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9 La posizione tecnologica dei competitori.
Infatti l’esternalizzazione della “process technology” può spesso portare
alla creazione di fornitori che hanno la possibilità di diventare “direct
competitors” sul mercato in quanto hanno saputo assimilare ed evolvere il know-
how a loro rivelato.
La maturità del processo tecnologico dal canto suo è determinante nelle
scelte di terziarizzazione in quanto se una tecnologia è nuova per un’industria, può
invece essere già consolidata per un’altra, quindi non si ha molto da scoprire con
attività di R&D
1
dal momento che un competitor può semplicemente acquisire
questa tecnologia da altre fonti.
In ultimo è essenziale identificare l’abilità dei competitori a
sviluppare/acquisire e assimilare la nuova tecnologia. Allora le valutazioni
dell’importanza delle capacità tecnologiche possedute dalle imprese presenti sul
mercato vengono eseguite sfruttando studi di benchmarking o reverse engineering;
quindi se ad esempio una tecnologia rappresenta una “core competence” bisogna
valutare attentamente la possibilità di divulgarla tramite la subfornitura.
A quest’analisi bisogna affiancare una valutazione di carattere economico
che valuti la convenienza o meno del make o del buy di uno o più prodotti.
Talvolta la scelta non dipende neppure da un approccio di tipo strategico,
ma le decisioni di make or buy sono sottoscritte per “default” o sono il risultato di
un’opinione soggettiva; vengono quindi completamente dimenticate attività quali
il know-how o la technology, che sono di fondamentale importanza per il futuro
operativo di un’impresa; non si presta neppure molta attenzione alla necessità di
effettuare una discriminazione tra le attività che dovrebbero essere portate a
termine dall’azienda e che richiedono particolari competenze e know how, da
quelle che invece potrebbero essere esternalizzate al fine di liberare capacità
produttiva da impiegare in altri stadi produttivi oppure per minimizzare le
spese/massimizzare i profitti inerenti alla produzione.
In considerazione di quanto esposto nelle righe soprastanti circa la
complessità intrinseca della materia, al fine di consentire un agevole approccio
1
R&D: Research & Development.
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all’argomento, si è allora pensato di sintetizzare in primis il processo storico di
evoluzione dell’attività di make or buy di modo da poter introdurre una forma
mentis utile nella seconda parte della trattazione per capire i diversi approcci
operativi utilizzati nella discriminazione delle decisioni aziendali di subfornitura.
Ad affiancare tale argomentazione s’introducono tutte le considerazioni
strategiche che portano le aziende a valutare la possibilità di cambiamento nelle
modalità di produzione.
Esaurita preliminarmente tale fase, comunque sostanziale, se ne può
affrontare una seconda caratterizzata da una dettagliata analisi dei modelli presenti
in letteratura e utili a definire quando produrre secondo logiche di make piuttosto
che di buy, tra di essi s’individuano molteplici approcci: quelli qualitativi, quelli
quantitativi di carattere economico, di programmazione lineare, di mixed integer
programming, di tipo statistico/psicologico, oppure analitici.
Tutti questi consentono di affrontare decisioni pratiche di make or buy ed
in più dimostrano le possibili applicazioni che si sono implementate in differenti
settori economici e aziende.
Di tali modelli si é effettuata una classificazione che consente di
schematizzare, tramite una matrice sinottica (cfr. par.IV.1), il tipo di approccio
proposto per ciascuno di essi (come è appena stato specificato poco sopra), il
differente settore al quale un modello è meglio applicabile (alimentare, meccanico,
informatico/elettronico, chimico, per la cura del corpo), le imprese che più o meno
con successo hanno implementato quanto i medesimi approcci propongono.
Si è anche fornita una spiegazione del perché i modelli presentati hanno
differenti “forme” (qualitative, quantitative, …, etc.) e di come si associa il tipo
d’approccio al settore/impresa oggetto d’applicazione (cfr. par.IV.2).
Dal quadro complessivo in tal modo delineatosi, seguendo un
procedimento che dal generale muove al particolare, si propone, nella terza parte
della trattazione, un nuovo modello di carattere operativo con le dovute
applicazioni a diversi casi aziendali. Esso rappresenta l’oggetto principale del
presente lavoro di tesi.
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Prima di presentare brevemente la struttura del nuovo modello sembra
opportuno sottolineare le motivazioni che hanno spinto alla proposta di questo
nuovo sistema operativo per discriminare le scelte di make or buy.
In letteratura, come si può osservare dall’analisi riportata nel capitolo
quarto, sono numerosi gli approcci proposti per semplificare le scelte
gestionali/produttive di produzione interna e di terziarizzazione di un prodotto/fase
di produzione. Tuttavia le soluzioni presentate non consentono di affrontare, sotto
ogni punto di vista, i problemi di carattere produttivo che hanno le aziende
manifatturiere, in quanto alcuni modelli si basano specificatamente solo su
variabili strategiche trascurando completamente l’importanza di quelle
quantitative quale, ad esempio, la spesa associata alla produzione interna piuttosto
che esterna di un prodotto; altri si basano solo su aspetti di tipo economico
mettendo in secondo piano l’importanza delle condizioni strategico/operative del
mercato in cui l’azienda produttrice opera.
Pertanto il modello proposto in questa tesi di laurea ha come obiettivo
principale l’interazione di questi due aspetti, quello strategico e quello
quantitativo, cercando di trovare un criterio grazie al quale considerare
congiuntamente variabili qualitative ed economiche inerenti alla produzione e
ritenute rilevanti.
Inoltre la maggior parte di quanto pubblicato sulle riviste economiche per
risolvere problemi di make or buy presenta approcci di tipo analitico notevolmente
complessi e di scarsa comprensione in ambito produttivo, quali, ad esempio,
formule analitiche con differenziali di primo e secondo grado, integrali finiti,
derivate, etc. Con il presente modello si è cercato, allora, di fornire un supporto
decisionale semplice e veloce di modo che possa essere applicato dalle aziende
con grande facilità e senza notevole dispendio di tempo.
Ora si può procedere con la breve introduzione del sistema operativo
proposto.
Esso consente di valutare se effettuare una produzione in make oppure in
buy relativamente ad un prodotto nuovo, ad uno che già si processa o ancora ad
una fase di lavorazione di uno o più componenti trasformati in azienda.
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Per fare ciò si è pensato di congiungere in modo sostanziale la valutazione
qualitativa, che usualmente le imprese manifatturiere prediligono per discriminare
scelte di make or buy, con la considerazione di tipo quantitativo in ambito
economico: valutazione dei costi totali di produzione rispetto a quelli d’acquisto.
Tale proposito si è realizzato facendo interagire le risposte fornite
dall’implementazione dei differenti sottomodelli in cui il sistema operativo
proposto si articola. Si ottiene così un sistema di supporto decisionale che non
preclude un approccio piuttosto che l’altro per identificare come affrontare
esigenze quali la saturazione della domanda, la massimizzazione del
fatturato/minimizzazione dei costi, il mantenimento del know how aziendale.
I sottomodelli sopra accennati, in totale cinque, si possono così presentare.
Il primo consente di valutare la modalità produttiva di una specifica azienda
(produzione in make to stock, in make to order, in make to stock-assemble to
order) al fine di customizzare il sistema operativo secondo le specifiche esigenze
aziendali, infatti (cfr. par.V.2.4) l’approccio analitico è variabile a seconda delle
scelte produttive con cui vengono realizzati i pezzi finiti. Il secondo valuta una
serie di variabili di tipo qualitativo con cui si considerano tutte le possibili
condizioni strategiche che un’azienda deve affrontare (cfr. par. V.2.2). Il terzo
considera gli aspetti quantitativi del processo produttivo e nello specifico i costi di
produzione (cfr. par.V.2.3). Il quarto consiste nell’implementazione di un modello
di programmazione lineare al fine di confrontare più prodotti in corso di
trasformazione/fasi di produzione, oltre a quello/a oggetto dell’analisi, al fine di
poter effettivamente discriminare se è più o meno conveniente produrre in make or
buy quello specifico prodotto/fase di produzione oppure altri/altre (cfr. par.V.2.4).
Il quinto considera la possibilità di realizzare secondo logiche di make or buy la
sola fase d’assemblaggio di componenti per realizzare il prodotto finito (cfr.
par.V.2.5).
Per implementare tutte le sottofasi di questo nuovo modello operativo si è
pensato di partire con la definizione di alcune condizioni semplificative che poi
sono state rimosse per rendere generale il sistema applicativo stesso, così da
garantirne l’applicazione a qualunque genere d’impresa manifatturiera.
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Innanzi tutto non si sono considerate subito tutte le variabili qualitative che
potrebbero potuto determinare se fare make or buy, ma si sono valutate solo le più
significative, secondo quanto precisato nella letteratura organizzativo/aziendale:
Landi (1993), Merli (1990), Zanoni (1984), Anderlini et al. (1982), Di Meo
(1985).
Solo successivamente, quando si è profilata la necessità di interpellare la
capacità organizzativa del management in virtù di un output qualitativo e
quantitativo discordi, si sono considerate altri fattori meno decisivi e legati alla
specifica realtà aziendale (cfr. par.V.2.3).
Anche per l’applicazione del terzo sottomodello (quello inerente alla
valutazione dei costi totali di produzione) si è fatta inizialmente un’ipotesi molto
restrittiva: che l’impresa sia monoprodotto.
Successivamente, dopo l’interazione dell’output del modello qualitativo
con quello quantitativo, si sono considerati anche altri prodotti che in qualche
modo avrebbero potuto condizionare quello, o anche una fase inerente allo stesso,
per il quale si effettua la valutazione di make or buy (cfr. par.V.2.4).
Nel quarto sottomodello (quello che considera la molteplicità di prodotti
trasformati in azienda) si sono processati dei fogli elettronici Excel che
consentono di risolvere problemi di programmazione lineare e che danno la
risposta decisiva di make or buy relativamente all’insieme di parti considerate.
Lo stesso criterio si è proposto quando si valuta l’attività di make or buy
non solo per il processo di trasformazione del prodotto finito, ma anche per la sola
fase d’assemblaggio disgiuntamente da quella produttiva. (cfr. par.V.2.5). Anche
in questo caso, infatti, si passa dalla valutazione di un numero ristretto di variabili
di carattere qualitativo che forniscono un primo output di make or buy
relativamente all’assemblaggio, il quale va poi fatto interagire con la risposta
quantitativa che ne valuta i costi. Fatto ciò, valutando anche i fattori qualitativi
d’importanza minore congiuntamente alla considerazione che anche altri
componenti vengono assemblati in azienda, si processano dei modelli di
programmazione lineare il cui scopo è identificare la migliore soluzione
d’assemblaggio: in make piuttosto che in buy, indipendentemente da come si sono
ottenuti i pezzi da assiemare (tramite produzione propria oppure acquisto).
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Alla presentazione generale dell’approccio innovativo, di cui si è
accennato poco sopra, segue l’implementazione dello stesso in due differenti realtà
aziendali (la Bticino e la Giussani Tessuti) per valutare l’efficienza di quanto
proposto. Le soluzioni trovate sono quelle riportate nei paragrafi.V.3 e V.4.
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PARTE PRIMA
Stato dell’arte per l’attività di make or buy
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CAPITOLO I
Evoluzione dell’attività di
make or buy
17
Premessa
Per riuscire a comprendere meglio il significato dell’attività di make or buy
si è pensato di procedere con la presentazione dell’evoluzione storica relativa a
quest’approccio decisionale. (cfr. par.1).
Essa deve naturalmente spiegare come il management dell’impresa è
giunto a adottare questa tecnica per le decisioni in ambito produttivo, sia nel
passato sia nel presente, dimostrando come l’ha implementata e la applica tuttora
nelle realtà aziendali. (cfr. par.2).
Si propone, quindi, il comportamento decisionale di alcune imprese nel
momento in cui hanno dovuto discriminare una scelta di make piuttosto che di
buy. (cfr. par.3).
In questo capitolo, e nei successivi, si parlerà non solo di make or buy
inteso come attività propensa ad esternalizzare o meno l’intero prodotto che
l’impresa vuole realizzare, ma anche d’outsourcing, vale a dire la propensione a
delegare a subfornitori solo alcune fasi del processo produttivo e non l’intera
trasformazione del pezzo finito, e di smartsourcing, sinonimo d’outsourcing per
identificare l’esternalizzazione selettiva tattica di alcune fasi di produzione o di
alcuni componenti che servono per l’assemblaggio del prodotto finale.
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I.1 Scorcio storico dell’attività di make or buy
L’idea di rivolgersi al mercato esterno per soddisfare in modo più efficace
ed efficiente le esigenze interne, non è per niente nuova. Rientra da sempre nella
politica delle grandi imprese affidare a terzi attività accessorie, a volte non
facilmente gestibili in quanto marginali o non direttamente collegate al processo
produttivo principale (ma non per questo da trascurare), come la vigilanza, il
servizio mensa, la pulizia dei locali, la pubblicità…Secondo Giovanni Leonida di
Tecnologistica, società leader in Italia nell’ambito della terziarizzazione della
logistica, l’idea di “esternalizzare” era già nota nell’antichità in campo militare.
Infatti Alessandro Magno, nel 324-323 a.C., non disponendo del necessario know-
how logistico, arruolò i Fenici affinché lo seguissero durante le sue spedizioni,
procurando e trasportando rifornimenti necessari alle truppe (Boin, 1998).
Inizialmente le imprese esternalizzavano soltanto le attività definite
“commodity”, in altre parole attività secondarie non ritenute essenziali dall’azienda
per il suo funzionamento strategico. L’obiettivo principale era quello di ottenere
una maggiore efficienza ad un minor costo.
Nel corso del tempo le competenze date in gestione a terzi sono diventate
sempre più strategiche, fino a riguardare processi funzionali all’azienda stessa e
attività su cui le imprese basavano il proprio successo.
Un breve scorcio storico può essere utile per capire come si è evoluta
l’attività di make or buy (Ford et al., 1986).
Durante i primi anni della Rivoluzione Industriale era luogo comune
trovare “business” realizzati da una serie di subcontractors indipendenti o
interrelati tra loro:
“The puddlers employed their own underhands, the slingers, the rollers,
the mill-rollers, all employed their own assistants varying in number from one to
four. The sheet mill was under a subcontractor employing half a dozen
subordinates, the hammer man had three, the iron-moulders, thirteen in number,
were under a subcontractor. The coal was brought in and the ashes removed by
subcontractors.” (Schloss, 1982).
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Naturalmente si suppone che la persona più abile negli affari tra tutti i
subfornitori presenti in un business incominciò a dominare l’intero sistema
produttivo. Quindi tale personaggio prese ad assumere gli altri subcontractors
come suoi subalterni. Questo trend fu una prima forma d’integrazione verticale,
solo che si manifestò tra gruppi di persone e non tra società. Tuttavia esso può
essere assimilato ad un rudimentale approccio di make or buy, possedere i
lavoratori (e così fare make) oppure sfruttare subcontractors indipendenti (e così
fare buy).
Negli Stati Uniti, all’inizio del secolo XX, la norma era quella di avere
delle industrie integrate verticalmente. Gli imprenditori possedevano gli impianti,
gli utensili necessari a produrre i prodotti previsti nei piani di produzione
aziendale e, naturalmente, i lavoratori sufficienti a realizzare tutte le attività di
trasformazione e assemblaggio dei pezzi realizzati. Un risultato di questa tendenza
fu che i costi d’ingresso di un bene sul mercato furono eccessivamente elevati. Fu
proprio questa la barriera che Durant
2
e i suoi collaboratori si trovarono ad
affrontare quando decisero di entrare nel mercato della produzione dei carri su due
ruote. Dal momento che i partners non avevano sufficiente capitale per
intraprendere la via convenzionale di produzione, presero una decisione
alternativa, la quale può essere classificata come scelta di make or buy strategico.
Non avendo né il capitale necessario per acquistare l’utensileria né per assumere
nuovi lavoratori, decisero di diventare “assemblers” al posto di “manufacturers”.
Nel processo produttivo usarono dunque strategie di buy piuttosto che di make
concentrandosi sul design e il marketing, invece che sulla manifattura del
prodotto.
Nel Regno Unito, vent’anni dopo, W.Morris
3
riprese quest’approccio
nell’ambito della produzione automobilistica. Non appena il suo business si
sviluppò, la politica produttiva cambiò in alcuni aspetti, per esempio egli decise di
2
Industriale statunitense degli ultimi anni del 1800 e dei primi anni del 1900.
Schloss (1892).
3
Industriale inglese dei primi anni del 1900. Schloss (1892).
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realizzare operazioni di fonderia e di produzione delle macchine all’interno del
suo sistema produttivo.
Sembrò che l’evoluzione dei tempi e delle condizioni produttive suggerì
agli imprenditori un cambiamento oppure un adeguamento delle correnti strategie
di trasformazione del prodotto.
Nel frattempo le Co-operative Societies in U.K. stavano sviluppando una
nuova strategia. Esse si proposero come fautrici della logica produttiva del make,
poiché il loro processo di trasformazione dei pezzi finiti prevedeva la
realizzazione della maggior parte dei propri prodotti su linee produttive interne.
Esse, dunque, associarono il concetto del proprio marchio (own brand) con quello
della produzione interna.
Al contrario, Mark & Spencer
4
propesero per una logica produttiva di buy,
anche relativamente alla fase di vendita al cliente. Quando il loro business
produttivo si stabilì sul mercato, l’approccio che adottarono sintetizzò il concetto
dell’own brand con l’acquisto dei propri manufatti da terzisti.
Tutti questi esempi consentono di raggiungere la conclusione che dimostra
come, sin dal passato, le imprese dovevano essere capaci di valutare la
convenienza della trasformazione interna o meno dei prodotti finiti, in base alla
propria abilità nel processo produttivo, nelle vendite sul mercato, alla disponibilità
di capacità produttiva, e di quant’altro fosse necessario per realizzare il prodotto
finito.
4
Impresa manifatturiera inglese. Schloss (1892).
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I.2 Situazione attuale circa la tendenza al make or buy per le
diverse aziende nel contesto mondiale
Nelle industrie moderne, considerate non solo nell’ambito dell’economia
italiana ma anche su scala mondiale, le decisioni di make or buy sono all’ordine
del giorno. Anzi, si può notare che, da quanto riportato in letteratura, la tendenza
attuale è quella di ricorrere al buy piuttosto che al make.
Attraverso alcuni studi (Ford, 1993) condotti in Australia, Canada, Regno
Unito e Stati Uniti si possono osservare le più disparate propensioni delle aziende
manifatturiere. Per esempio, a fronte della tendenza al purchase dell’Australia,
degli Stati Uniti e del Canada (quindi paesi che di norma privilegiano l’attività del
buy), il Regno Unito è più conservatore e quindi è in contro tendenza (ovvero
portato al make).
Basta, infatti, osservare quello che è riportato nella tabella I.1 (ottenuta
attraverso una survey telefonica) relativamente alle maggiori imprese
manifatturiere operanti in ciascun paese preso in esame. E’ evidente che il Regno
Unito non si è servito del supporto produttivo proveniente dai terzisti, come invece
è accaduto per gli Stati Uniti, l’Australia e il Canada. Questo, probabilmente, in
seguito allo “scrupolo” che il mercato inglese ha nei confronti di prodotti
provenienti da manifatture estere.
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Tabella I.1: Cambiamenti nel volume d’acquisto
5
U.K CAN. U.S. AUS.
# % # % # % # %
CRESCITA
23 38 34 59 81 62 32 74
DECRESCITA
16 26 12 21 24 18 6 14
INVARIATO
20 33 6 10 16 12 2 5
SENZA RISPOSTA
2 3 6 10 10 8 3 7
Non solo, si evidenziano differenze nel comportamento delle diverse
nazioni anche in relazione a vari aspetti produttivi/economici tra i quali predomina
però l’attività finanziaria.
In seguito a quanto è schematizzato nelle tabelle riportate, si è allora
evidenziata una netta tendenza al buy dei prodotti in Australia, Canada e Stati
Uniti piuttosto che nel Regno Unito, dove l’acquisto dei beni è limitato dalla
riduzione delle attività d’assunzione di nuovi collaboratori, dalla
computerizzazione, dalla necessità di ridurre i costi di produzione senza
l’adozione di nuovi investimenti ma con delle tecniche tradizionali, oppure
dall’incremento della produttività.
5
Ford (1993). Per volume d’acquisto s’intende l’ammontare di prodotto finito che lo stato in
questione ha immesso sul mercato nazionale, ma ha a sua volta acquistato da fornitori
esterni, vale a dire stranieri.