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mettendo al centro dell’attenzione l’abito e l’industria che lo produceva senza
dimenticare il ruolo preciso che essi avevano nel mondo circostante. Per Roche
l’abbigliamento è senz’altro uno specchio che riflette le distinzioni sociali, il
gusto, il linguaggio e a volte anche gli avvenimenti storici di un Paese. Per questo
egli ci fornisce un’ampia ricostruzione di che cosa uomini e donne amassero
mettersi indosso e del perché lo facessero. Essendo la fonte principale di Roche
costituita da inventari e doti, lo storico poteva correre il rischio di creare un
repertorio di nomi e modelli magari utilissimo ma forse un po’ noioso, cosa che
non è accaduta grazie alla sua capacità di mettere insieme ai numeri anche le voci
e i colori dei protagonisti del tempo. Roche parla di “cultura delle apparenze” e di
morali, oltre che di vestiti; parla di economie e di scambi, di persone e di oggetti;
ma ciò che stupisce è come riesca a dare a tutti questi elementi un ruolo attivo,
quasi come se, durante la lettura, li vedessimo all’opera nel definire le loro azioni
e le loro scelte quotidiane.
Insieme a Roche, di cui ricorderei anche Il popolo di Parigi. Cultura popolare
e civiltà materiale alla vigilia della Rivoluzione, ci sono anche altri storici le cui
opere hanno dato slancio ai miei interessi sulla storia economica moderna: innanzi
tutto Fernand Braudel con Civiltà materiale, economia e capitalismo. Le strutture
del quotidiano (secoli XV – XVIII) e poi Raffaella Sarti con Vita di casa. Abitare,
mangiare, vestire nell’Europa moderna. Le opere appena citate sono molto
diverse da quella di Roche, anzitutto perché sono più generali. La storia
economica infatti tratta gli aspetti della vita di tutti i giorni, di cui l’abbigliamento
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è solo una parte. Entrambi i lavori hanno un capitolo riguardante l’argomento del
vestire. Braudel parla soprattutto di moda e si sofferma a distinguere chi la fa, cioè
l’Europa dei ricchi. “Se non ci fossero che i poveri… In tal caso il problema non
si porrebbe. Tutto rimarrebbe immobile. Senza ricchezza, non c’è libertà di
movimento, né mutamenti possibili.”: così inizia un paragrafo della Civiltà
materiale. Poi Braudel continua descrivendo la mutevolezza del mondo europeo
rispetto all’immobilità di alcuni popoli asiatici e sostenendo che la moda non è
cosa poi così futile come la si potrebbe pensare. Si parla brevemente anche di
tessuti, di tendenze ed oscillazioni di lungo periodo, ma poi ci si ferma. Nella
conclusione viene sostenuta l’idea dell’utilità di ogni aspetto della vita quotidiana,
ma in una visione di insieme per capirne appunto le grandi oscillazioni nel tempo.
Così, anche Raffaella Sarti racconta con molta scorrevolezza tutti questi aspetti,
dedicando all’abbigliamento un capitolo ricco di curiosità sulla cultura
dell’apparire in epoca moderna, ma molto generico e che ne sottolinea poco i
mutamenti intercorsi.
Parlando del costume e delle scelte relative ad esso che ognuno di noi fa, per
me importantissima, quanto ostica ad un primo approccio, è stata la lettura di La
distinzione. Critica sociale del gusto di Pierre Bourdieu. La mia difficoltà nasceva
soprattutto dall’impostazione sociologica del testo a cui non ero abituata, ma
anche per questo esso è stato molto importante. Bourdieu sviscera le scelte della
società, per capirla nel suo complesso e nei suoi elementi primari. Ci si chiede, ma
si danno anche molte risposte: che cosa sia il gusto e quanta influenza abbia la
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cultura da cui proviene; ci si domanda il perché delle scelte degli individui e se
siano realmente loro a farle in totale libertà. L’analisi di Bourdieu parte da una
lunga ricerca empirica fatta di interviste alle persone ed arriva al compimento di
un’opera che è una vera e propria critica sociale del giudizio e del gusto,
applicabile a tutte le epoche e a ogni contesto.
Non ai fini di un esame universitario, ma proprio per aiutarmi nello
svolgimento della ricerca, ho letto con interesse e, non lo nascondo, con grande
divertimento quella che si può considerare una vera e propria enciclopedia
dell’abbigliamento, ovvero Storia del costume in Italia di Rosita Levi Pisetzky.
Qui ho trovato le risposte storico - artistiche ai mutamenti di costume tra
Settecento e Ottocento in Italia. Barocco, Rococò e Neoclassicismo non furono
solo correnti artistiche ma anche, per le persone dell’epoca, modi di vivere la
propria vita estetica e dunque anche l’abbigliamento. Il volume delle gonne o
l’altezza delle acconciature del Settecento devono molto al rifiuto della realtà e
alla voglia di evasione da essa che traspaiono dalla produzione artistica del
Rococò. Così come la linearità e lo slancio in verticale degli abiti del primo
Ottocento si rifanno a un immaginario neoclassico. Inoltre Pisetzky descrive nel
dettaglio gli abiti e le fogge del periodo, cosa per me molto utile, perché altrimenti
il mio sforzo immaginativo avrebbe potuto essere molto più grande, ma anche
impreciso rispetto alla realtà del tempo da me considerato.
Con le loro opere questi autori hanno dato un grande contributo, come dicevo,
al mio interesse per gli argomenti trattati nella tesi. Senza nessuna presunzione,
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conoscendo perfettamente i miei limiti, ho voluto provare a giocare a fare la
ricercatrice. Ho raccolto dati, letto libri, visitato mostre e musei cercando di
immergermi il più possibile nell’atmosfera del 700/800. Il risultato finale è
qualcosa di diverso rispetto alle opere di cui ho appena parlato. Certamente
mancano l’esperienza e le conoscenze degli autori sopracitati, ma è anche
l’intento ad essere differente: cioè lo studio dei mutamenti di vestiario in un breve
periodo e nella sola città di Torino, una prospettiva che, speravo, mi permettesse
di scendere nei particolari. Inoltre, per quel che mi è stato possibile, ho tentato
anche una suddivisione per classi di reddito dei dati del mio materiale in modo da
verificare le diversità di fruizione dell’abito e della moda.
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INTRODUZIONE
Provando ad immaginare la città di Torino negli anni da me considerati per
questa ricerca, mi trovo di fronte a una visione luminosa e colorata: grandi viali
attraversati da carrozze e cavalli, mercati che riempiono le piazze, rumori e voci
vivaci ma caratterizzati dalla compostezza che, ancora oggi, fa di Torino una città
di impronta aristocratica. E poi ci sono gli uomini e le donne che la popolano, con
i loro abiti. Ho deciso di soffermarmi sull’abbigliamento femminile perché è
senz’altro più vario e volubile di quello maschile, sempre in movimento per
seguire i dettami della moda e sempre differente per ceto sociale, provenienza
cittadina o provinciale, oltre a tutto quello che rende diverso un individuo
dall’altro: il gusto personale. Se questo rendeva uniche le donne di allora, c’era
qualcosa d’altro che le univa, impalpabile ma perfettamente visibile. La moda, un
gusto collettivo, che a differenza di oggi, sempre nella mia immaginazione, non
arrivava ad omologare queste signore e ragazze al punto di renderle meno
affascinanti nella loro somiglianza le une con le altre. Torino non era certo Parigi,
forse reinterpretava più di quanto creava, ma aveva senz’altro un suo stile, più
sobrio.
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Lungi da me la pretesa di una ricostruzione storico-sociale di quella che oggi è
la mia città. ho solo voluto provare a capire, con l’aiuto indispensabile di un
pizzico di fantasia, come vestissero le donne torinesi tra la fine del Settecento e
l’inizio dell’Ottocento. Le mie fonti sono quasi esclusivamente i corredi delle doti
e gli inventari post mortem conservati presso l’archivio di Stato di Torino: si tratta
di lunghi elenchi di oggetti, tessuti e colori a prima vista impersonali ma pieni di
vita reale se li si rapporta a persone vere, vive. Dunque perché non immergersi in
questo mondo passato, se questo è l’unico modo per coglierne alcuni fra gli aspetti
più vitali?
Il mio sguardo sarà quello di una ragazza a cui è appena stata regalata una
macchina del tempo. Certo non vedrò realmente ciò che descriverò, ma cercherò
di farne un racconto il più possibile vicino al vero, facendomi aiutare in questo
anche dai quadri della Galleria Sabauda di Torino, della Galleria d’Arte Moderna
e da tutte le fonti visive che sono riuscita a reperire.
Gli anni da me studiati sono il 1780 e il 1820. Scelta arbitraria, peraltro, dettata
dall’interesse di cogliere tutti i mutamenti in atto in un periodo storico
particolarmente cruciale: quello della Rivoluzione Francese, con tutti i riflessi e
gli influssi che ha avuto anche a Torino. Di questi due anni - campione, come già
detto, ho raccolto i dati riguardanti la composizione dei corredi delle donne al
momento del loro matrimonio e in minor misura gli oggetti del vestiario ritrovati
nei loro guardaroba dopo la morte.
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Vorrei partire da qui. Nel primo capitolo esaminerò il contenuto di quei bauli,
cercando di mettere insieme i primi pezzi e vedere che cosa principalmente si
mettessero indosso le signore del tempo e di quanti indumenti disponessero, senza
distinguere l’anno o il ceto sociale ai quali si sta facendo riferimento. Nel secondo
capitolo, però, le cose cambiano. Gli abiti prenderanno una forma, un colore, una
foggia. Cercherò di distinguere i corredi poveri da quelli ricchi, e si noteranno le
prime differenze qualitative dei vestiti, tra quelli del 1780 e quelli del 1820. Nel
terzo capitolo, invece, verrà alla luce la moda. Si parlerà meno di oggetti e più di
scelte estetiche, di differenze tra gli anni e di straordinarie somiglianze,
nonostante il trascorrere del tempo.
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CAPITOLO 1
IL BAULE DELLA SIGNORA FRA SETTE E
OTTOCENTO
1. UN PO’ DI NUMERI
Per cominciare a descrivere il grande baule delle doti e degli inventari che ho
studiato è necessario fornire qualche dato generale. In totale le doti da me
considerate sono 700, tratte dalle insinuazioni dei libri notarili del 1780 e del
1820 dell’Archivio di Stato di Torino. Di queste sono però 365 quelle in cui viene
effettivamente descritto un corredo con almeno un oggetto di vestiario. Negli
elenchi sono compresi abiti, accessori e talvolta oggetti che con l’abbigliamento e
i tessuti hanno poco a che fare. Ovviamente ho preso in considerazione solamente
quelli che in qualche modo sono legati all’argomento di questa tesi, e cioè alla
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moda. Gli inventari sono invece solamente 9, di cui 4 possiedono un elenco di
oggetti.
Sono ben 45000 gli oggetti che sono descritti in tali corredi e inventari, più di
150 i tessuti e i materiali di cui sono costituiti e decine i colori che li
caratterizzano. Inoltre nel descrivere un abito, spesso, il notaio che doveva siglare
l’atto si soffermava ad aggiungere dati sulle guarniture e gli ornamenti che lo
rendevano particolare. Sono quasi 14000 gli oggetti che vantano almeno una di
tali aggiunte. Talvolta era anche segnato lo stato di conservazione dell’abito, cioè
se era nuovo o usato, logoro o in buone condizioni. Per ora basti sapere che sono
più del doppio gli oggetti considerati in buono stato rispetto a quelli che non lo
erano. Infine, anche se avrebbe potuto essere l’unico compito del notaio, l’oggetto
viene stimato in lire, e dunque connotato di un valore economico oltre che
estetico. Il valore totale del mio guardaroba ammonta a più di 240000 lire
dell’epoca.
Avendo parlato della stima in lire degli oggetti è d’obbligo precisare che la lira
dell’epoca era suddivisa in 20 soldi, e il soldo a sua volta in 12 denari. Con una
lira si poteva già avere un indumento o un paio di scarpe, certo non di alto livello
ma in buone condizioni.
Come si può facilmente notare, la mole di dati è notevole per una ricerca che
comprende un arco così limitato di tempo. La prima conclusione che si può trarre
è forse ovvia, ma va rimarcata: l’abito e l’accessorio che lo accompagnava erano
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una componente fondamentale della vita delle donne del tempo, se venivano
descritti con tale sfoggio di particolari e quindi tenuti in buona considerazione
anche dal notaio che avrebbe avuto il solo ruolo di stimarne il valore economico.
Figuriamoci quanto potessero essere importanti per chi li indossava!
In questo primo capitolo, come già detto, mi sono proposta di descrivere
genericamente il baule di una ipotetica signora torinese del tempo, considerando
tutti i dati che ho raccolto e facendone una media. Questo mi ha aiutato senz’altro
ad avere una visione più chiara di che cosa volesse dire per una donna vestirsi in
quegli anni. Come era dunque composto questo guardaroba?
2. GLI OGGETTI DI ABBIGLIAMENTO E GLI ACCESSORI
Vista la grande quantità di oggetti contenuta negli atti è necessario cominciare
a dividerli in categorie, in modo da fare un po’ di ordine. Ho così ottenuto cinque
gruppi di oggetti che ho deciso di chiamare nel seguente modo:
ξ TESTA E COLLO: sono compresi 12300 pezzi tra cappelli, cuffie, fazzoletti
da collo e da testa e simili.
ξ ABBIGLIAMENTO ESTERNO: fanno parte di questo gruppo tutti gli oggetti
(sono 6600) di abbigliamento esterno, dalle gonne alle giacche, dalle vesti
intere ai soprabiti.
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ξ BIANCHERIA E ABBIGLIAMENTO INTIMO: il gruppo è formato da 9500
oggetti quali camicie, diversi tipi di busto e tutto ciò che è lingerie. Inoltre ho
aggiunto guardinfanti e paniè.
ξ PIEDI: ci sono più di 6000 calzature, compresi anche i calzetti.
ξ ACCESSORI: in questo gruppo ci sono 8200 oggetti molto diversi. Abbiamo
gioielli, guarniture per i capelli e per i vestiti, ma anche ventagli, ombrellini,
tabacchiere, orologi e borsette. Ci sono infine anche oggetti tessili come
guanti e fazzoletti da naso.
Bisogna precisare che negli elenchi delle doti abbiamo rinvenuto anche
numerosi oggetti (circa 800) che con l’abbigliamento non hanno nulla a che fare,
ma che sono presenti in quanto facenti parte del bagaglio che una giovane sposa
portava con sé nell’epoca da noi considerata. Tra questi troviamo i bauli e tutti i
tipi di contenitori; gli specchi e le trousse; le tovaglie e i tovaglioli; le tende e
molti oggetti per la casa quali posate, piatti eccetera. Infine sono spesso inseriti
nelle doti anche tessuti e materiali nelle unità di misura del tempo: il raso (poco
meno di un metro) e la libbra.
Un’ultima precisazione da fare prima di proseguire: i nomi degli oggetti sono,
nella maggior parte dei casi, riportati in piemontese e qualche volta in francese.
Questo mi ha creato qualche difficoltà nel capire la funzione di certi oggetti. Mi
sono dunque fatta aiutare dai vocabolari, sia attuali che dell’epoca, con buoni
risultati. Alcuni nomi (pochi) sono per me ancora ignoti. In ogni caso al fondo di
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questa ricerca ho ritenuto opportuno stilare un glossario dei nomi non
riconoscibili in italiano, ma con un chiaro significato nella loro lingua. Per i nomi
rimasti sconosciuti mi sono permessa di fare uno sforzo di fantasia, cercando di
immaginarmeli con l’aiuto della descrizione fornita dal notaio e della loro
etimologia.
Secondo la precedente distinzione in cinque gruppi, nei prossimi paragrafi
descriverò in dettaglio gli oggetti di abbigliamento del nostro guardaroba.
3. TESTA E COLLO
Una cosa è certa: le donne torinesi del Settecento e dell’Ottocento amavano
coprirsi il capo e il collo. Lo notiamo dal numero cospicuo di accessori adibiti a
questo scopo e ritrovati negli inventari. Il nostro baule ne conta più di 12300.
L’oggetto presente in maggiore quantità è il fazzoletto. Quadrato o triangolare,
da testa o da collo, lavorato oppure semplice, il fazzoletto è senz’altro il più
versatile dei copricapo. Inoltre dalla grande diversità dei materiali di cui era
costituito, e dalla semplicità stessa dell’oggetto, si può anche dedurre una
diffusione sociale piuttosto ampia. Insomma lo indossavano proprio tutte le
donne. I nomi di tale oggetto da collo o da testa sono i più disparati - coeffa, fissù,
fresa, ajaloux - ma l’uso era sempre lo stesso di cui si è detto. Ma perché tanta
diffusione? Senz’altro coprirsi la testa poteva essere solo un gesto pratico di
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protezione dagli agenti atmosferici e dalla polvere; sappiamo però che in quegli
anni la cura della igiene personale non era tenuta in grande considerazione, e
perciò un fazzoletto doveva coprire anche una certa mancanza di pulizia.
Probabilmente doveva esserci anche qualche altro motivo sociale legato alla
pudicizia imposta alla donna; però a noi, in questa sede, esso interessa poco,
mentre è molto curioso pensare che un oggetto di abbigliamento, e cioè di moda,
servisse anche a celare qualche “pecca” peraltro comune alla popolazione intera.
Senz’altro maggiormente diffuso nell’800 rispetto al ‘700 è il cappello. Questo
oggetto era molto meno democratico del fazzoletto ma più civettuolo. Infatti il
cappello poteva accompagnare acconciature vistose, veli e posticci di cui abbiamo
traccia nei dati raccolti durante la ricerca. Il materiale di cui spesso è costituito è
la paglia (quasi sempre di Firenze). Abbiamo anche ritrovato qualche oggetto
denominato “coeffura” che sta a significare sostanzialmente una guarnitura per
capelli o talvolta una parrucca. Se poi pensiamo a nastri, fiori e piume spesso
usate per ornare i cappellini il quadro è completo. Ho trovato anche qualche
berretto, detto “bonetto”, che dal nome e dalle descrizioni fa pensare ad un taglio
più maschile.
Il cappuccio è abbastanza diffuso, ma spesso fa parte integrante di una
mantellina o di un’altra sopravveste. Lo troviamo anche da solo, magari perché si
può staccare e applicare a piacimento al manto di cui sopra. Lo scopo è comunque
sempre il medesimo.