli interscambi internazionali di beni
e servizi e da una crescita degli investimenti diretti dall’estero, dall’altro i due
Autori sottolineano la crescente tendenza da parte delle imprese a rivolgersi a
mercati internazionali dei fattori produttivi e ad aggiustare le proprie strategie di
localizzazione geografica a questa trasformazione.
L’ottavo fatto stilizzato riguarda il cambiamento istituzionale
6
. In questo caso ci si
concentrerà sulle istituzioni del mercato del lavoro nazionale e si trascureranno le
trasformazioni che stanno avvenendo a livello sovranazionale. Questo aspetto è
legato al dibattito sulla flessibilità del mercato del lavoro in Europa, iniziato a
4
Coriat B. (1991).
5
Antonelli G. , Montresor S. (2000).
6
Guidetti G. (2001).
5
partire dalla seconda metà degli anni ’80 e sviluppatosi nel corso degli anni ’90. Per
quello che riguarda sia il cambiamento delle istituzioni che operano sul mercato del
lavoro in Italia sia la realizzazione di politiche per la promozione della flessibilità
numerica e salariale, occorre affermare che la legislazione italiana in materia di
diritto del lavoro in questi ultimi anni ha favorito la diffusione di forme contrattuali
flessibili quali il lavoro interinale, i contratti a tempo determinato, i contratti di
formazione lavoro e di apprendistato e tutta la complessa tipologia dei cosiddetti
contratti atipici. Dal punto di vista della flessibilità salariale, l’accordo del luglio
1993 ha visto crescere il ruolo della contrattazione decentrata nei processi di
determinazione salariale.
§ 1.2 La flessibilità
Già dall'inizio degli anni ottanta, l’adozione di modelli organizzativi flessibili è
ritenuta un elemento fondamentale delle strategie competitive dell'impresa.
Il termine "flessibilità" indica, nella sua definizione più elementare, l'adattabilità
efficiente ed immediata a pressioni ed a cambiamenti del contesto
7
. Una tale
definizione rende possibile utilizzare il termine flessibilità per un’ampia serie di
significati, Fra questi possiamo individuarne almeno cinque:
1) flessibilità organizzativa;.
2) flessibilità funzionale;
3) flessibilità numerica;
7
Blyton P.(1996).
6
4) flessibilità temporale;
5) flessibilità retributiva.
1) La flessibilità organizzativa coinvolge diversi aspetti dell'impresa: i processi
produttivi, l'organizzazione aziendale, l'innovazione tecnologica, la gestione
delle risorse umane e le relazioni esterne. Questo tipo di flessibilità riguarda la
capacità dell'impresa di adattarsi ai cambiamenti del contesto e di perseguire
politiche di miglioramento continuo attraverso la modificazione dei processi e
delle strutture. In tal senso, la flessibilità organizzativa si sovrappone ad altre
forme di flessibilità e si esplica, ad esempio, attraverso l'adozione di nuove
pratiche organizzative, l'introduzione di nuove tecnologie, la modificazione o la
sostituzione dei beni o dei servizi prodotti.
2) La flessibilità funzionale si riferisce alla possibilità, da parte dei lavoratori, di
svolgere un ampio range di mansioni e di operazioni produttive. Questo tipo di
flessibilità consente all'impresa di variare la qualità e il livello dell'output senza
incrementare eccessivamente i costi. Sono riconducibili alla flessibilità
funzionale sia l'integrazione orizzontale e verticale delle mansioni, sia tutte
quelle pratiche organizzative volte alla riduzione della ripetitività e della
standardizzazione delle mansioni svolte dal lavoratore (job-enlargement, job-
rotation, job-enrichment, team working, etc.). La flessibilità funzionale si riflette
nella riduzione dei livelli gerarchici dell’impresa, nella maggiore mobilità
interna dei lavoratori e nell'allentamento dei confini tra una mansione e l'altra.
Poiché richiede livelli elevati di training e skills, la flessibilità funzionale è
7
generalmente limitata alla "core work-force", cioè al nucleo di personale multi-
skilled il cui ruolo nell'impresa è permanente e consolidato
8
.
3) La flessibilità numerica consiste nella capacità dell'impresa di variare la quantità
di lavoro in risposta alle fluttuazioni della domanda. Ciò è conseguibile
attraverso l'utilizzo di assunzioni temporanee, di "hire and fire policies". La
flessibilità numerica richiede generalmente un segmento secondario di lavoratori
cha possano essere utilizzati nei momenti di domanda elevata e licenziati, o
riallocati, nei momenti di modesta domanda. Nel caso in cui questo tipo di
flessibilità venga conseguito attraverso il ricorso a contratti a tempo determinato
(lavoro interinale, ad esempio, o contratti di formazione e lavoro) si parla di
"flessibilità in entrata"; quanto tale flessibilità è raggiunta, invece, attraverso la
possibilità di interrompere rapporti di lavoro a tempo indeterminato, si parla di
"flessibilità in uscita"
9
.
4) La flessibilità temporale si riferisce all'adattabilità della struttura degli orari di
lavoro in risposta alle necessità produttive dell’impresa. Due principali tipologie
di manovra consentono di ottenere questo tipo di flessibilità: gli interventi volti a
rendere gli orari di lavoro variabili, sia in termini di durata, sia in termini di
collocazione e periodicità; la differenziazione dei contratti di lavoro al fine di
disporre, nel corso del tempo, di un numero variabile di lavoratori (attraverso
assunzioni part-time, ad esempio, o contratti a tempo determinato).
8
Blyton P. (1996).
9
Cerruti G., Di Monaco R., Follis M. (2000).
8
5) La flessibilità salariale comporta la possibilità di modificare, nel breve periodo,
il livello e la composizione interna dei salari. Questo tipo di flessibilità, che
prevede l'abbandono di sistemi di retribuzione standardizzati ed uniformi a
favore di metodi variabili e individualizzati, è riconducibile alla nozione più
ampia di "flessibilità nel costo del lavoro". Essa si riferisce alla possibilità di
influire sul costo del lavoro mediante interventi sia sulla retribuzione dei
lavoratori, sia su altri fattori indiretti.
Lo sviluppo di modelli organizzativi flessibili influenza ed è a sua volta
influenzato dall’evoluzione dei regimi di protezione dell’impiego (RPI),
specialmente dagli RPI relativi ai contratti a tempo determinato.
§ 1.3 I regimi di protezione dell’impiego
Una caratteristica istituzionale della maggioranza dei mercati del lavoro europei è
la rilevanza dei regimi di protezione dell’impiego, che vincola il potere dei datori di
lavoro di adattare la loro forza lavoro a cambiamenti nelle condizioni economiche e
fornisce ai lavoratori una forma di assicurazione. Tale protezione viene conseguita
mediante la regolamentazione delle procedure di licenziamento (che possono
comprendere requisiti quali comunicazione scritta dei motivi, la notifica alle
rappresentanze sindacali, aziendali o di categoria, periodi di preavviso ai lavoratori
prima del licenziamento e le norme per appellarsi contro il licenziamento senza
giusta causa) e mediante la definizione di indennità di licenziamento (il cui
ammontare può dipendere dalle ragioni del licenziamento, può essere stabilito dalla
9
normativa sul lavoro, dai tribunali del lavoro o da accordi collettivi)
10
. Da tutto ciò
si evince come gli RPI siano un fenomeno multidimensionale.
Inevitabilmente, la complessità delle normative sul licenziamento si riflette in un
notevole costo per l’impresa. E’ molto difficile valutare esattamente il costo totale
del licenziamento individuale, in quanto il suo ammontare effettivo dipende dalla
probabilità che il lavoratore richieda l’intervento del tribunale, e dalla probabilità
che il tribunale dia ragione al lavoratore. Nel caso italiano, in particolare, la
legislazione prevede anche che il tribunale, quando consideri nullo un
licenziamento, possa ordinare la reintegrazione del lavoratore ed obbligare
l’impresa a mantenere in vita il rapporto di lavoro.
Ai fine dell’analisi economica, la multidimensionalità dei regimi di protezione
dell’impiego si riduce ad una distinzione in due componenti. Se indichiamo con T
il costo totale atteso per l’impresa legato ad un licenziamento, è utile distinguere
tale costo in due componenti. La prima componente si riferisce ad un semplice
trasferimento dall’impresa al lavoratore, esattamente come il salario, da effettuare in
caso di licenziamento. La seconda componente è invece più simile ad una tassa, in
quanto corrisponde ad una somma pagata al di fuori delle parti interessante al
rapporto di lavoro.
Formalmente possiamo quindi scrivere:
T = Tr + Tx
10
Bertola G., Boeri T., Nicoletti G. (2001), p.68.
10
dove Tr è un trasferimento e Tx è una tassa. Concettualmente, il buono uscita
pagato al lavoratore e il periodo di notifica corrispondono al trasferimento (Tr) e
tutti gli altri costi procedurali corrispondono alla tassa (Tx).
§ 1.4 Paesi rigidi e paesi flessibili
Non esiste una misura omogenea del costo di licenziamento in rapporto al salario
medio per tutti i paesi. Per effettuare confronti internazionali dei regimi di
protezione dell’impiego, viene utilizzato il metodo delle “gerarchie delle gerarchie”.
Esso consiste nell’assegnare un numero (ad esempio da 1 a 6) a ciascun paese
relativamente ai singoli aspetti dei regimi di protezione. Numeri più elevati
corrispondono a regimi più rigidi. Facendo la media delle varie componenti, si
ottiene una misura sintetica della rigidità degli RPI.
La tabella 1 riporta l’indicatore sintetico degli RPI in Europa Giappone e Stati
Uniti. Per ottenere l’indicatore globale della rigidità di un paese è necessario
considerare simultaneamente la rigidità del licenziamento di un individuo assunto
con contratto individuale a tempo indeterminato e a tempo determinato, e la rigidità
dei licenziamenti collettivi. La media di queste tre grandezze rappresenta
l’indicatore globale. Inoltre, ciascuna delle tre componenti è ottenuta, a sua volta,
attraverso una media di ulteriori grandezze.
La tabella riporta anche la posizione relativa di ciascun paese: Stati Uniti e Regno
Unito possono essere considerati i più flessibili, mentre l’Italia si trova tra i paesi
più rigidi. La tabella riporta anche il valore della rigidità dei regimi di protezione
11
negli anni ’80 e permette di osservare il cambiamento nel tempo della rigidità degli
RPI; inoltre mostra come, relativamente al contratto di lavoro a tempo
indeterminato, ci siano stati pochi cambiamenti e il livello di protezione sia rimasto
praticamente invariato
Tabella 1 – Indicatori sintetici della rigidità dei regimi di protezione
dell’impiego
RPI collettivi Impiego a tempo
indeterminato
Impiego a tempo
determinato
Licenzia-
menti
collettivi
Versione1 Versione2
Anni’80 Anni’90 Anni’80 Anni’90 Anni’90 Anni’80 Anni’90 Anni’90
Austria 2,6 2,6 1,8 1,8 3,3 2,2 (6) 2,2 (9) 2,3 (9)
Belgio 1,5 1,5 4,6 2,8 4,1 3,1(10) 2,1 (7) 2,5(10)
Danimarca 1,6 1,6 2,6 0,9 3,1 2,1 (5) 1,2 (5) 1,5 (5)
Finlandia 2,7 2,1 1,9 1,9 2,4 2,3 (7) 2,0 (6) 2,1 (6)
Francia 2,3 2,3 3,1 3,6 2,1 2,7 (8) 3,0(13) 2,8(13)
Germania 2,7 2,8 3,8 2,3 3,1 3,2(11) 2,5(12) 2,6(12)
Grecia 2,5 2,4 4,8 4,8 3,3 3,6(13) 3,6(16) 3,5(16)
Irlanda 1,6 1,6 0,3 0,3 2,1 0,9 (3) 0,9 (3) 1,1 (3)
Italia 2,8 2,8 5,4 3,8 4,1 4,1(15) 3,3(15) 3,4(15)
Olanda 3,1 3,1 2,4 1,2 2,8 2,7 (9) 2,1 (8) 2,2 (7)
Portogallo 4,8 4,3 3,4 3,0 3,6 4,1(16) 3,7(17) 3,7(17)
Regno
Unito
0,8 0,8 0,3 0,3 2,9 0,5 (2) 0,5 (2) 0,9 (2)
Spagna 3,9 2,6 3,5 3,5 3,1 3,7(14) 3,1(14) 3,1(14)
Svezia 2,8 2,8 4,1 1,6 4,5 3,5(12) 2,2(10) 2,6(11)
Svizzera 1,2 1,2 0,9 0,9 3,9 1,0 (4) 1,0 (4) 1,5 (4)
Giappone 2,7 2,7 - 2,1 1,5 - 2,4(11) 2,3 (8)
Stati Uniti 0,2 0,2 0,3 0,3 2,9 0,2 (1) 0,2 (1) 0,7 (1)
Versione 1: media degli indicatori relativi ai contratti a tempo determinato e a tempo
indeterminato.
Versione 2: media ponderata degli indicatori relativi ai contratti a tempo determinato e a tempo
indeterminato e ai licenziamenti.
Fonte: Oecd (1999), Employment Outlook.