4
Si scopre così la divisibilità dell’ “atomo” azienda.
Viene inventata la sua possibile parcellizzazione concettuale
prima ancora che organizzativa.
Il tutto nasce intorno ad un sistema di riferimento
rinnovato in cui l’oggetto di studio iniziale cessa di essere
il collettivo, globale e organicistico, per divenire
l’individuo, nuovo centro della difficile “rivoluzione
umanistica” dei sistemi organizzativi moderni.
La scoperta dei fattori emotivi e il recupero della centralità
del ruolo delle motivazioni personali, rappresentano il punto
di partenza concettuale dell’intera riforma dell’agire
collettivo.
L’attenzione della sociologia per tanto, non poteva non
concentrarsi sulle caratteristiche fino ad allora trascurate
dall’approccio taylorista massificante; è questo il senso
delle conclusioni delle Relazioni Umane.
Sin dagli anni Venti, grazie ad Elton Mayo, la risposta al
modello standardizzato non coincide però con una sua
riforma sostanziale, ma con una rilettura dei modelli
preesistenti, tenendo conto però, della nuova variabile
umana appena scoperta.
5
Il passaggio teorico successivo comporterà un
approfondimento delle indagini fino ad allora intraprese;
l’attore sociale appena “svelato” cessa così di essere
soltanto un particolare ingranaggio da lubrificare ( tra gli
intenti delle Relazioni Umane infatti vi era la concettuale
“lubrificazione del taylorismo”).
Il movimento motivazionalista che consegue pone
l’accento sulle implicazioni psicologiche consequenziali al
conferimento di una matrice umana, individuale e
imponderabile ad ogni singolo lavoratore; gli assetti
lavorativi infatti, non possono prescindere dalla necessaria
crescita psicologica alla base degli intenti umani, prima
ancora che lavorativi.
L’apporto di Likert, Herzberg e Argyris sin dagli anni
Cinquanta è divenuto in questo senso, funzionale
all’esplorazione approfondita di quel fattore umano,
scoperto da Mayo, ma i cui elementi endogeni era rimasti
fino ad allora custoditi dentro una fitta trama di implicazioni
psicologiche.
La piena acquisizione del ruolo della variabile umana a
questo punto, porterà ad allargare il campo visivo della
ricerca sociologica: il nuovo individuo-lavoratore viene in
6
questo modo inserito nel contesto più ampio
dell’organizzazione lavorativa e viene per tanto conferito
nuovo ruolo alla cooperazione tra le parti.
A questo punto viene svelata la perfetta compenetrazione
delle triplici variabili lavorative: soggetto, collettivo e
ambiente di lavoro.
Da Cyert e March, che negli anni Sessanta indagano sul
ruolo delle coalizioni, sino ad arrivare all’ipersoggettivista
Karl Weick, che dieci anni dopo analizzerà l’organizzazione
lavorativa come una “mente collettiva”, l’approccio della
sociologia contemporanea appare incline ad inserire le
nuove e mature individualità in un modello collettivo,
finalmente consapevole e cooperativo.
L’intero costrutto che regge le istanze
individuali, inoltre, non può prescindere dall’influenza di
fattori esogeni all’organizzazione (definiti “agenti
individualizzanti”) che comportano il riaffiorare delle
individualità lavorative.
La motivazione personale, l’approccio alla fatica, la
creazione di leadership, l’accettazione delle responsabilità e
la propensione al rischio appaiono per tanto aspetti che
7
restituiscono all’attore sociale la sua natura imponderabile e
umana.
In particolare la percezione del rischio individuale appare
una chiave di lettura importante per indagare sulle
particolari professionalità “a rischio” e sulla
accettabilità individuale delle forme di azzardo
che dipende, tanto dalla natura dell’eventuale
pericolo, quanto dal rapporto con l’ambiente sociale
circostante.
Alla luce dell’evoluzione delle teorie che hanno posto
l’individuo come oggetto di indagine, tale filone
di studio appare rivoluzionario perché pone
in discussione, sia obiettivi e strategie di
impresa consolidate, nonché la natura stessa dell’intero
“assetto” organizzativo (termine più specifico
che sottende e abbraccia molteplici variabili
sociologiche, sostituendosi al più generico “modello”
organizzativo).
L’uomo che “ridisegna” se stesso in questo schema ha per
tanto assunto connotazioni di contingenza e opportunismo
8
tipica di una visione nietzschana,
1
tanto da legittimare
quello “spirito d’urgenza” che porta a scegliere nuovi
strumenti per raggiungere nuove priorità.
In tale assetto l’individuo, divenuto attore sociale
pienamente consapevole delle sue potenzialità e
motivazioni, scopre nel proprio comportamento il
punto di partenza per una nuova e più incisiva spinta
propulsiva nel sistema collettivo.
Lo studio e l’interpretazione del “nuovo” agire collettivo
risulta perciò, sempre più ispirato da singole istanze
emotive e fortemente riconducibili agli attori sociali in
campo.
L’espressione tipica e facilmente osservabile empiricamente
di tale comportamento collettivo, è lo sciopero, divenuto
oggetto di una indagine sempre incline ad interpretare i
movimenti di un intero assetto lavorativo come
1
“contrapporre alla tirannia imposta da ogni sistema razionale, la tirannia di ogni
istinto individuale”: in questo modo Friedrich W. Nietzsche nell’opera del 1880
“Umano troppo umano”, (dedicata a Voltaire), impone la visione di una
individualità definita “darwiniana”; essa infatti si fonda sul rifiuto di sistemi di
riferimento stereotipi e aprioristici. Tale approccio nietzschiano viene
convenzionalmente identificato con il termine di “nichilismo attivo”, teso cioè “ad
annullare ogni sistema e valore assoluto, dogmatico e sovraordinato all’individuo”
L. Geymonat, “Immagini dell’Uomo. Filosofia, Scienza e Scienze Umane”, Garzanti,
Milano, 1989, pag. 326.
9
la risultante di elementi periferici minori e meno
ponderabili.
2
Il paradosso di Mancur Olson, che evidenzia gli alti costi
individuali per la produzione di un bene collettivo, ancora
una volta sancisce l’importanza degli elementi emotivi e
delle motivazioni personali, importanti tasselli dell’intero
agire collettivo.
Sviluppare una maggiore comprensione dei singoli
comportamenti individuali appare, in questo senso, una
necessaria via per la definizione di un modello coerente che
incontri per tanto, sia le esigenze individuali di una
maggiore sinergia e cooperazione tra le differenti
gerarchie e sia le esigenza di crescita, economica ed
organizzativa, degli assetti collettivi.
2
“normalmente la grande letteratura storico-sociale relativa allo sciopero, da
Knowles a Shorter e Tilly, non si è misurata a fondo sulla possibilità di intendere la
logica dell’azione di sciopero come un atto razionale collettivo, avulso da ogni
implicazione decisionale di tipo individuale” dall’introduzione, ad opera di G. P.
Cella, del libro di J. D. Reyanud, “Sociologia dei Conflitti di Lavoro”, ed. Dedalo
Bari, 1982, pag. 9.
10
Teorie della crescita della
personalità
SOMMARIO – 1. La nascita dell’approccio anti-taylorista:
le Relazioni Umane 2. Le teorie motivazionaliste: crescita
psicologica e soddisfazione lavorativa personale - 3.
Umanizzazione degli assetti organizzativi: il sistema a perni
connettori - 4. Il modello giapponese
1. La nascita dell’approccio anti-taylorista: le
Relazioni Umane
Il dibattito sulla necessità di passare attraverso una
studio delle dinamiche soggettive per comprendere a pieno
l’agire collettivo è progressivamente divenuto funzionale
alle teorie che predicavano l’uscita dalla “afflizione
taylorista”
3
nell’accezione moderna del termine.
Il punto di partenza concettuale deve perciò essere
ricondotto alle prime ricerche sulla fatica e monotonia,
4
che
sin dai primi anni ’20, contestarono il carattere assoluto e
inoppugnabile del taylorismo.
3
Giuseppe Bonazzi utilizza tale termine preferendolo al semplicistico “uscita del
taylorismo”; questo per designare l’avvenuto mutamento di prospettiva degli ultimi
anni. Negli ultimi anni si ammette la possibilità di un taylorismo non afflittivo, come
nel caso del neo taylorismo informatizzato (computer aided new-taylorism) oppure
del cosiddetto taylorismo “democratico” o modello giapponese. Bonazzi G. “Storia
del pensiero Organizzativo”, Angeli, Milano, 1992.
4
ad opera dell’Harvard Fatigue Laboratory fondato nel 1926, che promosse
ricerche in collaborazione con l’Industrial Fatigue Research Board di Londra.
11
Il risultato di tale approccio dubitativo nei confronti di quel
modello scientifico imposto, furono le Relazioni Umane.
La scoperta fondamentale, destinata ad essere elemento
propulsore di tutta la nuova “umanizzazione” degli assetti
lavorativi, verte sull’influenza dei fattori emotivi e micro-
ambientali nella definizione dell’agire collettivo.
Le Relazioni Umane diventano, in questo modo, espressione
embrionale di una riforma dei sistemi organizzativi che
attraverserà il secolo; ad essa si deve però la
scoperta del fattore primo, l’individuo appunto, inserito
all’interno di un sistema che non considera l’attore sociale
come una variabile dipendente in uno schema
matematico.
Il principale esponente di questa corrente è Elton Mayo, il
cui approccio “umanistico”, risente della necessità di
colmare la profonda frattura tra la durezza delle
prescrizioni che regolavano il lavoro subalterno in un
economia di mercato ispirata dal taylorismo e
l’eccellenza dei valori umani esaltati nella democrazia
americana.
12
Le conclusioni di Mayo sono quotate delle ricerche
5
mirate
a esprimere la profonda relazione tra grado di illuminazione
dell’ambiente lavorativo e rendimento dei singoli lavoratori,
due variabili sino ad allora evidentemente trascurate
dall’organizzazione tayloristica dei sistemi collettivi.
I risultati di tale esperimento mostrarono come un aumento
dell’illuminazione aveva indirettamente provocato un
sostanziale incremento di produttività anche nei settori dove
l’illuminazione era rimasta invariata.
6
Lo sconcertante risultato svelò il carattere elusivo e
imprevedibile del “fattore umano”, inconciliabile con i
rigidi schemi classici.
Il meccanismo di “sfida” alle loro capacità lavorative che si
era innescato tra lavoratori operanti in settori con
illuminazione differente, aveva inficiato il semplicistico e
matematico teorema, orientato a ricondurre il singolo attore
5
condotte tra il 1927 e il 1932 presso gli stabilimenti Hawthorne della Western
Electric.- E. Mayo, “The Social Problems of an Industrial Civilization”, Harvard U.
P. , Boston, 1945 (“I problemi umani e socio-politici sulla civiltà industriale”, Utet,
Torino, 1969).
6
“le conclusioni degli studi di Hawthorne sembrano essere congeniali a coloro che
concordavano con il sistema economico prevalente ma che desideravano anche
passare da semplici e materialistiche nozioni sulle motivazioni al lavoro a teorie
sociali più complesse, che potevano essere viste come più utili, più umane, più
democratiche.”- R. Franke e J. Kaul, “The Hawthorne Experiments: First Statistical
Interpretation” in American Sociology Review, num. 5, 1978, pag.637.
13
alle dinamiche collettive prescindendo dalla sua più intima
emotività.
7
Il nuovo approccio psico-sociale di Mayo sottolinea nuovi
interventi auspicabili per favorire l’espressione e la crescita
di individualità mature come i lavori di gruppo, una
supervisione non oppressiva dei superiori, un ambiente
armonico e gradevole e delle pause di lavoro per favorire la
comunicazione tra gli attori sociali.
All’interno del movimento concettuale creatosi intorno alle
Relazioni Umane meritano menzione gli studi di Warner,
8
Roethlisberger e Dickson
9
tesi ad alimentare, tramite
ricerche empiriche sull’importanza dei gruppi informali di
lavoro,
10
la visione di una società industriale arricchita da
precisi fattori umani.
Le intuizioni contenuto nel filone ideologico delle Relazioni
Umane contengono pertanto un importante intuizione:
l’individuo non è isolabile né avulso dalla struttura
7
E. Mayo, “The Human Problems of an Industrial Civilization”, Viking, New York,
1945.
8
L. Warner e J. Low, “The social System of the modern factory”, Yale University
Press, New Haven, 1947 (trad. ital. “Il sistema sociale nella fabbrica moderna”,
ETAS Kompass, Milano, 1969).
9
F. Roethlisberger e W. Dickson, “Management and Workers”, Harvard University
Press, Cambridge, 1939.
10
si tratta di una ricerca sulla stratificazione sociale, sui conflitti e sulle crisi di
transizione in una comunità del Massachussets nel 1929.
14
psico-emotiva della propria personalità e dall’ambiente
circostante.
11
Le Relazioni Umane, pur possedendo il merito di aver
intuito i nuovi e necessari obiettivi verso cui indirizzare la
nuova rilettura umanistica dei sistemi collettivi, di fatto si
limito a fornire una rilettura del modello preesistente,
divenendone per tanto “lubrificante del taylorismo”.
12
Le nuove priorità imposte da tali teorie rappresentano
l’antefatto teorico che porterà all’affermazione
dell’approccio motivazionalista all’organizzazione del
lavoro; esso conterrà infatti non solo il recupero dei fattori
emotivi alla base dell’agire collettivo, ma anche una più
attenta indagine introspettiva e psicologica (non più solo
empirica come nelle Relazioni Umane) dei singoli attori
sociali.
11
“il conflitto è una malattia sociale mentre la cooperazione è salute sociale”- H.
Landsberger, “Hawthorne Revisited”, Cornell University Press, 1958 (trad. ital.
“Processo a Hawthorne”, Angeli, Milano, 1972).
12
G. Bonazzi, “Dentro e fuori della fabbrica”, Angeli, Milano, 1982.
15
2. Le teorie motivazionaliste: crescita psicologica e
soddisfazione lavorativa personale
Le teorie motivazionaliste o di realizzazione
della personalità si sviluppano intorno alle
tematiche relative alla centralità degli elementi
emotivi, individuali e imponderabili celati nell’agire
collettivo; tale approccio introduce elementi nuovi rispetto
alla chiavi di lettura del passato, in merito soprattutto alla
maggiore attenzione per le implicazioni psicologiche che il
rapporto tra attori sociali sottende.
Accanto ad una più complessa antropologia dei bisogni
umani viene resa indispensabile una più attenta analisi della
psiche umana.
Se il passaggio precedente era stata pertanto una
decostruzione e parcellizzazione delle organizzazioni,
adesso l’elemento scomposto è ancora più piccolo: l’attore
sociale.
La posizione centrale di questa scuola conduce al problema
teorico di cosa si debba intendere per natura e bisogni
umani.
Una risposta a questo iniziale quesito viene ricavato
dalle posizioni di Maslow, il quale fece una ambiziosa
16
definizione e classificazione dei differenti bisogni umani
13
assunta, in seguito, come assioma.
Tra gli psicologi del lavoro di chiara ispirazione
motivazionalista, Chris Argyris è quello che più di altri si
mostra incline ad esaltare il contrasto tra esigenze
dell’individuo/lavoratore ed esigenze dell’interna
organizzazione.
Per Argyris la crescita psicologica dell’individuo
consiste nel passaggio dallo stato d’infanzia a quello di
maturità.
14
Il passaggio alla condizione adulta però comporta il
superamento di uno stato di passività e dipendenza, dalla
piena coscienza della propria individualità e obiettivi e dalla
acquisizione di responsabilità sempre maggiori.
Il raggiungimento di tutte queste capacità positive è
subordinato da Argyris al raggiungimento della condizione
di adulto.
13
Maslow definisce i bisogni in base alla loro natura e grado di complessità,
distinguendoli in cinque grandi ordini: bisogni fisiologici (relativi alla sopravvivenza
immediata), bisogni di sicurezza (relativi alla sopravvivenza nel lungo periodo)
bisogni sociali (relativi all’esistenza di un ambiente sociale gradevole), bisogni
dell’ego (relativi all’aspirazione ad un riconoscimento sociale del proprio status),
bisogni dell’autorealizzazione (relativi all’aspirazione ad un lavoro che arricchisca
la dimensione psicologica interiore dell’uomo).
A. Maslow, “Motivation and
Personality”, Harper and Brothers, New York, 1954.
14
C. Argyris, “Personality and organization”, Harper and Brothers, New York,
1957.
17
Quest’ultima non è dunque una condizione solitaria ed
egoistica ma bensì sociale e dato da una reciproca
interazione.
A questo punto le organizzazioni lavorative si confrontano
con gli individui al centro di questo continuo processo
formativo interno, inficiando inevitabilmente il loro
percorso individuale di crescita.
Il modo in cui le organizzazioni moderne impongono di
lavorare agli individui, impedisce lo sviluppo delle suddette
caratteristiche e condanna l’uomo ad un perenne stato
psicologico regredito ed infantile.
Le motivazioni che spingono le organizzazioni sono
riconducibili a precisi intenti; alle collettività organizzate
secondo uno schema taylorista non interessa disporre di
maestranze mature, autonome e creative poiché organizzate
intorno a principi razionali, con stretti campi di competenza
e con procedure predeterminate.
Secondo Argyris, uomini rimasti psicologicamente
bambini entrano nelle maglie di un assetto organizzativo
spersonalizzante e ne rimangono ben presto prigionieri.