II
cupa di ordinare un aspetto specifico della pena di morte: alcuni ri-
guardano l’applicazione della pena di morte ai soli crimini commessi
in tempo di guerra, altri l’esclusione per determinate categorie di per-
sone, cosicché ognuno di essi suggerisce soluzioni diverse.
L’obiettivo che questa tesi si propone è quello di chiarire al let-
tore, che si accosta per la prima volta a tale argomento, la complessa
normativa internazionale sul tema della pena di morte, attraverso
un’esposizione chiara e strutturata, che possa far maturare al lettore
una propria opinione ed un proprio “background” di conoscenze a
questo proposito. Si è pertanto cercato di offrire, a chi vuole affrontare
l’argomento della pena di morte, un panorama vasto e preciso della
normativa internazionale che provvede a disciplinare il ricorso a que-
sta pena, riassumendo in maniera semplice ed ordinata gli accordi de-
gli Stati in materia, in modo che sia più semplice capire cosa è stato
fatto finora per provare a controllare questo vasto fenomeno.
Oggi la situazione è rappresentata da una tendenza mondiale ri-
volta ad una limitazione dell’uso della pena di morte, come pure alla
sua abolizione. Si può sostenere con certezza che oltre la metà dei pa-
esi del mondo hanno abolito la pena di morte dalle proprie leggi oppu-
re non la applicano più, malgrado ci siano paesi che recentemente ne
hanno decretato la reintroduzione o hanno dato il via alla ripresa delle
III
esecuzioni, come i Territori dell’Autorità Palestinese, il Guatemala ed
i Caraibi. Questo processo abolizionista ha avuto inizio all’incirca nel
1948 con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nel con-
testo dell’elaborazione dell’articolo relativo al diritto alla vita. Da quel
momento la Dichiarazione Universale è stata considerata come il do-
cumento basilare per la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo in
tutto il mondo. Al momento attuale sono presenti numerose conven-
zioni, a livello universale e regionale, così come i relativi protocolli a
queste convenzioni che stabiliscono la limitazione o l’abolizione della
pena di morte e, a partire dal 1998, è stata istituita una moratoria delle
esecuzioni capitali nel mondo. Si è giunti a questo traguardo attraver-
so un percorso lungo e fitto di ostacoli che trae le sue origini dalla sto-
ria. Il ricorso alla pena di morte, infatti, risale alle civiltà greca e ro-
mana e si è evoluto passando dal Medioevo all’Illuminismo, per giun-
gere fino ai giorni nostri. I popoli antichi sono stati i primi a servirsi
della pena di morte per punire coloro che si rendevano colpevoli di un
crimine, considerando questa pena come il modo più alto e completo
di vendicare i torti subiti.
Questo lavoro di tesi si sviluppa attraverso uno studio sistemati-
co della pena di morte e si articola in: una analisi storica di questo isti-
tuto a partire dalle prime testimonianze storiche della pena di morte ri-
IV
salenti all’età greco-romana, fino ad arrivare ai giorni nostri; una in-
dagine circa l’impatto sociologico, con particolare attenzione al ruolo
svolto dall’opinione pubblica, dai mass media e dalla Chiesa nel dibat-
tito sulla pena di morte ed infine una valutazione dell’aspetto giuridico
avente lo scopo di introdurre il lettore alla comprensione delle diretti-
ve predisposte dagli Stati in materia. In chiusura sono state analizzate
in dettaglio la situazione italiana ed una sentenza dei giorni nostri,
quella di Caryl Chessman, che ha particolarmente interessato
l’opinione pubblica negli anni ’60.
E’ stato ulteriormente completato il quadro della pena di morte,
allo scopo di perfezionare i dati di cui il lettore poteva disporre
sull’argomento, mediante le seguenti informazioni supplementari: e-
lenco dei paesi membri del Consiglio d’Europa, indicazione delle
maggiori organizzazioni sulla pena di morte e dei principali metodi di
esecuzione utilizzati nel mondo, alcune risoluzioni riportate con il loro
testo integrale e gli impedimenti costituzionali dei vari paesi all’uso
della pena di morte. Inoltre, le tabelle ed i grafici presenti, costituisco-
no un aiuto per il lettore che, per mezzo di questo supporto visivo, ha
la possibilità di sintetizzare meglio i dati forniti nel testo.
E’ infine doveroso un ringraziamento particolare a tutti coloro
che hanno permesso lo svolgimento di questo lavoro di tesi:
V
all’avvocato Olga Pryor che ha offerto il suo aiuto prezioso nella re-
dazione del quinto capitolo, fornendomi una testimonianza autentica
ed insolita sul processo e sulla sentenza che ha avuto come protagoni-
sta, nei primi anni sessanta, Caryl Chessman; alla professoressa Ersi-
liagrazia Spatafora per i suoi importantissimi consigli ed a tutti coloro
che hanno contribuito allo svolgimento di questa tesi.
1 STORIA DELLA PENA DI MORTE
L’idea del delitto e quella della pena nacquero nell’antichità con
le prime credenze religiose e si svilupparono nella società assieme al
concetto di Stato e di diritto. Uccidere fu per l’uomo primitivo il modo
più alto e più completo di vendicarsi delle offese personali e la morte
è stata fin dai tempi antichissimi il mezzo più comune per intimorire
gli altri, garantirsi il rispetto e conservare il possesso dei propri beni,
tanto che si può affermare che la morte, prima che si imponesse lo
Stato, fu il solo deterrente in grado di frenare la cupidigia altrui.
In seguito è stata posta a fondamento della legge e della sanzio-
ne la volontà divina, qualcuno ha anche parlato di contratto sociale,
ma di certo non si può parlare di un inizio delle norme di coesistenza,
legato ad un momento e ad una volontà precisi. Più verosimile è
l’ipotesi che, partendo dalla comunità primitiva, questi concetti abbia-
no cominciato a svilupparsi lentamente.
La pena di morte ebbe le sue prime applicazioni come punizio-
ne per i colpevoli di sacrilegio, apostasia,
1
blasfemia e solo in tempi
relativamente recenti la morte divenne il castigo previsto per reati con-
tro la persona e contro la proprietà. Anche il tradimento, sempre puni-
to con la morte, altro non era, che un affronto alla divinità del sovrano.
Fra le più antiche testimonianze troviamo menzione nell’Antica Legge
della Cina della decapitazione come modo prescritto della pena capita-
le; nell’antichissimo Egitto e nell’Assiria veniva usata la scure e in
certi casi i malfattori erano costretti a uccidersi da sé, generalmente
ingerendo veleno. Anche la legge mosaica è piena di accenni alla pena
di morte; il sistema più comune era la lapidazione, sebbene sembra
fosse riconosciuta anche la morte per impiccagione. La storia ci mo-
stra come la pubblicità data alle esecuzioni pubbliche abbia fallito il
suo obiettivo, come le impiccagioni siano divenute nel corso dei tempi
delle feste nel peggiore dei casi e, nel migliore, dei convegni di ladri
ed altri criminali.
Tutte le nazioni, barbare o civili, governate da aristocrazie, teo-
crazie democrazie, o proletariato, ebbero nelle loro leggi la pena capi-
1
Rinnegamento, abbandono totale della propria religione per un’altra.
tale. Nella storia essa ha una lunga tradizione e per molto tempo è sta-
ta considerata come qualcosa di ovvio e scontato.
Nelle tribù primitive, in assenza di un sistema giudiziario, era
norma reagire all’uccisione con l’uccisione, mettendo così in moto
una spirale di violenza e di vendetta che poteva durare anche per gene-
razioni. La vendetta finiva così per diventare una realtà continua, con-
tagiosa, interminabile.
Ecco perché, nelle società che non hanno un sistema giudiziario,
il problema della violenza e della vendetta è uno dei più difficili da ri-
solvere, perché dal momento in cui la violenza si insinua diventa
complesso arginarla. Da qui l’esigenza di un sistema giudiziario, che
però finisce con il fare la stessa cosa che in un sistema primitivo fa-
rebbero i parenti della vittima: vendicarsi.
Per i popoli antichi convivere con l’idea della morte era una co-
sa assolutamente normale e la vita di tutti i giorni comprendeva
l’aspettativa della violenza e della vendetta per i torti commessi, ma
anche, spesso, per quelli non commessi. La pena capitale faceva parte
del sistema legale ed era accettata e condivisa da tutti; così, quando la
religione cristiana si pose il problema di considerare quali fossero i
limiti e i doveri dello Stato, ebbe la tendenza a dare per scontata la pe-
na di morte, trovandone giustificazione in alcuni testi del Vecchio Te-
stamento.
Il libro del Levitico
2
, per esempio, parla di “…Violazione per
violazione, occhio per occhio, dente per dente…Quando un uomo col-
pisce un altro e lo uccide sarà messo a morte”.
Si viene a stabilire così la regola della retribuzione, in base alla
quale ad un determinato danno deve corrispondere una determinata
pena, o meglio conosciuta come “legge del taglione”, la quale sanci-
sce una sorta di equità tra danno inferto e torto subito.
2
Nome del terzo libro del Pentateuco (prima parte dell’Antico Testamento), contenente le norme
riguardanti il culto.
1.1 LA PENA DI MORTE NELL’ANTICA GRECIA
Solo in minima parte il pensiero greco in materia di leggi e de-
litti cominciò a distinguersi, per brevi periodi, dai dettami della reli-
gione. Furono i sofisti, in un momento in cui il sacrilegio restava un
delitto passibile di morte o di “abbandono alla vendetta divina”, a so-
stenere che l’idea del giusto potesse staccarsi dal trascendente e che la
legge umana (nomos) potesse non essere un mero riflesso della legge
divina (logos).
3
Ma fu solo un accenno: in Grecia le credenze popolari restavano
legate alla tradizione mitica che faceva dei suoi eroi terreni dei fantoc-
ci guidati da forze divine. Così Socrate
4
è accusato di non credere nel-
la natura divina del Sole e della Luna e per questo deve morire.
Le divinità dei Greci, però, erano cosa diversa da quelle degli
altri popoli dell’antichità e in esse si celava, quasi camuffata, la natura
3
Energia-pensiero di natura trascendente che si manifesta nel mondo sensibile, tale quale è espres-
sa nella Bibbia allorchè il pensiero di Dio assume il potere di creare la realtà fisica.
umana. Queste altro non erano che creazioni dei Greci stessi che in lo-
ro avevano trasferito e personificato le idee e le forze esistenti fra gli
uomini. Quando la volontà divina si incontrava con quella umana, la-
sciava a questa il più ampio spazio. Attribuire agli dèi l’origine delle
azioni umane era cosa contrastante con la libertà umana di attenersi o
non attenersi al nomos.
La vita greca, a differenza di quella orientale, non era cieca sot-
tomissione, ma armonia fra divinità e umanità, fra cittadino e Stato,
fra libertà e necessità. Però i processi davanti ai tribunali greci, non
erano poi cosa di poco conto. Anche in Grecia le pene che formalmen-
te non stabilivano la privazione della vita si traducevano, in pratica, in
condanne a morte. Infatti, pur in secoli di grande civiltà come il VII e
il VI a.C., chiunque subisse le condanne della ordalia
5
(messa al ban-
do, abbandono alla vendetta divina) poteva essere impunemente ucci-
so.
La pena di morte (precipitazione in una voragine, decapitazione,
invito a suicidarsi e, per gli schiavi, crocifissione) restava comunque il
castigo per eccellenza e normalmente si accompagnava alla confisca
4
Filosofo greco (469-399 a. C.). Visse quasi sempre ad Atene insegnando ai giovani; accusato di
corrompere i giovani fu processato e condannato a bere la cicuta.
dei beni: il condannato moriva dunque con l’ulteriore tormento di la-
sciare in miseria la propria famiglia.
Ad Atene, a Sparta, nella Magna Grecia, i giudici avevano fa-
coltà di commutare la pena di morte in quella dell’esilio, ma in quei
processi l’imputato, difensore di se stesso davanti a giurie spesso i-
gnoranti e affollate, vedeva il proprio destino condizionato dalla pro-
pria abilità oratoria. Per quanto riguarda le esecuzioni, ad Atene, come
a Sparta, finivano per diventare spettacolo.
Così, se la vittima riusciva a fuggire e a farla franca, qualcuno
andava comunque sacrificato per non deludere il popolo: ecco dunque
il ricorso a della povera gente, affamata e senza speranze, che volonta-
riamente si faceva uccidere in pubblico al posto del colpevole, in
cambio di un anno di vita lussuosa a spese dello Stato.
Platone
6
non dubitò neppure per un istante che lo Stato avesse il
diritto e il dovere di punire e reprimere ogni attentato alle leggi terrene
che, per lui come per Socrate, hanno origine divina e hanno il fine di
promuovere la virtù e la felicità di tutti. Questi sosteneva che gli esseri
5
Prova giudiziaria consistente nel sottoporre l’accusato a una prova pericolosa: se questi era capa-
ce di portarla a termine era segno che la divinità lo riconosceva innocente.
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Filosofo greco (Atene 428-347 a. C.). Discepolo di Socrate, fondò ad Atene (387) l’Accademia.
Pose come fondamento dell’essere e del conoscere le idee, gerarchicamente ordinate nell’idea
suprema del Bene.
umani potevano essere divisi in tre classi, i sapienti, gli sregolati, i
passionali, i quali ultimi, dovevano esser degni di istruzione e di cor-
rezione. Platone era convinto che tutti gli esseri forniti di anima sono
soggetti a cambiamento, nonostante esistano delle eccezioni, dalle
quali discende la concezione platonica della sanzione penale. Ci sono
uomini, molto rari, non degni di correzione e che pertanto andavano
allontanati dal territorio della repubblica o soppressi con la morte.
Per Aristotele
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ubbidire alle leggi è una necessità e un dovere;
per lui la principale delle virtù etiche è la giustizia e in essa trova
fondamento il diritto, il quale si distingue dall’equità che egli definiva
una correzione della legge mediante il diritto naturale.
La punizione dei malvagi è un atto di giustizia e una necessità,
dal momento che lo Stato fonda se stesso sull’onestà dei cittadini e ha
il compito di dissuadere e punire i malvagi e i delinquenti, incorag-
giando al contempo i cittadini rispettosi delle leggi. E, siccome il po-
polo ubbidisce per paura e capisce la forza più che la parola, si capisce
come mai le esortazioni non bastano più e si rende necessario il ricor-
7
Uno dei massimi pensatori di tutti i tempi (384-322 a. C.). Discepolo di Platone, fondò ad Atene
una scuola detta “peripatetica”, perché il maestro passeggiava con gli scolari lungo i viali che cir-
condavano la località dove era sorta.
so alla pena, che deve essere dolore, contrario al piacere cui il colpe-
vole tendeva col delitto.
Nel diritto greco si può dire, quindi, che non esisteva la pena di
morte, ma le pene di morte a causa dell’esistenza di un sistema di sup-
plizi che comprendeva atti elementari e agghiaccianti nella loro bruta-
lità (ad es. decapitazione con la scure) e procedure più complesse (ad
es. rogo, crocifissione). L’esistenza di credenze magico-religiose fa-
ceva si che la funzione della città fosse quella di controllare queste
pratiche con metodi repressivi particolarmente feroci.
La fonte da cui possiamo ricavare informazioni circa l’adozione
della pena capitale in Grecia deriva dai poemi omerici
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, i quali ci for-
niscono dati certi sui metodi e sugli strumenti di repressione allora in
vigore presso questo popolo.
Sappiamo che la cultura greca è caratterizzata dall’esistenza di
due mondi diversi, quello della casa della famiglia (oikos), luogo fisi-
co e ideale e quello della piazza (agorè), dove avveniva il dibattito e il
confronto politico. In base a questa divisione e in base ai dati ricavati
8
Opere attribuite ad Omero, sommo poeta greco (IX sec. A. C.), le cui più famose sono, oltre
“l’Iliade” e “l’Odissea”, anche gli “Inni” agli dèi, la “Piccola Iliade” e i poemetti “Focide” e
“Margites”.
dalla lettura dei poemi omerici, possiamo affermare con certezza che i
supplizi venivano inflitti nelle case e non nelle piazze.
Non esisteva un organo pubblico competente a punire chi viola-
va le regole, per questo la pena veniva inflitta in casa dal capofami-
glia, il quale aveva una potestà assoluta, illimitata sulla famiglia.
Uno dei supplizi in uso ad Atene era chiamato “apotympani-
smos” e consisteva nell’uccisione del condannato a bastonate, con un
randello. Questo metodo si trasformò ben presto in una sorta di croci-
fissione, con l’unica differenza che il condannato non veniva eretto su
una croce, ma su un palo, evitando l’applicazione dei chiodi alle mani
e ai piedi come avveniva nell’antica Roma. Questa punizione veniva
riservata soprattutto per gli adulteri e i delatori ma non ne erano esenti
anche traditori e malfattori ed era una pena infamante perché realizza-
ta sulle porte della città.
L’antica Grecia conosceva una vasta serie di strumenti di tortura
ricavati dal legno anche se questi non erano gli unici adottati per puni-
re un condannato, dal momento che, era in uso anche la vivisepoltura,
nel caso di donne accusate di adulterio e l’impiccagione.
La violenza non era solo di tipo fisico ma, è stata registrata nel
caso greco, anche la violenza compiuta da chi esercitava la vendetta
privata, considerata un dovere sociale, un atto lodevole e inevitabile.