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sorgere di problemi a livello statistico come, ad esempio, la multicollinearità,
l’autocorrelazione fra i residui e l’eteroschedasticità che potrebbero
condizionare la validità del modello che verrà proposto.
Una volta esposti i limiti ed i problemi che possono sorgere dall’uso dei metodi
statistici, è però opportuno aggiungere che questi ultimi risultano essere degli
strumenti molto potenti ed efficaci che ci permettono di formulare anche delle
previsioni sull’andamento futuro della sindacalizzazione.
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CAPITOLO 1
LA STORIA DEL SINDACATO
1.1 La nascita dei sindacati moderni
I sindacati sono delle associazioni volontarie di lavoratori che esercitano
un’opera di tutela degli interessi economici (generali e di categoria), dei diritti
pubblici e che si occupano delle attività assistenziali delle masse lavoratrici.
Storicamente le origini di queste associazioni possono essere collocate alla fine
del diciassettesimo secolo in Inghilterra; più esattamente nel 1696, quando si
costituì un’associazione semiorganizzata e permanente che aveva come obiettivo
l’aumento dei salari dei lavoratori del feltro.
Nella prima metà del diciottesimo secolo si costituirono delle leghe che si
occupavano di difendere la forza lavoro occupata sia dalla concorrenza della
manodopera non qualificata sia dai ricatti salariali messi in atto dalla classe
imprenditoriale in una situazione di libero mercato del lavoro.
Secondo Dora Marucco (1974, p. 21) è alla fine di questo periodo che si assiste
al passaggio “…dell’associazionismo operaio europeo da organizzazione di
mutuo soccorso e di tutela dei privilegi del mestiere a coalizione delle forze
operaie contro la classe padronale”.
Quindi, da questo punto di vista, i precedenti del movimento sindacale moderno
non si rinvengono né nei “collegia opificum” che erano libere associazioni
artigiane, osteggiate da Cesare e ricostituite e potenziate da Augusto con la lex
Julia, né nelle corporazioni delle arti e dei mestieri medievali. Infatti, la
concezione di una speciale organizzazione d’operai che discutesse con i padroni
sulle questioni contrattuali e sulle condizioni di lavoro non era pensabile nel
contesto del sistema economico medievale. In questo periodo le norme di
protezione delle singole professioni erano tutelate dalle corporazioni, ossia da
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associazioni che radunavano al loro interno i padroni ed i garzoni (Mozzarelli
1988).
Le corporazioni rivestivano un ruolo importante poiché non stabilivano
solamente le tariffe del cottimo, ma anche le condizioni di lavoro e le misure di
difesa dello statuto dei garzoni di fronte agli operai non specializzati. Inoltre una
caratteristica dell’organizzazione delle corporazioni era la tendenza a restringere
il numero di coloro che potevano entrare nel mestiere e goderne i privilegi: per
questo motivo i garzoni sostenevano la limitazione della percentuale di
apprendisti in rapporto al loro numero.
Non c’era poi un grande interesse a fondare delle associazioni sindacali in una
società in cui vigeva la prassi secondo la quale i garzoni diventavano padroni al
termine di un certo periodo ed in cui la comunanza di interessi fra padrone e
garzone, dal momento che gli operai lavoravano a cottimo, era sufficiente a
soddisfare l’uno e l’altro (Pini 1986).
Ma durante il diciottesimo secolo, l’estensione dei commerci, la comparsa dei
mezzi di comunicazione, lo sviluppo della specializzazione e, in alcune
industrie, l’introduzione delle macchine, in molti casi provocarono una crescente
divaricazione fra gli interessi del padrone e quelli dell’operaio.
Il sorgere dell’azienda capitalistica causò, infatti, una profonda mutazione nei
rapporti fra il padrone ed il garzone dovuta essenzialmente a tre motivi (Guenzi,
Massa 1998):
1. il garzone per elevarsi al rango dei padroni aveva ora bisogno di una
misura non indifferente di capitale;
2. per l’operaio era più difficile, rispetto al periodo precedente, accumulare
denaro perché lo status di artigiano era ormai disprezzato;
3. i cambiamenti dell’organizzazione del lavoro e dell’assetto economico
erano talmente rapidi che un sistema di rigida regolamentazione come quello
corporativo era ormai un impaccio per chi possedeva i mezzi di produzione,
poiché impediva ai datori di lavoro di dettare unilateralmente le condizioni di
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lavoro. I padroni, inoltre, potevano contare sul supporto che era offerto loro
in materia legislativa dai giudici, essendo il Regno Unito un paese dove vige
il sistema di Common Law, e dal Parlamento.
Per questi motivi i garzoni, privati della protezione dei precedenti statuti,
decisero di formare delle associazioni, senza il coinvolgimento dei datori di
lavoro, per difendere i loro interessi.
Iniziarono così, nella seconda metà del diciottesimo secolo, e dunque con molto
anticipo rispetto agli altri paesi europei, le lotte del proletariato inglese che si
rivolgevano non solo contro il padronato ma anche contro il Parlamento,
accusato di emanare delle norme che dichiaravano fuorilegge le associazioni dei
lavoratori (Hamish Fraser 1999).
Le lotte crescevano e si facevano sempre più cruente, soprattutto a causa della
“Combinations Law”, emanate fra il 1799 ed il 1800 dal Pitt
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che vietavano il
formarsi di qualsiasi tipo di associazione a difesa dei diritti dei lavoratori. Un
esempio di queste lotte è riportato su tutti i manuali di storia: le agitazioni dei
luddisti
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contro l’introduzione delle macchine all’interno delle fabbriche che
portarono a violente repressioni da parte delle forze dell’ordine a Manchester, a
York ed a Peterloo, dove nel 1819 il mantenimento dell’ordine pubblico imposto
dal Parlamento costò la vita ad undici operai uccisi dalla Guardia Nazionale
durante una manifestazione pacifica (Pelling 1987).
I primi anni dell’ottocento furono anche un periodo di rafforzamento per i
sindacati inglesi, che non di rado però si presentavano ancora sotto l’apparenza
di associazioni di mutuo soccorso, con il particolare apporto dell’opera teorico-
pratica di Owen
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; gli eventi mutarono dopo il 1824 quando la “Combinations
law” fu abrogata ed i settori più decisi e più avanzati del nascente movimento
operaio inglese, fra cui la Working Men’s Association di Londra, la Political
Union di Birmingham e le Unions del nord si unirono e si espressero attraverso
le rivendicazioni politiche e sociali del cartismo (Hamish Fraser 1999).
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Il cartismo fu uno dei primi tentativi di affermare sul piano politico le
rivendicazioni economiche di un vasto e sempre più numeroso gruppo sociale.
La “people’s chart” scritta da Place
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contempla sei punti fondamentali:
1. Il suffragio universale
2. L’uguaglianza nei collegi
3. Il voto segreto
4. L’elezione annuale del Parlamento
5. L’eleggibilità dei non proprietari
6. La retribuzione ai membri eletti
Oggi questi punti, tranne quello dell’annualità dell’elezione parlamentare, sono
legge dello stato britannico.
Tuttavia ciò che mi preme osservare del movimento cartista è che l’unione fra la
Working Men’s Association di Londra, la Political Union di Birmingham e le
Unions del nord può essere considerata, come sostenuto da Pelling (1987), il
primo “nucleo” del movimento sindacale inglese.
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1.2 Le origini del movimento sindacale in Italia
Il sindacato in Italia nasce dopo l’unità politica del paese, ossia nella seconda
metà dell’ottocento. E’, infatti, necessario distinguere i movimenti ideologici
che supportavano politicamente gli interessi della classe operaia dalle
formazioni sindacali in senso stretto. I primi, infatti, avevano come obiettivo
quello di influire sul governo o di impossessarsi di esso per motivi di classe.
Questi movimenti, fra i quali vanno ricordati le società operaie di ispirazione
mazziniana, le fratellanze sociali e i sindacati rivoluzionari di Sorel, cercavano
di migliorare le condizioni morali, economiche ed intellettuali dei lavoratori
nell’ambito dello Stato.
I sindacati, invece, avevano degli obiettivi che di solito si limitavano al
ritrovamento degli strumenti di lotta più adatti per difendere i salari dalle sempre
maggiori pretese dei datori di lavoro, ossia si presentavano come leghe di
resistenza (Pepe 1996).
La distinzione fra movimenti ideologici e sindacati è fondamentale, perché se da
una parte la tutela degli interessi della classe lavoratrice può essere impostata su
basi politiche diverse (ad esempio quella cattolica, socialista, liberale, etc…),
dall’altra quando si tratta di difendere lo standard di vita economico è più utile
ricomporre gli screzi ideologici in maniera tale da avere più forza contrattuale
con la creazione di un movimento unitario.
Tuttavia in Italia, a differenza dei paesi anglosassoni, non c’è stata mai una netta
distinzione fra le associazioni sindacali ed i partiti politici, o meglio, le
organizzazioni sindacali non hanno mai goduto di piena autonomia (ad esempio
sono evidenti i legami che hanno unito la C.G.I.L. al il P.C.I. nel secondo
dopoguerrra).
Storicamente è stato il Partito Socialista ad organizzare le prime masse di
lavoratori ed i primi nuclei organizzativi nacquero attorno al 1890 quando si
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costituirono nei maggiori centri industriali le Camere del lavoro, come risultato
della fase di conflittualità avvenuta fra il 1875 e il 1900
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.
Per la Marucco (1974), due erano gli obiettivi fondamentali di queste lotte:
1. il riconoscimento della rappresentanza politica della classe operaia e non solo
della tutela degli interessi dei lavoratori,
2. il riconoscimento come agente istituzionale da parte sia dello Stato sia delle
forze sociali imprenditoriali per quanto riguardava la contrattazione salariale
e delle condizioni di lavoro.
Seppure le manifestazioni molte volte fossero caratterizzate da scontri violenti
con le forze dell’ordine, i nuovi istituti sindacali, le federazioni e le Camere del
Lavoro, si ponevano compiti tipicamente istituzionali di mediazione, di
rappresentanza e di contenimento del conflitto. In questo periodo il sindacato è
ancora debole dato che al suo interno le strutture organizzative sono ancora
divise per settore, nel senso che ancora sul finire dell’ottocento non si è
affermato il principio della difesa dell’interesse generale della classe operaia ma
permane quella dei privilegi delle singole categorie di lavoratori.
Nonostante ciò, nel corso degli anni ottanta gli organismi dei sindacati
divengono degli attori stabili nelle relazioni industriali (Pepe 1996), dando così
origine ad una progressiva erosione del potere dello Stato, della sua funzione di
comando e di controllo sia di chi possiede i mezzi di produzione che dei
lavoratori. Questo causò una pesante reazione da parte dello Stato dopo il 1893
che sfociò nella strage di Milano del 1898 alla quale i sindacati risposero con lo
sciopero generale del 1900 ed avviando contemporaneamente un processo
graduale di riorganizzazione delle strutture interne.
Nel 1902 si costituisce la Confederazione Generale del Lavoro la quale aderì
alla Federazione sindacale internazionale di Amsterdam. Strutturalmente la
C.G.d.L. era organizzata a più livelli, autonomi e diversi per interessi
rappresentati, per finalità e per criteri di organizzazione, tanto che Rigola (1947)
parla di organizzazione delle organizzazioni.
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La C.G.d.L. si configurava come un organismo di rappresentanza generale degli
interessi del mondo del lavoro attraverso la definizione di una piattaforma
politico-programmatica autonoma rispetto alle forze politiche, allo Stato ed alle
sue istituzioni. Osserva Ricci (1986, pag. 127) che “…l’azione della C.G.d.L.
sembra ispirarsi ad una funzione prevalente di mediazione più che di lotta, con
un’assenza di strutture a livello di base ed uno scarso processo di democrazia
sindacale”. Infatti, per quanto riguarda le strutture verticali ed orizzontali, si
consolida il prevalere delle prime sulle seconde.
Pepe (1972, p. 276), sintetizza così ciò che già alcuni autori, fra cui Rigola
(1946) ed Horowitz (1963), pensavano al riguardo e cioè che il tentativo era
quello di “…preservare l’unità istituzionale e la compattezza organizzativa del
movimento economico di classe che non trovava ancora nelle Camere del
Lavoro un valido punto di riferimento”.
I sopracitati autori, dunque, analizzando il modello organizzativo della C.G.d.L.,
traggono la conclusione che la confederazione era un sindacato moderato ma
senza democrazia interna.
Gran parte delle rivendicazioni erano volte al riconoscimento della
contrattazione collettiva come nuovo metodo di regolazione delle relazioni di
lavoro (Vallauri 1995).
Con la nascita e la stabilizzazione del livello confederale, si apriva un nuovo
problema per la classe dirigente dello Stato. Se prima l’attenzione era posta sui
pericoli che sarebbero potuti derivare dalla legittimazione delle forme di
conflitto, ora ci si accorgeva che era l’esistenza stessa del sistema sindacale a
produrre degli effetti sull’ordinamento complessivo dello Stato.
Afferma Pepe (1996, p.20) che: “…l’insieme del processo associativo del
movimento operaio venne tollerato perché delimitato alla pura sfera dei rapporti
sociali, sfera che per sua stessa natura era non solo subordinata ma irrelata nei
confronti di quella superiore dello Stato e della sua autorità di comando”.
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Ebbene, in Italia a cavallo fra l’ottocento ed il novecento, ci si accorse che tale
principio iniziava ad essere messo in discussione.
Fra il 1902 e il 1910 il sindacato si fece più forte ed ottenne delle conquiste sul
fronte della difesa dei diritti dei lavoratori e ciò provocò la reazione da parte
degli imprenditori che, vedendo intaccato il loro ruolo di potere unico all’interno
dell’azienda, chiesero allo Stato di arginare e ridimensionare le funzioni ed il
ruolo del sindacato.
Rispetto al rapporto fra il sindacato e lo Stato esso, fino al 1915, si sviluppa su
tre piani:
1. POLITICO: le funzioni di rappresentanza del sindacato si vanno estendendo
a tutto il proletariato. Vengono elaborati programmi di riforme sociali,
politiche e legislative che molte volte sono in conflitto con quelli proposti dai
partiti di governo e producono nei lavoratori sentimenti antagonistici nei
confronti dello Stato;
2. ECONOMICO-AMMINISTRATIVO: fin dal 1902, il sindacato tenta di
entrare negli organismi e nei corpi consultivi creati dallo Stato come il
Consiglio Superiore del Lavoro. Sottesa a ciò c’è la volontà del sindacato di
partecipare alla fase di elaborazione dei progetti di legge a difesa degli
interessi della classe operaia;
3. PATTO INFORMALE: riguarda la prevenzione e la regolazione pacifica
della conflittualità sociale. Il sindacato si impegna nei confronti dello Stato
ad utilizzare lo sciopero come un elemento di pressione e non di eversione.
Ma la crisi economica degli anni dieci, aumentando il potere dei datori di
lavoro
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, e la conseguente riorganizzazione produttiva portarono a:
ξ rimettere in discussione la legittimità dell’azione sindacale;
ξ bloccare il progresso del sistema di concertazione e del compromesso con il
sindacato.
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La crisi del sindacato si acuì nel 1915 con l’entrata in guerra dell’Italia: la
necessità di aumentare la produzione, visto lo sforzo bellico che si doveva
affrontare e contemporaneamente il bisogno di mantenere la pace sociale,
portarono il Parlamento ad emanare delle norme che presero il nome di
“Mobilitazione Industriale”. Tali norme prevedevano uno schema di relazioni
industriali di tipo triangolare, ossia governo, sindacati e rappresentanti degli
imprenditori. Tuttavia questo nuovo modo di organizzare le relazioni industriali
non deve essere inteso come un’estensione dei diritti sindacali; infatti, come
riportato da Procacci (1983), le norme prevedevano anche la sospensione del
diritto di sciopero, una diminuzione dell’autonomia propositiva e negoziale ed
una trasformazione del patto contrattuale in una norma attuativa obbligatoria con
valore di legge o di atto amministrativo. Dunque la riforma del 1915 si configura
come un procedimento autoritario di sospensione delle libertà sindacali e di
profonda modificazione dello stato di diritto di stampo liberale.
Concluso il conflitto, il paese fu attraversato da una grave crisi sociale e da
tensioni di classe, in parte dovute alla situazione economica ed in parte agli
avvenimenti internazionali (era passato solo un anno dalla rivoluzione russa che
aveva portato alla fine del regime degli zar). Il sindacato, incapace di riprendere
il suo ruolo politico e di rappresentatività negoziale vista anche la crisi delle
strutture dello stato liberale, non riusciva a controllare le esplosioni di
conflittualità ed inoltre era sempre più subordinato all’azione del Partito
Socialista. Il movimento operaio aveva riassunto la caratteristica dello
spontaneismo, con il sostegno dei sindacati rivoluzionari, ed aveva come
obiettivo non più il miglioramento delle condizioni di vita e lavorative degli
operai, bensì il sovvertimento dello stato liberale e la sua trasformazione in uno
stato socialista.
Per la Morucco (1974), alla crisi del sindacato tradizionale contribuivano anche
la nascita dell’U.S.I. (sindacato rivoluzionario di matrice anarchica) nel 1912 e
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della C.I.L., il sindacato cattolico, nel 1918 che avevano posto fine al monopolio
della rappresentanza della C.G.d.L., nonché la violenza delle squadre fasciste.
Fecero la loro comparsa anche problemi interni all’organizzazione sindacale
(Turone 1984):
ξ si formò una corrente massimalista, ideologicamente comunista, che adottò la
strategia dello scontro frontale permanente con quella riformista;
ξ ci furono forti contrasti fra il centro confederale e le strutture periferiche che
reclamavano più libertà d’azione.
Il quadro era completato dall’offensiva padronale: dovendo riconvertire la
produzione industriale dopo la fine della guerra e volendo restaurare l’ordine
all’interno delle fabbriche, gli imprenditori decisero di meccanizzare parte del
processo produttivo. Questo portò a licenziamenti di massa, ai quali gli operai
reagirono con scioperi e occupazioni che però ottennero un obiettivo diverso da
quello previsto, ossia il saldarsi di un’alleanza politica fra gli industriali ed il
Partito Nazionale Fascista che prometteva ordine e disciplina.
L’organismo sindacale confederale, già duramente provato dall’offensiva armata
e squadrista del fascismo, non riuscì a riconquistare una dimensione politica ed a
divenire protagonista di un’operazione di stabilizzazione e di mediazione nella
crisi dello stato liberale. L’impasse politica della Confederazione, dopo la caduta
del disegno riformista e l’avvento del fascismo, la portò al collasso ed alla sua
scomparsa il 4 gennaio 1927, quando il segretario generale del comitato direttivo
sancì la sua fine.
Inoltre la presa del potere da parte di Mussolini e del P.N.F. e la messa
fuorilegge degli altri partiti politici portò alla creazione di un diverso schema di
relazioni fra lo stato ed il sistema sindacale che aveva come obiettivo principale
quello di garantire la ripresa formale dell’autorità dello stato e sancire il ruolo e
la funzione economico-rappresentativa del sindacato.