5
INTRODUZIONE
L’obiettivo di questo lavoro di ricerca è fornire uno sguardo d’insieme sulla
dinastia dei Timuridi, sugli usi, i costumi, le peculiarità culturali, artistiche,
politiche e sociali di un impero che, sul piano storiografico, continua ad
essere un inesaurito argomento di discussione e a costituire un oggetto di
analisi e di discussione per diversi aspetti della sua complessa struttura e
della sua straordinaria eredità nel campo dell’arte e del pensiero. La scelta
dell’argomento è stata veicolata da alcune aree di interesse ancora non
totalmente esplorate e che offrono la possibilità di un’ulteriore riflessione
sui lasciti dell’impero timuride e sulle vicende che ne hanno caratterizzato
la nascita, lo splendore e l’apogeo, oltre alla volontà di delineare una ideale
linea di continuità tra la civiltà timuride e quelle fiorite successivamente ad
essa, in particolare la Safavide e la Moghul, mediante l’approfondimento
degli elementi che dalla prima sono confluiti nelle successive, in diversi
modi influenzandole ed informandole. La ricerca riserva inoltre uno
sguardo privilegiato alla ritualità e all’architettura funebre che ha
sottolineato e voluto esaltare, nei secoli, la dignità e lo splendore dei sovrani
che si sono avvicendati e che è possibile ritrovare, nella sua concezione
essenziale, nella storia dell’arte degli imperi successivi. Dal punto di vista
metodologico, la ricerca si configura come uno spoglio analitico dei
contributi contemporanei di architettura e storia dell’arte orientale che in
maniera più puntuale ed analitica hanno saputo stabilire connessioni tra le
vicende storico-sociali e l’espressione artistica che si è concretizzata nei
palazzi imperiali, nei giardini, nei mausolei e nei siti funerari. La vasta
6
regione che identifichiamo col nome di Asia centrale, una provincia
essenzialmente iranica, rivela infatti con la cospicua quantità delle sue
necropoli un sentito e profondo culto dei morti e i complessi monumentali
stanno a testimoniare di una tradizione funeraria secolare, continuata e
giunta al suo vertice in epoca timuride.
Dal punto di vista storico e cronologico, la ricerca ha inizio a partire dal
periodo successivo alla terribile invasione dei Mongoli, nel sec. XIII, quando
le tribù turche e mongole che avevano lasciato le proprie zone d’origine
iniziarono ad adottare le abitudini dei Persiani e persino la loro lingua. Nel
corso del secolo successivo, vedremo come la dinastia ilkhanide, fondata da
Holagu Khan, nipote di Gengis Khan e fratello di Kublai Khan, esercitò una
profonda influenza nell’area persiana, portando la popolazione, nel corso
di anni segnati da vicende turbolente e controverse, ad abbracciare la fede
islamica ed il Sufismo. Verso la fine del sec. XIV assistiamo l’ascesa della
figura di Tamerlano, discendente a sua volta dalla stirpe di Gengis Khan.
Le incerte e difficili condizioni socio-politiche che affliggevano a quel tempo
la Transoxiana mongola, vale a dire le regioni centro-asiatiche poste a est
della Persia, attualmente individuabili con gran parte del territorio uzbeko
e con l’area meridionale del Kazakistan, si rivelarono favorevoli a
Tamerlano al fine di edificare un vero e proprio impero comprendente gran
parte dell’Asia centrale. La sua figura viene ricordata come quella
dell’ultimo grande condottiero appartenente all’epoca pre-moderna; va
infatti ricordato che la sua comparsa sullo scenario mondiale rappresentò
uno sconvolgimento epocale, lasciando in eredità, dopo la sua scomparsa,
un panorama geografico e sociale sostanzialmente e profondamente
7
trasformato. Anche se il suo impero ebbe fine con lui, senza conoscere una
reale continuità, Tamerlano rappresentò una cesura per tutti i paesi che
vennero a vario titolo coinvolti nelle sue campagne belliche e nella sua
ampia ed ambiziosa visione politico-strategica, dai territori russi fino a
quelli dell’India.
Tamerlano (Timur-e- Lang, Timur lo zoppo), nato nel 1336 nell’attuale
Uzbekistan, era per nascita un piccolo signore tribale della sua regione
d’origine e non era destinato quindi ai fasti imperiali; la sua conquista di un
potere quasi illimitato è ravvisabile in una strategia individuale lenta e
determinata, che lo portò ad un’affermazione senza precedenti negli anni
tra il 1365 e il 1370. Grazie al matrimonio con la figlia del khan, assunse il
titolo di Gurkan, genero imperiale, e di fatto il potere reale venne da lui
gestito al posto del sovrano fin da quel momento, avvalendosi del Consiglio
supremo dell’impero (kurultay) che di fatto non prese mai una decisione o
adottò una linea di condotta distante dai voleri e dai desideri di Tamerlano,
che mantenne comunque per tutto il corso della sua vita una estrema
devozione e considerazione per le istituzioni imperiali, pur avendole nel
concreto svuotate di autorità, e non volle mai sovvertire formalmente
l’assetto gerarchico, continuando a tenere per sé il solo titolo di emiro. Nel
trentennio successivo alla sua ascesa al trono il condottiero mosse quella
che possiamo definire una guerra permanente verso le potenze confinanti,
turche ed islamiche, impegnando costantemente sul campo i suoi eserciti e
concentrando tutte le risorse economiche ed umane nel suo grandioso
progetto di conquista, foriero di risvolti politici e territoriali incessanti e tra
loro correlati. Tamerlano viene ricordato principalmente per la sua terribile
8
autorità e la sua feroce mancanza di scrupoli sul campo di battaglia: il
lavoro di ricerca si prefigge di metterne in luce anche le meno note qualità
di raffinato intellettuale e generoso protettore delle arti, capace di rendere
Samarcanda, la capitale del suo impero, una delle città più grandiose e
ricche di tesori artistici del globo. Al periodo del suo regno si attribuisce
infatti la definizione di rinascimento Timuride, che interessò in maniera
integrale l’universo persiano e quello turco-mongolo; lo stesso sovrano, che
rimase sempre drammaticamente sospeso tra il paganesimo di nascita e la
fede islamica abbracciata in età adulta, tra la cultura nomade d’origine e la
sofisticata cultura persiana, portò dentro di sé questa contraddizione fino
alla morte, contraddizione che fa di lui un personaggio affascinante,
complesso e per alcuni aspetti ancora da indagare. Alla morte di Tamerlano,
nel 1405, l’impero timuride comprendeva l’Iran, la Mesopotamia,
l’Afghanistan, il Caucaso e l’Anatolia orientale, vale a dire quasi l’intera
Asia centrale: negli anni successivi alla sua scomparsa le tecniche belliche
subirono un mutamento epocale e si poté assistere ad un'altra evoluzione
storica destinata a cambiare le sorti globali: lo spostamento degli equilibri
politici, economici e culturali verso il continente europeo.
9
CAPITOLO PRIMO
I TIMURIDI E IL LORO PADRE FONDATORE TAMERLANO.
L’ESEMPIO DELLA MOBILITÀ TIMURIDE E LE TRADIZIONI DEL
GIARDINO
1.1 Il controverso mito di Tamerlano (1336-1405)
Nel controverso e turbolento panorama dei domini mongoli dell’Asia
Centrale nel corso della metà del sec. XIV venne alla ribalta la figura di
Timur-i lang, destinato ad essere conosciuto in ambito occidentale come
Tamerlano, a seguito della deformazione del nome turco d’origine
1
. La sua
origine è da rintracciarsi all’interno di una tribù turco-mongola, i Barlas, che
aveva prestato servizio per Gengis Khān per poi passare al servizio dell’ulus
Chagatai
2
, finendo col compiere il proprio processo di islamizzazione
1
Al termine turco timur (ferro) si aggiunse presto l’epiteto persiano lang (zoppo) a causa di
un’invalidità causata da una freccia che colpì il sovrano centroasiatico durante una razzia
compiuta nel Sīstān, regione sudorientale dell’Iran dove Tamerlano agiva da mercenario
intorno al 1364.Temür era un nome molto diffuso in Asia centrale: si contano vari altri
signori di stirpe mongola con questo nome, uno dei quali, Toghluq Temür, ebbe a che fare
con l’apparizione di Tamerlano nella storia tra il 1360 e il 1361, anni in cui lo stesso Toghluq
tentò per l’ultima volta di riunificare l’ulus ciagataico. Il nome turco Temür (nei testi
persiani, timur), che significa “ferro”, deriva dalla tradizione preislamica centroasiatica,
nella quale la metallurgia aveva un peso molto significativo. Anche Gengis Khan era stato
chiamato Temujjin (“fabbro”), adottando il nome di un capo tataro sconfitto dal padre al
momento della sua nascita. Cfr. M. BERNARDINI, Il mondo iranico e turco dall’avvento
dell’Islàm all’affermazione dei Safavidi, Torino, Einaudi, 2003, p. 259.
2
L’ulus, o dominio, è il complesso di regioni attribuite ai figli di Gengis Khān dopo la sua
morte. Giova inoltre ricordare che l’ulus Chagatai è stato un khanato dell'impero mongolo
che comprendeva nei suoi confini le terre governate da Chagatai Khān, secondo figlio di
Gengis Khān, e dai suoi diretti discendenti. Inizialmente considerato a tutti gli effetti parte
dell'impero mongolo, in seguito divenne totalmente indipendente. Era composto dai
territori che si estendevano dal fiume Ili, attualmente situabile nel Kazakistan orientale,
passando per la Kashgaria e per la Transoxiana; si estendeva inoltre a sud del lago di Aral,
10
qualche generazione prima di quella di Timur. Suo padre Taragai era il capo
dei clan dei Barlas, mentre sua madre si chiamava Takina Khatun. La sua
famiglia era senza dubbio di origine mongola ma completamente assuefatta
alla cultura ed agli usi turchi, come la grande maggioranza dei piccoli clan
che l’invasione gengiscanide aveva diffuso ovunque ed in particolar modo
in Transoxiana, la regione oltre l’Oxus, corrispondente all’odierno
Uzbekistan. Timur nacque con tutta probabilità a Kish intorno al 1336
3
,
sebbene circa la data ed il luogo esatti della sua venuta al mondo sussistano
molti dubbi, essendo stati stabiliti a posteriori, sulla scorta dello studio di
congiunzioni astrali che avrebbero avuto luogo in concomitanza all’evento
(in virtù delle quali Timur si sarebbe poi fregiato dell’appellativo di
Sāhibqirān, “detentore delle congiunzioni astrali”). Fra tutti i protagonisti
della storia del mondo orientale musulmano, la figura di Timur è rimasta
impressa nell’immaginario collettivo per gli incredibili eccessi che vengono
ascritti al suo operato e alle sue gesta belliche: episodi di violenza inaudita
che gli valsero il dominio di una notevole porzione dell’Asia, dall’India
all’Anatolia e dall’Asia centrale alla Siria. Queste formidabili imprese
vennero attuate nel volgere di tempo di poco più di un trentennio, circa dal
1370, quando salì al trono di Transoxiana e di parte del Khorasan, nell’Iran
settentrionale e in Afghanistan, fino al 1405, anno in cui morì mentre
preparava la campagna per la conquista della Cina, che non ebbe mai
fino ai monti Altaj, territorio di confine tra l'odierna Cina e la Mongolia. L’ulus conservò la
stessa fisionomia dal 1220 fino alla fine del sec. XVII, nonostante la conquista da parte
dell’esercito di Tamerlano della sua metà occidentale, come vedremo. Cfr. J. P. ROUX, La
successione di Gengis Khān, in IDEM, Tamerlano, Milano, Garzanti, 2000, pp. 21-40.
3
Oggi la città ha il nome di Shahr-i Sabz, o la città verde, circa 100 km. a sud di Samarcanda.
Cfr. ivi, p. 41.
11
luogo
4
. L’immagine monumentale che già nel corso della sua vita seppe
edificare di sé portò alla genesi del suo mito che seppe permeare sia
l’Oriente sia l’Occidente, finendo col condizionare dapprima filosofi e
letterati
5
e quindi anche storici e ricercatori, che iniziarono ad occuparsi di
lui sistematicamente fin dai decenni successivi alla sua morte
6
. Le numerose
biografie di Tamerlano, talvolta prive di valore storico, ripropongono in
maniera pedissequa alcune tematiche ricorrenti: le sue qualità di stratega,
la spaventosa efferatezza, la presunta generosità personale, la sua
affermazione, provenendo sostanzialmente dal nulla, sul piano storico
mondiale. In realtà, il condottiero Timur rappresentò nel mondo orientale
un vero e proprio modello per l’impero persiano dei Safavidi (1501-1732),
che identificò in lui il mito della fondazione, per quello indiano dei Moghul
4
Cfr. M. BERNARDINI, Introduzione, in GHIYĀSODDĪ’ALĪ DI YAZD, Le gesta di Tamerlano,
Milano, Mondadori, 2009, pp. VII-XXXIV (VII).
5
Si venne delineando quella che Voegelin chiama, prendendo ad emblema il mito di
Tamerlano come tramandato in area occidentale, una «standardization of an image, the
deliberate selection and distortion of materials and the conscious creation of a myth»,
secondo un modello del quale si servì anche Machiavelli nella composizione del Principe.
Vedi E. VOEGELIN, Machiavelli’s Prince: Background and Formation, in «Review of Politics»,
XIII, 1951, pp. 142-168 (163).
6
Tamerlano ispirò Voltaire, che nel suo Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni del 1756
ne parla diffusamente, in polemica con l’erudito Joseph de Guignes, il quale a sua volta gli
aveva concesso un notevole spazio nella sua monumentale Histoire généraldes Huns (1756).
Protagonista anche del teatro elisabettiano grazie a Christopher Marlowe, che lo propose
agli inizi del Seicento nel suo celebre dramma eponimo, Tamerlano entrò nei libretti
d’opera soprattutto con due composizioni a lui dedicate da Handel e da Vivaldi. Molti
autori hanno scritto opere di varia natura su di lui, nel corso dell’Ottocento e del
Novecento: basterà ricordare Goethe, che lo incluse nel suo West-östlicherDivan basandosi
sull’opera di von Hammer, traduttore del Divan di Háfez in tedesco. La figura di Timur
posta in relazione con quella di Napoleone da parte di Goethe è una modalità consona alla
storiografia filosofica della prima metà del sec. XVIII e finisce col perpetuare il modello
umanistico. Cfr. M. BERNARDINI, Tamerlano, protagonista orientale del Settecento europeo, in
AA.VV., Mappe della letteratura europea e mediterranea. Vol. II. Dal Barocco all’Ottocento,
Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 227-248.
12
(1526-1858), che nacque per opera di un suo discendente, Babor, ed infine
addirittura per l’impero ottomano (1342-1924), che finì per farne una figura
di riferimento della propria storia, nonostante la dura sconfitta subita nella
battaglia di Ancyra del 1402, rimasta impressa nell’immaginario collettivo
a causa della cattura del sultano Bayazid I ad opera di Timur: lo stesso
Maometto II, il sultano che conquistò Costantinopoli nel 1453, si dichiarava
suo emulo, paragonando le proprie gesta a quelle di Timur
7
. La figura di
Timur è entrata a far parte a buon diritto dell’epica iranica, aggiungendosi
ai personaggi dello Shānāme (tradotto come Libro dei Re o anche come Libro
delle Battaglie) di Ferdowsī, compendio della mitologia iranica, con lunghi
brani a lui dedicati
8
. Divenne inoltre oggetto di una vasta letteratura di
orientamento polemico, che lo tratteggiò come la più grande calamità della
storia umana: Ibn ʿArabshāh
9
, autore e viaggiatore arabo che ebbe in sorte
7
Vedi M. BERNARDINI, Introduzione, cit., p. VIII.
8
I sovrani mongoli in Iran diedero nuovo prestigio ed un notevole impulso alla diffusione
dello Shānāme, la cui edizione originale risale circa all’anno 1000 d. C. (nella sua forma
manoscritta, infatti, il Demotte Shāhnāme, realizzato durante il
regno dell'Ilkhanato Sultan Abu Sa'id, è una delle copie più importanti dello Shānāme).
Anche i discendenti della dinastia timuride vollero continuare la tradizione della
divulgazione di manoscritti storio-celebrativi: possedere una copia personale di questo
testo era considerato indispensabile per i membri della famiglia reale. Furono i tre nipoti
di Tamerlano, Bāyson ḡor, Ebrāhim Sol ṭān e Mo ḥammad Juki, a commissionare una nuova
edizione, finemente illustrata, dello Shānāme, che contenesse anche le gesta del loro illustre
predecessore. Cfr. S. BLAIR, Rewriting the History of the Great Mongol Shahnama in
R. HILLEBRAND (ed.), Shahnama: The Visual Language of the Persian Book of Kings, Farnham,
Ashgate Publishing, 2004. pp. 35-38.
9
Ibn ʿArabshāh (1389–1450), che nacque e visse la sua giovinezza a Damasco, testimoniò il
saccheggio della città e si trovò tra i prigionieri che timur portò con sé quando ripartì per
Samarcanda. Una volta liberato si sposò in Transoxiana e quindi a Edirne, dove visse alla
corte del sultano Mehmed I come traduttore ufficiale di testi arabi in persiano e in turco.
Tornò a Damasco oltre vent’anni dopo, per poi trasferirsi definitivamente in Egitto, dove
morì. È l’autore dell’Aja'ib al-Maqdur fi Nawa'ib al-Taymur (traducibile con Storia
meravigliosa del destino e dei saccheggi di Timur), completato a Damasco nel 1435.
13
di essere suo prigioniero, ha lasciato di Timur un ritratto implacabile nella
sua negatività; altri hanno visto nelle sue azioni una riproposizione della
piaga di Gengis Khan, in relazione alle devastazioni prodotte in Asia nel
corso del sec. XIII. Divenuto in seguito emblema del moderno stato
dell’Uzbekistan, Timur è tornato ad essere uno dei soggetti più frequentati
da parte della recente storiografia, conoscendo al contrario una sorta di
processo di santificazione finalizzata alla creazione di un’identità nazionale
che, senza un mito aggregante, sarebbe risultato arduo realizzare. Appare
quindi impossibile da un lato sottrarsi alle suggestioni indotte dal
consolidamento del suo mito e dall’altro, in maniera conseguente, tentare
una ricostruzione della sua figura storica in maniera verosimilmente
rispondente alla verità dei fatti, anche per la totale disomogeneità delle
fonti. Riscontriamo infatti che le fonti di origine persiana, come quella delle
Gesta di Tamerlano di Ghiyāsoddīn, approfondite in uno dei prossimi
paragrafi, lo esaltano in modalità encomiastica, mentre i suoi avversari,
principalmente arabi, turchi, e indiani, lo denigrano con estrema durezza.
Informazioni ancora meno omogenee provengono dalle fonti occidentali,
come gli scritti dell’ambasciatore castigliano Ruy González de Clávijo,
autore di un lungo memoriale relativo agli ultimi anni di vita del khān, o
quelli del mercante senese Beltramo Mignanelli, che lo incontrò in territorio
mamelucco e lasciò una testimonianza, poi ripresa da Poggio Bracciolini,
che contribuì a creare un mito così potente da farlo ritrarre all’interno dello
scenario della Sesta età del mondo nel ciclo di affreschi della sala theatri di
14
palazzo Orsini a Monte Giordano a Roma
10
. Questi resoconti sono stati
utilizzati dagli studiosi come prezioso elemento di verifica degli elementi
estrapolabili dalle fonti orientali, nelle quali è evidente una sproporzione
fra i dati collegati alla fase imperiale di Timur (quella che lo vide
sottomettere il potente regno toghluq dell’India nel 1398, la Siria mamelucca
nel 1400, il nascente impero ottomano nel 1402) e i suoi esordi, molto oscuri
e per alcuni aspetti inconfessabili, come li ha definiti uno dei suoi massimi
studiosi, Jean Aubin
11
. Queste due fasi storiografiche e cronachistiche, così
riassunte in maniera estremamente sommaria, differiscono notevolmente
una dall’altra. Per meglio comprendere l’aspetto dell’interpretazione delle
fonti alla luce delle scelte e del profilo psicologico del personaggio stesso,
risulta indispensabile definire il quadro della storia centro-asiatica verso la
prima metà del sec. XIV, quando Timur fece la sua apparizione nella storia
della Transoxiana, che come abbiamo visto è la regione compresa tra i fiumi
Oxus e Iassarte (oggi Amu Darya e Sir Darya), attualmente inglobata
nell’Uzbekistan.
10
Eseguito da Masolino da Panicale per il cardinale Giordano Orsini tra il 1430 ed il 1432,
il ciclo di affreschi, raffigurante le sei età della storia dell’umanità attraverso le immagini
degli uomini più illustri da Adamo a Tamerlano, secondo uno schema riconducibile allo
Speculum istoriale di Vincenzo di Beauvais, andò distrutto probabilmente nel 1485, ma ne
restano testimonianze scritte e figurative in una serie di codici che ne hanno permesso la
ricostruzione iconografica e artistica. Cfr. A. PAVAN, Introno agli Statuti di Roma del 1363,
in «Bollettino della Deputazione di storia patria per l'Umbria», n. 112 (2015), pp. 367-388
(373).
11
Cfr. J. AUBIN, L’Ethnogénès des Qaraunas, in « Turcica », vol. 1, 1969, pp. 65-94.
15
1.2 L’Asia islamica nel sec. XIV e la comparsa di Timur
Nei primi anni del sec. XIV le quattro grandi entità statali sorte in Asia dopo
la morte di Gengis Khan nel 1227, gli ulus o domini, ognuno di essi
designato col nome di uno dei quattro figli del sovrano mongolo, avevano
perso il singolare carattere unitario che aveva fatto sì che Marco Polo
attraversasse l’intera Asia senza trovarsi quasi mai davanti ad una linea di
frontiera. Costantemente tra di loro, gli ulus avevano patito un ulteriore
processo di frammentazione, che aveva condotto alla nascita di numerosi
stati di piccola e media entità
12
. Il khanato dell’Orda d’Oro, detenuto dai
discendenti di Jöchi, primogenito di Gengis Khan premorto al padre nel
1227, manteneva il controllo delle steppe dell’Asia centrale, nonostante
molte tensioni al proprio interno. L’ulus di Ögödey, il terzo figlio di Gengis
Khan morto nel 1241, era stato progressivamente incorporato dagli altri
ulus dopo un periodo iniziale di supremazia sull’intero impero; venne in
particolar modo soppiantato dai discendenti dell’ultimogenito Tuluy, che
aveva lasciato al figlio Möngka il controllo di un vasto impero unitario,
comprendente la Cina e la Persia. Due fratelli di Möngka, Hulagu e
Qubilay, fondarono rispettivamente lo stato ilkhanide e lo stato yüan. Gli
Ilkhanidi governarono la Persia, inglobando i resti del califfato abbaside,
venuto meno in maniera definitiva nel 1258, e assoggettando l’Anatolia
12
Vedi M. BERNARDINI, Introduzione, cit., p. x.
16
come stato vassallo. Il regno ilkhanide durò fino al 1335, anno in cui morì
l’ultimo khān, Abū Sa’īd, dando luogo ad un’accelerazione dell’emersione
di svariate potenze locali nel territorio anatolico ed iraniano
13
.
L’impero Yüan, in particolare, si estendeva su tutto il territorio di Cina e
Mongolia, e durante il regno di Qubilay Khan se ne registrò un tentativo di
espansione in Giappone e nel Sudest asiatico; tuttavia, nel 1368 venne
soppresso e la Cina venne controllata, da quel momento, dalla dinastia
nazionale dei Ming. Ai discendenti del secondogenito di Gengis Khan,
Chagatai, morto a sua volta prima del padre nel 1227, spettò una vasta
parte dell’Asia centrale, che includeva la Kashgharia, l’attuale Sinkiang
cinese, i domini a est dei laghi Balkash e Ïssïk Köle la Transoxiana.
Caratterizzato da una posizione geografica strategica in relazione ai dominî
mongoli, l’ulus ciagataico aveva finito per trovarsi in conflitto, in maniera
progressiva ed inesorabile, con tutti i propri confinanti, animato da una
volontà espansiva fiera ed indomabile.
In seguito, il khānato si divise in due grandi regni all’interno dello stesso
ulus: quello orientale, che aveva come fulcro la Kashgharia, riportato nelle
fonti musulmane col nome di Moghulestan, e quello occidentale, incentrato
sostanzialmente sul territorio della Transoxiana e designato con
l’espressione araba Ma wara an-nahr, “ciò che è dietro al fiume”. In questo
13
Cfr. L. KOMAROFF, Beyond the Legacy of Genghis Khan, Leiden, Brill, 2012, p. 243.
17
particolare periodo l’ulus ciagataico subì una massiccia conversione
all’Islàm, sotto Tarmashirin Khan (1326-1334), che il nome musulmano di
Ala-ad-din: analogamente a quanto accadde a Taliku, uno dei suoi
predecessori, la sua conversione non venne accettata positivamente dalla
nobiltà mongola, la cui maggioranza praticava il buddhismo e il tengrismo ,
culto quest’ultimo caratterizzato da una sorta di sincretismo tra elementi
dello sciamanesimo, dell’animismo, del totemismo, e dell’adorazione
idolatrica degli antenati.
14
. Le fonti musulmane ne esaltano lo zelo nel
diffondere la religione islamica nelle regioni interne dell'Asia; va
sottolineato inoltre che la conversione all’Islam dell’ulus ciagataico faceva
seguito, qualche decennio dopo, a quella dell’Orda d’Oro al tempo del khān
Berke (1259) e a quella successiva degli Ilkhanidi (1295) al tempo del khān
Ghazan
15
. Tale processo generalizzato di conversione delle popolazioni
mongole ebbe inizio in maniera piuttosto moderata e non troppo invasiva,
molto spesso condotto in maniera strumentale, con tutta l’attenzione del
caso a non compromettere in alcun modo il rigido e severo sistema giuridico
che aveva storicamente rappresentato la solida base della colonizzazione
mongola in Iran e in Asia centrale. La yasa, il codice stabilito al tempo di
14
Cfr. J. P. ROUX, op. cit., p. 36.
15
Cfr. a questo proposito D. MORGAN, Breve storia dei mongoli (trad. di Barbara Massari),
Milano, Mondadori, 1997, pp. 142-3.