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Chiara Milani
2) Gli ebrei in Italia tra illuminismo e periodo francese
Nella storia degli ebrei d'Italia, il periodo tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del
XIX, conosciuto come la prima emancipazione, si estrinseca politicamente in più
fasi che produssero mutamenti anche contrastanti nel variegato mondo ebraico.
Tra queste, la rapida parentesi del triennio rivoluzionario, legata alle campagne
militari del Bonaparte, assume notevole rilievo perché segna la fine, anche se in
parte temporanea, dell'obbligo di residenza nei ghetti e il vero inizio di una
completa parificazione normativa
1
.
La prima spinta era venuta dal nuovo orientamento della cultura e dalle
discussioni da essa promosse intorno ai diritti e alle libertà da attribuirsi a
ciascun individuo, senza distinzione di origine. In Francia, Germania, Inghilterra,
non mancarono scrittori isolati che presero a propugnare che questi principi di
universale parificazione dovessero esser fatti valere, fra i primi, a favore degli
ebrei, e che quindi dovessero esser abolite tutte le pastoie che ne ostacolavano
l'esistenza. A sostegno del loro assunto avanzavano argomenti di varia natura:
vi era quello politico, che rappresentava gli ebrei come le vittime più patenti di
quella servitù e di quella soperchieria di tempi passati, che i nuovi tempi erano
chiamati ad abbattere; vi era quello economico, secondo cui l'annullamento
delle molteplici interdizioni create intorno all'attività degli ebrei avrebbe portato
questi ultimi ad abbandonare quelle occupazioni che potevano esser
considerate parassitarie, spingendoli invece verso forme di lavoro più utili per
l'economia del paese; vi era l'argomento sociale, che qualificava il ghetto come
un infame luogo in cui i disgraziati ebrei erano costretti a vivere e quindi come la
causa prima del loro agire tenebroso; vi era quello umanitario, che esortava
semplicemente a considerare e a trattare gli ebrei come fratelli; ma, forse, il più
diffuso era il puro argomento polemico, indirizzato contro la Chiesa per la
posizione di intolleranza che seguitava a mantenere contro tutte le sette
dissidenti, si trovassero esse nel suo seno o fuori.
Con tutto ciò non mancavano neanche nella stessa Chiesa alcuni orientamenti
particolari (principalmente di origine giansenistica) che sostenevano con calore
un atteggiamento di rispetto e di reintegrazione a favore degli ebrei.
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A. Turiel, La questione ebraica dall'illuminismo all'impero , Perugia, 1994, p. 251.
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In Europa, l'atto apparentemente più progressista elargito prima della
rivoluzione francese fu la "patente di tolleranza", che l'imperatore Giuseppe II
d'Austria emanò nel 1782 a favore dei suoi sudditi ebrei, fra i quali erano
compresi anche quelli dei suoi domini italiani. Questo editto, se revocava alcune
fra le più odiose limitazioni, accordando agli ebrei libertà sia d'ingresso nelle
scuole, che di scelta nelle occupazioni, e abolendo il segno distintivo e qualche
legge speciale, lasciava però intendere che la completa equiparazione civile
poteva avvenire solo dopo che gli ebrei avessero "equiparato", e cioè in qualche
maniera allineato, le loro usanze religiose con quelle delle maggioranza; il
dibattito sulla concessione dei diritti civili agli ebrei in Italia prese piede grazie a
questo editto
2
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In generale in Italia negli ultimi decenni del Settecento, non venne permesso
alla vicenda ebraica di affacciarsi sulla ribalta della maggior parte degli stati;
facevano eccezione le terre sotto dominio austriaco, culla della sopracitata
patente, e quelle sotto il Granducato di Toscana, ora di dinastia lorenese, dove
la situazione ebraica era soddisfacente. Là dove l'influenza di Roma era forte,
ogni discussione su questo problema veniva "paternalmente" soffocata, sotto la
vecchia pregiudiziale che l'asservimento degli ebrei era una conseguenza del
loro errore teologico.
Quasi nessuno tra i maggiori scrittori o letterati tentò in Italia, in questo periodo,
di prender posizione a favore degli ebrei. Si può dire che l'unico vero scontro
avvenne nella polemica che ebbe luogo fra il 1782 e il 1785 tra due contendenti
agguerriti ma di limitato seguito: il reazionario economista Giovan Battista
Gherardo D'Arco e il medico ebreo Benedetto Frizzi. Il D'Arco (1739-1791)
pubblica la sua prima opera con il titolo "Dell'influenza del ghetto nello stato"
3
,
immediatamente a ridosso dell'elargizione giuseppina delle patenti di tolleranza
e a sostegno di queste; partendo dal presupposto che nei libri della Mishnà e
del Talmud si sarebbe insegnato come dettato religioso l'odio per le altre
nazioni, queste ultime per difendersi sarebbero ricorse alla segregazione forzata
degli ebrei nei ghetti. Conseguentemente, le medesime leggi di segregazione
volute dalle nazioni per cautelarsi dagli ebrei avrebbero "cospirato" nel
rafforzare lo spirito di separazione che per D'Arco caratterizzava gli ebrei nei
ghetti. Nella seconda parte del libro si trae la sensazione che ad esser messa in
2
Attilio Milano, Storia degli ebrei in Italia , Torino, 1992, p. 339.
3
Gian Battista Gherardo D'Arco, Dell'influenza del ghetto nello stato, ristampa anastatica Forni,
Bologna, 1981.
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discussione non fosse la natura imperscrutabile degli ebrei, considerati
solamente degli esseri umani sfortunati, ma l'istituzione stessa del ghetto, che
separava forzatamente un gruppo di uomini dagli altri, rendendoli di fatto
pericolosi per lo Stato in quanto estranei ad esso. Con la concessione a questi
del libero possesso di terreni agricoli, con la loro ammissione e con
l'incoraggiamento ad occuparsi attivamente di arti e mestieri, con l'inclusione,
insomma, degli ebrei a pieno titolo nella vita economica e civile della società,
veniva a cadere per D'Arco il presupposto stesso della pericolosa presenza di
un corpo alieno nell'economia dello Stato. Sullo sfondo si intravedono i contorni
di un'idea di economia basata su una libera concorrenza, intesa come
"concorso" di tutte le componenti alla ricchezza e prosperità dello stato.
Benedetto Frizzi con il testo "Difesa contro gli attacchi fatti alla nazione ebrea
nel libro intitolato Della influenza del ghetto nello Stato"
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porta numerosi esempi
di quelle attività industriali, manifatturiere, agricole (nonostante i divieti), che
contraddicevano il teorema di un'economia chiusa nel ghetto, speculatrice,
estranea e nociva all'attività pubblica, disegnando una comunità ebraica già
integrata economicamente e per nulla estranea alla società sul piano dei valori
morali e comportamentali. Il Frizzi proseguiva nella sua "Difesa" delineando
l'utilità pubblica del prestito di denaro, dell'importazione di prodotti dall'estero,
dell'accaparramento di granaglie, tutte attività per le quali il D'Arco aveva
imputato agli ebrei l'accusa di essere nocivi all'economia dello stato.
Con lo scritto del D'Arco "Della influenza del ghetto nello Stato" siamo di fronte
a un fenomeno nuovo; in corrispondenza dell'elargizione giuseppina delle
Patenti di Tolleranza nasceva anche nella penisola una corrente di pensiero che
vedeva positivamente la concessione agli ebrei di ampie libertà di movimento
sul piano economico e l'eliminazione di gran parte delle norme di segregazione
che ancora pesavano sulla vita delle comunità ebraiche. Bisogna peraltro
sgombrare il campo da un equivoco di fondo, nel quale troppo spesso si cade
quando si affronta il rapporto tra libertà economiche ed emancipazione: non ci
troviamo in presenza di due schieramenti, uno progressista e fautore di una
società tollerante, contrapposto a uno conservatore. La storia degli ebrei italiani,
anche per il periodo che va dalla fine del secolo XVIII fino alla metà del XIX è -
per l'esiguità del loro numero- quasi una somma di singole storie private,
famigliari, più che un caso di storia sociale, economica o religiosa. E gli scritti,
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Gadi Luzzatto Voghera, Il prezzo dell'uguaglianza, Milano, 1997, pp. 48-49.
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peraltro abbastanza numerosi, che affrontarono la questione della loro
emancipazione nel corso di quel mezzo secolo furono spesso l'espressione di
vicende personali, con la manifestazione di simpatie e antipatie che, anche
quando affrontavano questioni di interesse generale, spesso erano
comprensibili in pieno solo se poste in diretto riferimento a esperienze "private"
5
.
Nel 1789, una "Memoria" indirizzata dall'Università degli ebrei di Roma alle
massime autorità del governo pontificio presentava, allo scopo di rafforzare le
richieste avanzate a favore della comunità, un nutrito <<Elenco di privilegi,
Indulti ed Esenzioni>> accordati agli ebrei dai sovrani dei vari Stati Italiani sulla
base del gius commune e del diritto naturale.
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Le disposizioni che vi erano
riportate, quasi tutte di recente emanazione, riguardavano il ducato di Parma e
Piacenza, la repubblica di Genova, le città imperiali di Mantova e Trieste, il
granducato di Toscana e il ducato di Modena. Tali misure equiparavano gli ebrei
agli altri sudditi e cittadini, considerando i primi eguali ai secondi.
Le espressioni usate colpiscono l'attenzione, innanzitutto in quanto evocano,
proprio nel fatidico anno 1789 e dal cuore stesso della cattolicità, quei concetti
di cittadinanza e di uguaglianza che, nonostante l'aspra opposizione delle
gerarchie ecclesiastiche, di lì a poco si sarebbero affermati, estendendosi anche
agli ebrei di gran parte dell'Europa. Inoltre esse provengono da quella comunità
romana sulla cui decadenza economica e povertà culturale, accentuatasi
proprio tra Seicento e Settecento, gli storici unanimemente concordano. Ma
esse riflettono anche con sintetica efficacia, da un lato i mutamenti da tempo in
corso in numerosi Stati italiani nel campo della politica verso gli ebrei e,
dall'altro, le differenze che opponevano situazioni locali per nulla omogenee.
Infatti, nell'elenco sopra ricordato, se non è ovviamente menzionato lo Stato
ecclesiastico, neppure compaiono la repubblica di Venezia e il regno sabaudo:
vale a dire, quegli organismi statali che, nel corso del Settecento, non soltanto
furono i più refrattari ad ogni sorta di emancipazione degli ebrei, ma anzi,
soprattutto a partire dagli anni settanta, andarono irrigidendo ulteriormente le
proprie posizioni, all'interno di una ribadita ortodossia cattolica. La Memoria
romana del 1789, contestando l'obbligo delle comunità di finanziare la Casa dei
catecumeni, richiamava un argomento di gran rilievo: se gli ebrei poveri
avevano una sorta di diritto alle elemosine della comunità, ciò competeva loro
5
Gadi Luzzatto Voghera, Il prezzo dell'uguaglianza, Milano, 1998, p. 50-51.
6
Ibid,.
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non in quanto singoli individui - che perciò avrebbero continuato a mantenere
tale diritto anche una volta convertiti -, ma unicamente in quanto membri di un
corpo, l'Università degli ebrei.
Le Università degli ebrei erano correntemente definite dalle autorità civili e
religiose; Questo carattere <<corporato>>, che faceva della <<nazione>>
ebraica uno dei corpi costituiti dello Stato, se aveva rafforzato tanto i poteri e
l'autorità dei capi, per le loro funzioni amministrative e di mediazione con lo
Stato, quanto la coesione interna, cominciava ora ad entrare in crisi sia
all'esterno che all'interno. Esso costituiva, infatti, anche uno degli elementi più
forti della critica <<politica>> rivolta agli ebrei, dall'Illuminismo fino alla
Rivoluzione francese: voler continuare nel loro statuto particolare di gruppo non
disciolto dalla nazione.
Come scriveva G.B.D'Arco, le comunità erano censurate dalla cultura politica
coeva proprio in quanto corpi separati, percepiti come eretti minacciosamente
contro lo Stato soprattutto per la loro autonomia amministrativa perseguito
dall'assolutismo illuminato, a cominciare dalle corporazioni di mestiere. La
struttura comunitaria viene percepita come un fatto negativo dalla società
maggioritaria, dando vita a uno degli stereotipi antiebraici più resistenti nel
tempo. Le Università ebraiche - dotate di autonomia giurisdizionale e
amministrativa, regolate da <<capitoli>>, autorizzate a nominare i propri
rappresentanti e a godere di monopoli o concessioni perpetue, come a Roma
quella della fornitura dei letti per le soldatesche, e a Venezia quella dei banchi -
si rivelano <<attori>> sociali e politici autonomi e attivi, capaci di entrare in
relazione dinamica e in contrattazione continua con lo Stato e con gli altri corpi,
manipolando il contesto normativo e relazionale per i propri obiettivi. E'
un'attività di negoziazione e di mediazione in grado di ritagliare spazi, controllare
risorse e aprire varchi notevoli anche all'interno del regime giuridico restrittivo;
d'altro canto, dal lato degli Stati, fare concessioni alle Università degli ebrei
significava anche - come, ad esempio, aveva ben compreso D'Arco quando
proponeva di permettere loro le attività artigianali - contenere e intaccare il
potere delle corporazioni di mestiere
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Marina Caffiero, Gli ebrei italiani dall'età dei Lumi agli anni della Rivoluzione, in Gli ebrei in
Italia, (Storia d'Italia, annali 11**), a cura di Corrado Vivanti, tomo 2° dall'emancipazione ad oggi,
Torino, Einaudi, 1997.