2
azionisti di rilievo dispongono di ben più penetranti strumenti di
riscontro ed appaiono in grado di formulare da sé ogni appropriato
giudizio sull’andamento dell’impresa sociale: i veri destinatari dell’opera
dei sindaci sarebbero, perciò, gli azionisti esclusi dalle leve della
gestione sociale, privi d’altre forme di garanzia e di diversi mezzi
d’informazione.
2
E’ noto peraltro, che questa visione non riscuote il consenso di larga
parte della dottrina e della pressoché unanime giurisprudenza.
Si costata, infatti, che i sindaci sono investiti non solamente di un potere-
dovere di controllo sull’amministrazione, ma anche di una più generale
funzione di vigilanza sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo:
una vigilanza che non investe soltanto l’azione dell’organo gestorio, ma
si estende all’intera persona giuridica.
Ora, poiché fra le norme di legge del cui rispetto i sindaci sono garanti,
alcune risultano indubbiamente dettate a precipua tutela dei terzi che
entrano in contatto con la società (principalmente dei terzi creditori),
appare naturale concludere che i controlli sindacali siano funzionali
anche alla protezione (concorrente o, addirittura, esclusiva) di costoro,
con la conseguenza che i sindaci potrebbero e dovrebbero agire, di volta
in volta, a difesa d’interessi eteronimi: di quelli della società, certo, o
delle minoranze azionarie; ma anche degli interessi di tutti colori che si
trovano in qualche misura danneggiati dalle scelte dell’impresa collettiva
e che risultano protetti da qualche specifica norma di legge dettata a loro
salvaguardia.
3
Questa più complessa visuale dei controlli interni, che si esprime
attraverso una modulata gamma di formulazioni, tende talora a venarsi di
1
Adriano Fiorentino, in Gli organi delle società di capitali, Napoli, 1950, 161.
2
Francesco Galgano, in Diritto Commerciale, Zanichelli editore, 1998.
3
ancor più esplicite coloriture pubblicistiche. Si legge, così, che i controlli
sindacali sarebbero diretti a proteggere l’interesse generale ad un corretto
funzionamento delle società azionarie e, perciò, in definitiva, dell’intero
sistema economico – imprenditoriale, visto in alcune formulazioni come
valore preminente su qualsiasi altro.
4
Al di là delle diverse modulazioni, il dato saliente di queste proposte
ricostruttive sta nel superamento di una concezione che vede nei sindaci
un semplice meccanismo d’autotutela, per fare del collegio un organo
deputato alla protezione di valori di vario tipo: sociali, misti ed
extrasociali, e sino al punto di considerare doverosa, in taluni casi,
un’azione in conflitto con l’interesse dei soci.
Questa visione è condivisibile, specie in considerazione del contenuto
della disciplina del TUIF 58/98. Si pensi a quale portata pubblicistica
hanno i poteri/doveri di: comunicazione alla CONSOB delle irregolarità
riscontrate (art. 149, 3 co), denuncia al Tribunale nel caso di fondato
sospetto di gravi irregolarità (art. 152, 1 co), (essendo, questi, due poteri
ostativi nei confronti degli amministratori); controllo CONSOB sul
collegio sindacale (art. 152, 2 co), (essendo questo un potere della
pubblica amministrazione in merito all’esercizio delle funzioni
sindacali).
3
Jaeger – Denozza, Appunti di diritto commerciale, Milano, 1994, 247.
4
Guido Uberto Tedeschi, Il collegio sindacale. Artt.2397 – 2408, in Commentario al Codice Civile
diretto da P.Schlesinger, Milano, 1992, 232ss.
4
1.2 CAUSE DEL DELUDENTE PASSATO FUNZIONAMENTO DEL
COLLEGIO SINDACALE
Sin dall’indomani della sua istituzione (cod. di commercio 1882), le voci
che si sono levate per lamentare, talora in termini assai severi,
l’insoddisfacente funzionamento del collegio sindacale sono state
innumerevoli. Così come innumerevoli e ricorrenti sono state le
discussioni e le proposte per addivenire ad una sua riforma: più spesso
nell’ottica di migliorare con opportune provvidenze, l’efficacia dei
controlli interni, ma talora anche nella pessimistica visuale di una
definitiva espunzione dei sindaci dal nostro sistema societario.
Le ragioni indicate quali cause del deludente funzionamento dei collegi
sindacali sono note e molteplici.
5
Si è lamentata, più o meno da tutti, l’insufficiente indipendenza dei
controllori, in gran parte legata alla scelta normativa di deferirne la
nomina e la revoca all’assemblea. Quale motivo concorrente e non
secondario, si è poi additata l’assenza di competenze tecniche specifiche
confacenti allo svolgimento dell’ufficio, sia sul piano più strettamente
contabile, sia sul piano, per così dire, manageriale, con la conseguente
mancata formazione di una vera e propria categoria e coscienza
professionale paragonabile a quelle esistenti in Paesi a noi vicini. Si è
ancora sottolineato l’eccessivo numero delle attribuzioni assegnate ai
sindaci dalla legge, tanto vaste da impedire, nei fatti, un serio ed effettivo
svolgimento dei controlli. E non si è mancato di evocare la scarsa
redditività dell’ufficio, con il risultato di allontanarne i più capaci o di
incentivare pericolosamente il cumulo indefinito degli incarichi.
5
Gino Cavalli, Il controllo interno societario e gli interessi protetti, in Le società, 8/98, 888
5
A questi aspetti evidenziati dalla dottrina e dagli operatori, il legislatore
ha dedicato, negli anni, una svogliata attenzione con interventi per vero
piuttosto sporadici.
1.3 EVOLUZIONE NORMATIVA. BREVI CENNI.
Il collegio sindacale è stato oggetto di una lunga e graduale evoluzione
normativa.
La sua istituzione fu originariamente prevista dall’articolo 184 del codice
di commercio del 1882, con il quale veniva abolita l’autorizzazione
governativa sulle società anonime, di piemontese istituzione, a sua volta
risalente al codice di commercio del 1865.
L’organo fu poi riformato dal R.D.L. 24 luglio 1936 n. 1548, convertito
nella L. 3 aprile 1937 n. 517, che intervenne sia sulla sua struttura che
sulle sue funzioni. Il contenuto di questo regio decreto fu recepito dal
codice civile del 1942.
Nel 1965 il CNEL si faceva interprete di una sensibilità crescente nei
confronti della necessità di una graduale rivisitazione del controllo
sindacale, con particolare riguardo agli aspetti organizzativi e funzionali.
Non vi fu alcun esito legislativo.
Significative innovazioni vennero attraverso la L. 216 del 7 giugno 1974
ed il relativo D.P.R. n. 136 del 31 marzo 1975, che istituì la revisione
esterna obbligatoria per le società quotate e per particolari categorie di
imprese. Furono tali norme a dare luogo al problema sia giuridico che
Lorenzo De Angelis,Il controllo dei sindaci sull’amministrazione nelle società quotate, in Le società
1/99, 5.
6
operativo del concorso del collegio sindacale e della società di revisione
esterna nelle funzioni di controllo contabile.
Più di recente, su alcuni importanti caratteri dell’istituto, è intervenuto il
D.Lgs. n. 88 del 1992 – di attuazione dell’VIII direttiva comunitaria – il
quale ha particolarmente inciso sui requisiti di professionalità dei sindaci
(necessaria iscrizione nel registro dei revisori tenuto presso il Ministero
di grazia e giustizia, previo accertamento dei requisiti professionali e
successivo tirocinio triennale) e su altri elementi relativi alla
composizione ed alla funzionalità dell’organo (incompatibilità,
collaboratori, supplenza).
Infine, il testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione
finanziaria (D.Lgs. n. 58 del 24 febbraio 1998) ha ridefinito la disciplina
relativa al collegio sindacale delle società italiane con azioni quotate in
mercati regolamentati italiani o di altri Paesi dell’Unione Europea.
A queste società, a partire dal 1° luglio 1998
non si applica più gran parte
della normativa del codice civile relativa al collegio sindacale,
bensì
quella contenuta nella parte IV, titolo III, cap. II, sezione V del decreto
n. 58/98.
Le nuove disposizioni sorgono in attuazione della delega conferita al
governo dall’art. 21 della legge 6 febbraio 1996, il quale, comma 4, così
recita: “In sede di riordinamento normativo delle materie concernenti gli
intermediari, i mercati finanziari e mobiliari e gli altri aspetti comunque
connessi, potrà essere altresì modificata la disciplina relativa alle società
emittente titoli sui mercati regolamentati, con particolare riferimento al
collegio sindacale, ai poteri delle minoranze, ai sindacati di voto ed ai
rapporti di gruppo, secondo criteri che rafforzino la tutela e il risparmio
degli azionisti di minoranza”.
7
La riforma del collegio sindacale a cui si è pervenuti è il risultato di un
corpus normativo che, raccordato con la regolamentazione codicistica
della società per azioni, ha dato luogo ad un processo di trasformazione
che si articola lungo tre direttrici volte a garantire: una maggiore
indipendenza dei sindaci, una più chiara definizione dei compiti
assegnati, un rafforzamento dei poteri di indagine e comminatori).
2 LA COMPOSIZIONE DEL COLLEGIO SINDACALE
Il decreto n. 58/98, all’art. 148, detta la disciplina relativa alla
composizione del collegio sindacale.
Tale disciplina, a differenza di quella contenuta nel codice civile, lascia
ampio spazio all’autonomia statutaria, indicando soltanto dei criteri
minimali di riferimento; in tal modo si è inteso riservare alle singole
società la possibilità di adeguare la composizione del proprio collegio
sindacale alle proprie specifiche caratteristiche (dimensione dell’azienda
e natura dell’impresa esercitata) e, quindi, alle corrispondenti e
specifiche esigenze dell’attività di controllo interno.
8
2.1 NUMERO DEI SINDACI E MODALITA’ DI NOMINA DEL
PRESIDENTE
Allo scopo di perseguire il fine suindicato, il TUIF non prevede un
numero fisso né un numero massimo di componenti del collegio
sindacale, ma si limita ad indicare due soglie numeriche minime: tre per i
sindaci effettivi e due per i supplenti. Quindi, fermo restando il numero
minimo di sindaci, è lasciato all’atto costitutivo la libertà di fissare il
numero di sindaci effettivi e supplenti idonei alla struttura organizzativa
della società.
Nulla è indicato sulla necessità di un collegio con un numero pari o
dispari di membri; tuttavia, anche se parte della dottrina non esclude la
possibilità di un numero di sindaci effettivi pari,
appare preferibile un
numero di sindaci dispari, al fine di evitare la paralisi dell’organo
sindacale nei casi di perfetta parità di voti.
6
Anche i criteri di nomina del presidente del collegio sindacale sono
lasciati dal TUIF all’autonomia statutaria, mentre invece nel codice
civile tale nomina è demandata all’assemblea dei soci. L’atto costitutivo
potrebbe legittimamente riservare la nomina in oggetto all’assemblea dei
soci o, altrettanto legittimamente, attribuirla al consiglio di
amministrazione o allo stesso collegio sindacale, o anche, secondo alcuni
commentatori,
a soggetti terzi quali la CONSOB. Tuttavia, ai sensi
dell’art. 2460 c.c., nel caso in cui uno o più sindaci siano nominati dallo
Stato, il presidente del collegio sindacale continua a dover
essere scelto
fra essi.
6
G. Cottino, La legge draghi e le società quotate in borsa,Torino, 1999, 264.
9
2.2 LIMITI AL CUMULO DEGLI INCARICHI
Allo scopo di garantire al controllo delle società con azioni quotate la
continuità, l’attenzione e la certezza necessarie, l’art. 148, 1 co, riserva
all’atto costitutivo la fissazione di limiti al cumulo degli incarichi che i
sindaci della società possono contemporaneamente assumere in altri
collegi.
Suscita qualche perplessità la scelta di assegnare all’autonomia degli atti
costitutivi l’individuazione dei limiti in oggetto, in considerazione del
rischio di disparità e della visione frammentata e soggettiva che a tale
scelta possono conseguire.
Bisogna, ad ogni modo, sottolineare il tenore precettivo della norma:
essa porta a ritenere che, anche se la determinazione del quantum è
lasciata alla discrezionalità dei soci, non appare una scelta facoltativa
quella della fissazione del numero di incarichi massimi. Anzi, si può
ritenere che la previsione di un numero eccessivo di incarichi possa
rendere invalida la relativa clausola statutaria, ponendosi contra
rationem legis.
2.3 IL SINDACO DI MINORANZA
Di notevole interesse è il 2° comma dell’art. 148 del TUIF: “l’atto
costitutivo deve contenere clausole idonee ad assicurare che uno o due
membri effettivi siano eletti dalle minoranze”.
Più specificamente, quando il collegio sindacale è costituito da tre
sindaci effettivi, la minoranza ha diritto alla nomina di un sindaco
effettivo; se invece il collegio è composto da più sindaci effettivi, i
membri effettivi eletti dalla minoranza non possono essere meno di due.
10
Si è detto che l’introduzione di queste disposizioni conduce
contemporaneamente alla realizzazione di due finalità complementari:
una maggiore indipendenza dell’organo sindacale e una più forte tutela
delle minoranze; che “la realizzazione di un obiettivo porta
necessariamente al perseguimento dell’altro, poiché una maggiore
indipendenza del collegio sindacale dagli organi controllati non può che
condurre verso una più intensa protezione dell’interesse delle
minoranze”.
7
Ciò convince appieno sotto l’aspetto squisitamente pratico. Ma in linea
meramente teorica, non è condivisibile questa scelta legislativa: essa
comporta una distonia nel ruolo del sindaco, che non è espressione di
questo o di quell’azionista, bensì controllore dell’interesse generale dei
soci senza dipendere da nessuno (posizione di superiore terzietà).
Presumere che un sindaco possa essere “occhio della minoranza” e
quindi controllore più attento degli altri, porterebbe allo stesso errore che
si commette pensando che i sindaci sono proni al volere dell’azionariato
di controllo da cui promana la loro nomina. Tale scelta potrebbe
concepirsi soltanto se al collegio sindacale fosse attribuito l’esercizio di
un controllo di merito.
8
Ma la pratica è cosa diversa della teoria.
Giustamente scrive Vincenzo Salafia che: “i sindaci di minoranza non
sono rappresentanti partigiani di un interesse diverso da quello espresso
dalla maggioranza, ma solo strumenti di possibile elaborazione di idee
diverse dirette a confrontarsi con le altre che in seno all’organo si
manifestano”.
9
7
Francesco Serao, Il collegio sindacale, Il sole 24 ore libri, 1999.
8
Lorenzo De Angelis, Il controllo, 7, cit..
9
Vincenzo Salafia, Il collegio sindacale nelle società quotate, in Le società, 3/98, 259.
11
Tale previsione di legge necessiterebbe, inoltre, di una più chiara
definizione delle modalità di nomina dei sindaci di minoranza; ciò allo
scopo di prevenire possibili abusi, giungendo in tal modo, ad un
equilibrio tra l’esigenza di evitare l’indiscriminata presentazione di liste
di minoranza e quella di impedire liste di minoranza “pilotate” da gruppi
di controllo.
10
10
Tribunale di Roma 18 marzo 1996, caso IMI, in Le società, 7/96, 831: “deve considerarsi invalida
la delibera di nomina nel C.D.A. ove sia provata l’esistenza, tra gli azionisti facenti capo ad alcuni
delle liste cui sono assegnati posti riservati per legge alla minoranza, di un’articolata intesa volta ad
eludere le norme che garantiscono la presenza nel C.D.A. di rappresentati della minoranza”
12
2.3.1 I METODI DI VOTO DI LISTA IN GENERALE
Per dare applicazione al principio di rappresentanza delle minoranze, alla
maggioranza assembleare viene sottratto il potere di nominare un certo
numero di sindaci rispetto al numero globale, e tale potere viene
attribuito alla minoranza.
11
Un’applicazione del metodo del voto di lista prevede che ciascun socio
possa presentare all’assemblea una sola lista ordinata contenente un
numero di candidati inferiore al numero dei componenti del collegio
sindacale, prevedendo che, dalla votazione assembleare, risultino eletti
tutti i candidati elencati nella lista che ottiene la maggioranza dei voti, e
che risultino altresì eletti, fino a concorrenza del numero globale dei
sindaci, i primi candidati della lista che avrà ottenuto il maggior numero
di voti dopo la prima (metodo delle cosiddette liste bloccate).
E’ evidente che questo metodo permette soltanto al maggiore dei soci di
minoranza (cioè colui che può esercitare, dopo il socio di maggioranza, il
maggior numero di voti in assemblea) di esprimere un certo numero di
sindaci.
Il secondo metodo prevede che soltanto le minoranze rappresentative
almeno di un quorum determinato del capitale o dei votanti possano
esprimere uno o più membri del collegio.
Questo metodo favorisce l’aggregazione dei soci, ma ha dei limiti se
applicato a società con azionariato molto diffuso: se la percentuale è
commisurata al capitale essa deve essere necessariamente molto bassa o
rischia di non permettere l’espressione del numero di sindaci previsti
nello statuto; se la percentuale è commisurata sul numero dei votanti
11
Pietro Anello e Silvio Rizzini Bisinelli, Una prima applicazione delle norme sul voto di lista nel
caso IMI, in Le società, 7/96, 836.
13
resta il problema suindicato nel caso di commisurazione al capitale, e
comunque non garantisce effettivamente la minoranza rispetto alla
percentuale effettiva di voti che in assemblea può esprimere (metodo del
cosiddetto dont).
Il terzo metodo per dare rappresentatività alle minoranze nel collegio
sindacale prevede che i soci (individualmente o in gruppo) presentino
una lista in cui i candidati sono contrassegnati da un numero progressivo.
La votazione avviene per liste. Successivamente alla votazione i voti
ottenuti da ciascuna lista vengono divisi per il numero progressivo che
contraddistingue, sulla lista, ciascun candidato. I quozienti così ottenuti
per ciascun candidato, sono ordinati in un’unica graduatoria decrescente.
Risultano eletti a sindaco coloro che ottengono i quozienti più elevati.
Attualmente gran parte delle società quotate ha scelto il metodo dont.
12
La previsione di soglie minime per la presentazione di lise di minoranza
non appare un ostacolo alla partecipazione decisionale, configurandosi,
invece come un sistema che può assicurare l’efficace funzionamento
della società.
Risulta, invece, come un vuoto legislativo la mancata previsione di
norme che consentano alla minoranza di nominare propri sindaci
supplenti. A tal fine, un’idonea interpretazione della legge non può che
propendere verso il riconoscimento alla minoranza della possibilità di
designare propri sindaci supplenti e che in deroga al criterio di anzianità
stabilito dall’art. 2401 c.c. essi possano subentrare ai sindaci di
minoranza non più in carica.
12
A tal proposito citiamo, a titolo esemplificativo, il caso del Credito Italiano e dell’Istituto bancario
San Paolo di Torino, società nei cui statuti è previsto che soltanto il socio o il gruppo di soci in
possesso di almeno dell’1% delle azioni aventi diritto al voto nell’assemblea ordinaria, possono
14
2.3.2 UNA PRIMA APPLICAZIONE DEL VOTO DI LISTA PER IL
COLLEGIO SINDACALE
Il provvedimento che si commenta è stato pronunciato dal Tribunale di
Trieste a seguito del ricorso promosso da un gruppo di soci di minoranza
contro l’omologa della deliberazione assunta dall’assemblea
straordinaria della Premuda s.p.a., società quotata in borsa, volta a
rendere lo statuto sociale compatibile con le disposizioni introdotte dal
TUIF, art. 148, 2° co..
Il metodo scelto dalla Premuda s.p.a. per garantire il voto di lista è, nella
fattispecie, quello del dont con sbarramento al 10% di possesso azionario
per la presentazione delle candidature a sindaco di minoranza.
13
Si ricorda che, in merito al problema di quale sia la minoranza che il
legislatore ha realmente inteso tutelare, l’art. 148, 2° co. non definisce
cosa si intenda per minoranza. “L’assenza di ogni specificazione del
concetto di minoranza (…) induce a ritenere che il legislatore abbia
voluto lasciare la società arbitra di dettare al riguardo le norme più varie,
con il solo limite di pervenire al risultato che almeno un sindaco (…) sia
espressione di un gruppo di soci diverso da quello che, di diritto o di
fatto, detiene la maggioranza in assemblea”.
14
Per inciso, quantificare la soglia rilevante per l’attribuzione di uno o più
rappresentanti alla minoranza è assai problematico: da una parte esiste
l’esigenza di stabilire un soglia non troppo elevata, vuoi per non
penalizzare eccessivamente certe minoranze, vuoi perché potrebbe
provocare l’assoluta impossibilità di raggiungere il numero minimo
presentare una lista di minoranza per la nomina del relativo sindaco; viene eletta la lista che riporta
più voti. In Il collegio sindacale, Francesco Serao, Il sole 24 ore libri, 1999.
13
Tribunale di Trieste, 8 aprile 1999, in Le società, 8/99, 982.
14
Parrella, Commentario al TUIF, a cura di C. Rabitti Bedogni, Milano, 1998, 780.
15
necessario per la presentazione delle liste, rendendo di fatto inoperante la
norma; dall’altra una soglia poco elevata potrebbe favorire la
presentazione di diverse liste di minoranza realizzando una specie di
“guerra dei poveri”, nonché, al limite, la disgregazione fittizia della larga
maggioranza (in maggioranza e minoranza “allineata”).
Si ritiene che con l’art. 148 il legislatore non abbia voluto tutelare
qualunque tipo di minoranza esistente nell’assemblea, bensì soltanto
quella minoranza aggregata od organizzata che sia in grado di esprimere
la volontà di un numero non trascurabile di soci. Le minoranze aggregate
od organizzate cui il legislatore si è idealmente riferito nella redazione
della norma potrebbero essere, ad esempio, quelle rappresentate dai
gestori collettivi del risparmio: questi ultimo possono infatti
rappresentare un socio o un gruppo di soci rilevanti in quanto
sottoscrivono percentuali significative del capitale sociale; inoltre, non
avendo come proprio oggetto sociale la gestione diretta di società, ma il
solo investimento finanziario in capitale di rischio, non hanno tanto
interesse ad amministrare la società stessa quanto ad assicurarsi che i
meccanismi gestionali adottati siano rispettosi dei principi di corretta
amministrazione (assicurando così la redditività del loro investimento).
Così, nel provvedimento in commento la società Premuda aveva stabilito
statutariamente la necessità di una quota di possesso azionario pari al
10% del capitale sociale per la presentazione di ogni lista.
La misura di tale quota, eccessivamente elevata a giudizio dei soci
ricorrenti, è stata ritenuta legittima dal Tribunale adito sulla base delle
considerazioni sopra espresse.
Tale scelta non può che essere condivisa.