57
2.2 Le popolazioni somale meridionali: i Bagiuni e i Goscia
Nel presente paragrafo, concentrerò l’attenzione sull’analisi di due popolazioni
somale meridionali, ossia i Bagiuni e i Goscia.
Da un punto di vista antropogeografico, i Bagiuni costituiscono una popolazione con
caratteristiche ben distinte; essa è articolata fondamentalmente in due gruppi principali:
i Bagiuni di terra, che sono localizzati a Chisimaio e, in più piccola parte, a
Mombasa, Lamu e Chilua; e i Bagiuni di mare, che sono stanziati nelle isole Dunda,
arcipelago situato nei pressi della costa somala tra Chisimaio e Bur Gao
127
.
In merito all’origine dei Bagiuni, studi scientifici forniscono un’ampia gamma di
informazioni diversificate, che è indispensabile conoscere al fine comprendere a fondo
la storia di tale popolazione.
Secondo una tradizione genealogica, i Bagiuni sono legati ai Somali Gherra; secondo
altri autori invece, tale legame genealogico è solo frutto di un’interpretazione erronea
del fatto che i Bagiuni, nella fase finale del loro decadimento, si unirono ai
Gherra e assunsero, così facendo, diritti e doveri simili a questa popolazione,
analoghi a quelli ascrivibili ai legami di sangue
128
.
Inoltre, in generale, alcuni studiosi, in particolare Puccioni e Conti Rossini, tendono
ad assimilare i Bagiuni agli Arabi coi quali sarebbero legati da legami di sangue
129
.
127
R. Parenti, I Bagiuni: contributo alla conoscenza delle popolazioni della Somalia meridionale, in
«Rassegna di studi etiopici», Istituto per l’Oriente C. A. Nallino, vol. 5, 1946, p. 156.
128
Ivi, p. 156.
129
R. Parenti, I Bagiuni: contributo alla conoscenza delle popolazioni della Somalia meridionale, cit., p.
156.
58
Ancora, in base ad alcune tradizioni riportate da Elliot, i Bagiuni sarebbero discendenti
dei Banì Nufayl, i quali si stanziarono sulla costa e le isole Dunda durante la seconda
metà del Seicento ed ai quali sono attribuiti i resti degli edifici che si trovano nelle isole.
Nel 1935, in seguito alla raccolta di una cospicua quantità di dati sui Bagiuni di mare
e sui Bagiuni di terra, lo studioso Puccioni, all’interno delle sue produzioni scientifiche,
descriveva le caratteristiche principali ed etno-antropologiche di tale popolazione, seppur
in maniera non dettagliata.
Tuttavia, i suoi studi sono risultati fondamentali per compierne una descrizione più
completa in tempi successivi, dopo la morte dell’autore.
Dal momento che le unioni matrimoniali tra Bagiuni di mare e Bagiuni di terra non si
verificavano in maniera ordinaria, i componenti di ciascun gruppo sono stati studiati
singolarmente e successivamente posti a confronto
130
.
I Bagiuni di mare costituivano un piccolo gruppo, numericamente scarno, forse perché
in via di estinzione o perché era in corso un impoverimento determinato dal declino del
commercio che indusse molti di essi ad emigrare sulla terraferma e, perciò, nelle isole
non rimase che la parte minore e “meno intraprendente” del gruppo.
Stando ad un certo filone di ricerca, i Bagiuni di mare erano nel 1935 circa un
centinaio, mentre secondo altre ricerche, il loro numero si aggirava all’incirca sui
novecento, distribuiti principalmente in tre isole dell’Arcipelago, nello specifico Coiama,
Ciuai, Ciula
131
. Ciò è testimoniato dal ritrovamento di numerosi resti, rovine e tombe che
riflettono la decadenza di una civiltà che una volta doveva essere stata florida, ma che
aveva attraversato un declino repentino.
I Bagiuni sono di origine mista araba, bantu, somala e forse malese e la loro lingua
madre è il kibajuni, un dialetto dello swahili
132
.
Sulla base degli studi di Puccioni, i Bagiuni di mare erano tutti discendenti da genitori
entrambi isolani e provenienti, coppia per coppia, dalla stessa isola; per lo più erano
marinai e, raramente, anche agricoltori.
130
Ivi, p. 158.
131
Le prime ricerche a cui mi riferisco sono quelle di Puccioni, mentre le seconde sono quelle di Zoli. Per
approfondimento rimando a: Ivi, p. 159.
132
L. Cassanelli, Victims and Vulnerable Groups in Southern Somalia, Immigration and Refugee Board,
Ottawa, 1995.
59
Occorre premettere che gli studi di Puccioni fanno riferimento al classico filone
dell’antropologia fisica – volto ad indagare le caratteristiche fisiche e biologiche
dell’uomo – ormai ampiamente superato. In questa sede, introduco un richiamo agli studi
del suddetto autore solo a titolo meramente esemplificativo, per rendere edotto il lettore
dei progressi che successivamente sono stati compiuti in ambito antropologico.
Figura 2: Bagiuni di mare
133
Secondo gli studi citati, per quanto riguarda i Bagiuni di terra, sembra che essi
discendessero dai Bagiuni di mare, i quali, come poc’anzi esplicitato, sarebbero stati
costretti dalla decadenza del commercio marittimo a trovar mezzi di vita sulla terra ferma.
133
Fonte: Ivi, p. 160.
60
Essi costituiscono gruppi dispersi in vari centri della costa somala meridionale e del
Kenya, presenti nell’area che va da Chisimaio a Mombasa
134
.
Figura 3: Bagiuni di terra
135
La città di Chisimaio fu fondata nel 1871 dal Sultanato di Zanzibar e contava 5640
abitanti, per lo più somali, arabi e, in piccola parte Bagiuni, con la presenza di altre piccole
minoranze, tra le quali gli italiani
136
.
134
Ivi, p. 169.
135
Ivi, p. 160.
136
Ibidem.
61
L’antropologia fisica – il cui approccio non è condiviso nella presente analisi – in
un’ottica di confronto fra i Bagiuni di mare e quelli di terra, tende a distinguere i due
gruppi in modo netto rispetto alle altre popolazioni della Somalia meridionale in ragione
di alcuni caratteri peculiari, tra i quali: la forma globulare del contorno cefalico; la forma
ondulata dei capelli; il complesso dei caratteri pigmentari; la morfologia del viso; tale
ultimo carattere determina una piccola differenza fra i due gruppi, dato che fra i Bagiuni
di mare è possibile constatare morfologie più affini ai caratteri europoidali, mentre, fra i
Bagiuni di terra è più frequente trovare morfologie più rozze, con forma della radice
nasale stretta e profonda, base del naso larga con solchi nasolabiali accentuati.
L’altro gruppo etnico che mi accingo a descrivere è quello dei Goscia: così è definita,
da oltre un secolo, la popolazione insediata nella zona territoriale che oggi viene definita
Somalia meridionale, di origine Bantu e vicina alle rive del fiume Giuba.
La lingua parlata da tale collettività è il dialetto somalo definito maay
137
. Tale dialetto
è così definito per la tipica usanza di utilizzare come desinenza finale per molte parole
somale il dittongo “ai” che viene di sovente aggiunto. Tale dialetto contiene al suo interno
un complesso di parole derivanti dal kiswahili, nonché da altre lingue di origine oromo.
Alcuni studiosi li definirono, in una fase iniziale, “Wagoscia” dove wa, abbreviazione
di watu, significa popolazione e goscia significa foresta, ovvero genti della foresta
138
.
Diversi documenti diplomatici, nonché relazioni di spedizioni geografiche risalenti
alla seconda metà dell’Ottocento, che possono essere considerati, senza dubbio, le prime
fonti scritte europee ed attendibili sull’argomento, individuano gran parte della
popolazione sulle rive del fiume Giuba a poche miglia a nord della sua foce con il
seguente nome Waboni o Watoro
139
.
È qui che gli schiavi fuggitivi si nascondevano e creavano le loro comunità libere. La
foresta forniva un rifugio e, grazie all’abbondanza di terreni coltivabili, una possibilità di
vita come agricoltori. Il nome della loro area residenziale divenne il nome del loro gruppo.
137
F. Declich, I Goscia della regione del medio giuba nella Somalia meridionale. Un gruppo etnico di
origine bantu, in «Rivista Trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italo-africano», Istituto Italo-
Africano, Anno XLII, 4, 1987, p. 572.
138
«I Wagoscia» – scrive G. Pesenti (1929: 105) parafrasando E. Carcofaro – «ossia genti delle foreste (da
wa, in kisuahili abbreviazione di watu = popolazione e goscia = foresta) sono venuti ad abitare la regione
un centinaio d’anni fa, dopo la cacciata degli Aulun, già sovrappostisi ai Galla da parte di Tunni. I Tunni,
dediti all’agricoltura, mandarono loro schiavi Suaheli e Galla a coltivare la vasta regione. A questi si
aggiunsero più tardi , schiavi fuggitivi dell’Uebi Scebeli e, in seguito all’abolizione della schiavitù, molti
altri liberti». Ivi, p. 573.
139
Ivi, p. 573.
62
Tuttavia, in somalo gli ex schiavi di origine africana orientale erano conosciuti anche
come Jareer. Si tratta di un termine che si riferisce ai capelli “duri” degli ex-schiavi
africani in contrasto con i capelli “morbidi” dei somali presumibilmente più “arabi”
140
.
Negli anni Novanta, i Goscia sono diventati noti anche come Somali-Bantu, poiché
alcuni di loro hanno conservato la lingua bantu originale e altri aspetti della loro eredità
africana. Anche i parlanti bantu, che non erano stati portati in Somalia come schiavi, ma
che risiedevano nell’area prima dell’arrivo dei gruppi pastorali-nomadi, sono stati inclusi
in questa categoria. I Goscia non si mescolavano con le popolazioni pastorali-nomadi
somale. Una volta che la schiavitù fu ufficialmente abolita dagli italiani nella Somalia
meridionale nel 1904, molti schiavi liberati si unirono alle comunità Goscia esistenti.
Nonostante l’abolizione della schiavitù, i Goscia continuavano a essere considerati di
status inferiore in quanto ex schiavi “neri”
141
.
Lo status di inferiorità dei Goscia è stato perpetuato in epoca postcoloniale dalle élite
politiche somale. Formalmente somali, erano di fatto esclusi dal potere politico e dalla
maggior parte delle risorse statali. Tuttavia, hanno prosperato come agricoltori fino a
quando lo Stato non ha introdotto la riforma agraria e i programmi di sviluppo rurale a
metà degli anni Settanta. Con l’istituzione di un complesso sistema di registrazione dei
titoli di proprietà terriera, molti agricoltori Goscia furono disconosciuti e i membri dei
clan pastorali-nomadi, e in particolare le élite urbane di Mogadiscio, divennero i
proprietari terrieri formali
142
. I Goscia continuarono a lavorare la terra, ma sempre più
come agricoltori dipendenti.
In base ai documenti diplomatici e alle relazioni di spedizioni geografiche sopra
menzionati, il termine toro, in lingua swahili, vuol dire “schiavo fuggitivo”; watoro
rappresenta, dunque, il plurale. Successivamente fu scelto il termine “Uagoscia”, scritto
di sovente come Wagoscia o Wa Goscia, che significa, tradotto letteralmente, gente della
terra malsana; il territorio in analisi probabilmente fu definito in tal modo perché spesso
soggetto ad inondazioni determinate dalle piene del fiume, e anche perché si tratta di una
zona caratterizzata dalla presenza di malattie.
140
F. Declich, I bantu della Somalia: etnogenesi e rituali mviko, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 142.
141
C. Besteman, The Invention of Gosha: Slavery, Colonialism and Stigma in Somali History, in A. J.
Ahmed, The Invention of Somalia, Red Sea Press, Lawrenceville, 1995, pp. 43-62.
142
C. Besteman, Unraveling Somalia. Race, Violence and the Legacy of Slavery, University of
Pennsylvania Press, Philadelphia, 1999.
63
Secondo alcuni, il termine Uagoscia deriva da “gol”, nome attribuito dai Somali alla
mosca tzè, insetto presente nell’area del Giuba abitata dai Goscia. Dunque, è immediato
comprendere come il termine Goscia sia dispregiativo, ideato da soggetti esterni alla zona
in questione.
Gran parte degli abitanti attuali della Goscia vi giunsero nel periodo storico ricompreso
fra gli inizi dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; la principale causa che spinse tali
popoli a raggiungere la zona considerata fu la necessità di fuggire dalla schiavitù dei
Somali.
Considerato anche tale ultimo elemento, è stato asserito che il termine Uagoscia,
utilizzato per riferirsi a gruppi etnici molto variegati, è da ricondurre non soltanto al
disprezzo nei confronti della suddetta popolazione provato da soggetti esterni rispetto a
quei luoghi, ma anche alla difficoltà di individuare per le numerose etnie della Goscia un
nome adatto (non necessariamente appartenente alle tradizioni delle varie etnie)
143
.
Durante il periodo coloniale italiano tali gruppi furono identificati con un termine
nuovo, ovvero “oggiè”, il cui significato è “liberto nato sul luogo”
144
. Tutt’oggi il termine
oggiè è un nome molto diffuso; tale termine dispregiativo fu introdotto dagli italiani per
definire i Goscia e derivava dalla parola oggi: l’intento era quello di sottolineare la loro
predisposizione caratteriale a non preoccuparsi del futuro, ma unicamente del presente,
del quotidiano
145
.
La Goscia è una regione territoriale che attualmente non corrisponde a nessuna
suddivisione amministrativa della Repubblica Democratica Somala. All’inizio del
Novecento si definiva Goscia la lunga striscia di territorio adiacente alle due rive del
fiume Giuba: «A partire dalla foce, fino a verso Mfudo che si trovava a «circa 150
chilometri dal mare (M. AA. EE., 1911: 627)» essa era caratterizzata da una folta
vegetazione tropicale e da condizioni ecoambientali molto favorevoli allo sviluppo
agricolo»
146
.
Vi sono stati periodi storici in cui la denominazione Goscia ha assunto un significato
di carattere storico-politico. Alla fine dell’Ottocento, ad esempio, era considerato Stato
143
F. Declich, I Goscia della regione del medio giuba nella Somalia meridionale. Un gruppo etnico di
origine bantu, cit., p. 575.
144
Ibidem.
145
Ibidem.
146
Ivi, p. 577.
64
di Goscia l’area territoriale sulla quale vigeva il sultanato di Nassib Bunto. Era, in
particolare, quell’area situata lungo la riva destra del fiume Giuba, a distanza di poche
miglia dalla foce fino oltre Lamadat
147
. Il distretto di Goscia contava quarantamila abitanti
e si estendeva da Mangomo fino a Sorori.
Risalente al 1941 è, invece, una definizione della regione più descrittiva, secondo
criteri geografici ed ecologici. In base a tale definizione, la Goscia iniziava a nord in
corrispondenza del villaggio di Curae e terminava a sud con la piana di Torda; si
estendeva su ambedue le sponde del fiume in una striscia di ampiezza variabile, da
qualche centinaio di chilometri a nord a vari chilometri più a sud.
Complessivamente la superficie giungeva complessivamente a 200 kmq e
differenziandosi in misura rilevante rispetto alle aree limitrofe in ragione delle sue
peculiarità fisico-ambientali idonee a favorire lo sviluppo agricolo: terreni molto fertili,
depressi rispetto al livello di massima piena del fiume, definiti desceck; piene che almeno
una volta all’anno permettevano l’inondazione delle terre agricole; e, infine, piogge in
abbondanza
148
.
Le rive del fiume Giuba si contraddistinguevano per una folta vegetazione tropicale in
cui vivevano animali selvaggi e, inoltre, per la presenza di gravi malattie come la malaria
per l’uomo e la tripanosmiasi per gli animali.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento alcuni tratti della folta vegetazione
parallela al fiume furono disboscati da gruppi bantu e da liberti che abitavano quella zona,
al fine di trarne coltivazioni necessarie alla loro sopravvivenza; la foresta per i bantu
rappresentava una naturale protezione rispetto alle possibili aggressioni provenienti
dall’esterno, in particolare dalle popolazioni somale, e anche nei confronti di probabili
intrusioni del loro bestiame.
Successivamente, nel contesto delle politiche di sviluppo del Basso Giuba e del
Jubaland (territori di dominio italiano e inglese), alcune aree lungo il fiume furono date
in concessione a singoli o a società per essere colonizzate. Ciò produsse come
conseguenza un disboscamento funzionale alla costituzione di aziende agricole.
Fino al 1975, ad ogni modo, il disboscamento per scopi agricoli non aveva ancora
prodotto conseguenze così drammatiche. Nel bacino del Giuba, che si estende fino ai
147
Ibidem.
148
Ibidem.
65
275.000 kmq di terreno non coltivabile per intero, soltanto 4.500 ettari erano stati
utilizzati per le colture semi-industriali e di banane, cotone e oleaginose.
Il disboscamento lungo la riva destra del fiume di circa 6.500 ettari, cominciato nel
1977, determina una modificazione radicale delle caratteristiche eco ambientali. In
quell’anno si installò nella zona il Juba Sugar Project (J.S.P.), ovvero un programma
britannico finalizzato alla costruzione di uno zuccherificio, che occupò progressivamente
tutte le aree per l’utilizzo industriale della canna da zucchero. Il progetto in questione
aveva come obiettivo la coltivazione di 8.195 ettari di terreni in precedenza sfruttati
parzialmente dagli indigeni della zona.
Volgendo lo sguardo alla riva sinistra del fiume, tra il 1972 e il 1973, ebbero inizio le
attività del Fanole Irrigation Project per la costruzione di una diga funzionale alla
deviazione delle acque del Giuba all’altezza del villaggio di Malende. In base al progetto,
era prevista la costruzione di 52 chilometri di canali per l’irrigazione, nonché
l’installazione di un’azienda agricola statale per la produzione del riso su un territorio
vasto 8.199 ettari
149
.
2.3 Il ruolo svolto dalle popolazioni autoctone durante l’occupazione italiana in
Somalia
Nella memoria pubblica e negli studi storici italiani regna da tempo il più profondo
silenzio sui possibili crimini commessi dall’Italia nei suoi territori coloniali.
La finalità che mi propongo, nell’elaborazione delle seguenti pagine, è quella di
riflettere sulle ragioni di questo silenzio attraverso un esame delle principali questioni
storiografiche e una rassegna dei pochi studi disponibili sull’argomento
150
.
Come già ho avuto modo di anticipare nella prima parte della trattazione, la mia
prospettiva è pienamente in linea con quella letteratura tesa a sottolineare come il tema
del colonialismo italiano non sia stato sviluppato nella maniera più opportuna
151
. Ciò si
evince in modo chiaro se si elabora una comparazione con altri eventi che hanno
149
Ivi, p. 578.
150
A. Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze, in «Italia
Contemporanea», 212, 1998, pp. 589-603. G. Rochat, Il colonialismo italiano, cit. N. Labanca,
L’Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002.
151
A. Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze, cit.
66
caratterizzato la storia d’Italia, i quali hanno goduto, invece, di un’attenzione importante,
nella mia ottica eccessiva.
Le ragioni sottese a tale disinteresse per il fenomeno in questione, a mio avviso di
importanza capitale, sono diverse e non ancora indagate approfonditamente
152
.
La ragione principale va ricercata nel comportamento della classe dirigente, la quale,
dopo la firma del Trattato di Parigi, del 10 febbraio 1947 – che decretava per l’Italia la
fine del possedimento delle colonie – non ha voluto o saputo instaurare un proficuo
dibattito sul colonialismo.
Tale dibattito avrebbe dovuto rilevare, con trasparenza e precisione, gli aspetti positivi
e negativi, i principi e i valori da conservare, nonché i miti e le leggende da arginare.
Tale dibattito, se sviluppato sulla base di criteri scientifici e supportato da adeguati
mezzi di comunicazione, avrebbe certamente indotto gli storici a condividere il loro
prezioso contributo ed avrebbe posto termine a molte e inutili questioni, a partire da quella
relativa ai gas in Etiopia, per terminare con quella relativa agli italiani “brava gente”
153
.
Non solo non vi è stata chiarezza da parte del governo italiano, ma non è stato neppure
impedito che le istituzioni statali ponessero in essere azioni nella direzione opposta, con
il chiaro obiettivo di ostacolare l’emersione della verità. Basti pensare al poderoso sforzo
di mistificazione attuato dal Ministero degli Affari esteri attraverso la pubblicazione, in
cinquanta volumi, dell’opera L’Italia in Africa
154
.
Secondo i promotori di tale iniziativa, questa collana di opere sull’Africa avrebbe
dovuto elaborare un resoconto della presenza italiana nelle colonie dell’Africa orientale
e settentrionale. Si tratta, invece, di un resoconto falsato, la cui finalità è esclusivamente
quella di sottolineare con enfasi i meriti della colonizzazione italiana e di porre in rilievo
gli aspetti che la differenziano rispetto ai colonialismi della medesima epoca.
D’altronde, non bisogna trascurare il fatto che il comitato che ha provveduto alla
gestione dell’opera era costituito da ventiquattro membri, di cui quindici erano stati in
passato governatori di colonia o altri funzionari del disciolto ministero dell’Africa italiana
e gli altri membri erano studiosi che sostenevano in maniera veemente il colonialismo.
152
Ivi, p. 590.
153
Ibidem.
154
Ibidem.
67
L’opera realizzata dal suddetto comitato, insediato da Giuseppe Brusasca, non poteva
che essere apologetica
155
. L’operato del comitato tendeva essenzialmente a celare o,
addirittura, a smentire le aberrazioni commesse nel corso delle guerre di conquista, le
gravose conseguenze subite dalle popolazioni locali, l’intento di sradicare la loro identità
nazionale e culturale oppure, come avvenne in alcuni casi, di eliminarle fisicamente.
Non vi è alcun riferimento, infatti, in nessuno dei cinquanta volumi che compongono
l’opera L’Italia in Africa, al consistente utilizzo delle armi chimiche in Etiopia nel periodo
compreso fra il 1935 e il 1940
156
. Nessun riferimento, peraltro, alla costituzione di campi
di concentramento in Libia, in Somalia e in Eritrea.
L’assenza di un dibattito sul colonialismo ha determinato come conseguenza, dunque,
l’estinzione delle colpe coloniali. A distanza di centotrentasette anni dallo sbarco del
colonnello Tancredi Saletta a Massaua, a centoundici dall’invasione della Libia, a
ottantasette dall’aggressione fascista dell’Etiopia, il nostro Paese non è ancora in grado
di abbattere i miti e le leggende che si sono sviluppati nel secolo scorso e nei primi tre
decenni del ventesimo secolo, mentre una significativa minoranza di reduci, di nostalgici,
di revisionisti, li considera e li difende con impegno e sentimento.
Un’altra conseguenza dell’ostinata lettura in chiave celebrativa delle imprese condotte
in Africa è l’assoluzione degli italiani che si sono resi responsabili di crimini (di guerra?)
nel corso delle campagne di riconquista della Libia nel periodo compreso fra il 1922 e il
1932, nelle offensive rivolte ai guerriglieri somali della Migiurtinia, fra il 1926 e il 1928,
nella guerra contro l’Etiopia, fra il 1935 e il 1936 e, infine, nelle azioni intraprese
(rivelatesi fallimentari) al fine di abbattere la resistenza dei partigiani etiopici fra 1936 e
il 1941
157
.
Ritengo opportuno, in questa sede, aprire una breve parentesi sulla definizione di
crimine di guerra. Al riguardo, occorre innanzitutto premettere che fin dall’epoca
medievale, le leggi europee sulla guerra hanno riguardato i conflitti tra cristiani, non quelli
155
Ivi, p. 591. Giuseppe Brusasca è stato un avvocato e politico italiano, membro del consiglio nazionale
della Democrazia Cristiana dal 1945 al 1947 e della Consulta Nazionale dal 1945 al 1946, nel mese di
giugno 1946 viene eletto all’Assemblea Costituente. Dopo essere stato nominato Sottosegretario
all’Industria e commercio durante il secondo Governo De Gasperi, il 18 ottobre 1946 viene nominato
Sottosegretario agli Affari Esteri nel medesimo Governo. Resta Sottosegretario di Stato per gli affari esteri
fino al luglio 1951. A partire dal 1951 ricopre la carica di sottosegretario al ministero dell’Africa
Italiana nel penultimo dicastero De Gasperi.
https://www.senato.it/leg/02/BGT/Schede/Attsen/00006606.htm
156
Ibidem.
157
Ibidem.
68
che coinvolgevano i non cristiani. Di conseguenza, questi ultimi sono rimasti al di fuori
di qualsiasi regolamentazione giuridica.
In ragione di ciò, sia dal punto di vista teorico, sia dal punto di vista formale, i crimini
di guerra sulla frontiera coloniale rimangono un argomento di discussione. Ciò sembra
essere confermato dal fatto che le leggi sulla guerra fanno parte del corpo di leggi
internazionali che regolano le relazioni tra le nazioni. Poiché le guerre di espansione
coloniale erano spesso condotte da Stati europei contro entità o istituzioni non
riconosciute come Stati dalle potenze europee, tali guerre potevano ignorare la necessità
di regole, o almeno di quelle che riguardavano il comportamento delle forze armate
bianche nei confronti di quelle non bianche, non protette da alcuno Stato riconosciuto
come tale.
Vale la pena, quindi, di considerare se tali atti potessero essere percepiti all’epoca
come crimini di guerra.
Il problema è amplificato dal fatto che molti di quegli atti, senza dubbio criminali, non
sono stati commessi durante guerre di conquista, ma durante l’ordinaria amministrazione
coloniale o l’occupazione del territorio. Questo complica la loro collocazione nella
categoria dei crimini di guerra. Per aiutare a risolvere la questione, è stata introdotta la
categoria di genocidio.
Sotto il profilo politico e culturale, la Conferenza mondiale contro il razzismo di
Durban del 2001 è stata estremamente importante per la profonda attenzione che ha
riservato a questo ambito di ricerca.
La conferenza ha riesaminato i problemi del passato coloniale ponendo l’attenzione
sui risarcimenti che le nazioni post-coloniali ritengono siano loro dovuti da parte degli ex
Stati coloniali europei. Sono stati discussi i crimini commessi dalle nazioni occidentali e
la necessità di risarcire le popolazioni vittime e le loro nazioni, ma questi argomenti sono
stati posti in secondo piano dallo spirito di compromesso che ha ispirato la relazione
conclusiva della conferenza
158
. Prima o poi, però, torneranno certamente sotto
l’attenzione internazionale.
158
Il Parlamento Europeo: «Prende atto del fatto che l’Unione europea ha approvato nella dichiarazione
finale sulla schiavitù, la tratta degli schiavi e il colonialismo formulazioni che andavano al di là di quanto
inizialmente previsto dalla posizione comune dell’UE, evitando nel contempo la questione dei risarcimenti
a favore delle vittime di queste pratiche». Parlamento Europeo:
https://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+TA+P5-TA-2001-
0501+0+DOC+XML+V0//IT
69
Figura 4: Italia Libia Africa orientale nei confini 1914
159
Tornando al tema concernente l’assoluzione delle colpe coloniali, che si associa, tra
l’altro, con quello della riabilitazione dei soggetti che si sono resi protagonisti delle
imprese sul territorio africano, Del Boca osserva che i principali archivi contenenti i
documenti coloniali, diplomatici e militari sono stati per lungo tempo utilizzati, quasi in
159
Fonte immagine: G. Rochat, Il colonialismo italiano, cit., p. 10.
70
maniera esclusiva, dagli ambienti della vecchia lobby colonialista, certamente non
propensa a denunciare le azioni indegne poste in essere durante il periodo coloniale
160
.
Tra il periodo liberale e quello fascista, il razzismo coloniale italiano si sviluppò
soprattutto in riferimento al principio della discendenza che corrispondeva a un
progressivo arretramento del concetto di “grado di civiltà”
161
; la razza era un concetto
predominante, e ciò andava a discapito del processo di civilizzazione.
L’antropologia fisica, soprattutto a partire dal 1930, intendeva dar prova della
separazione degli italiani da camiti e semiti e la loro appartenenza al ceppo ariano-
nordico; nel contempo, rivendicava l’esistenza di una razza italiana con caratteristiche
proprie e diversa rispetto a quella germanica.
Si assisteva così in modo definitivo al superamento di quella teoria secondo cui almeno
una parte degli italiani era stata in passato messa in relazione al ceppo mediterraneo nel
quale erano contemplati anche i popoli dell’Africa settentrionale.
Alla base del razzismo coloniale, vi era la convinzione che l’Homo Sapiens fosse
diviso in due gruppi razziali con diversi caratteri fenotipici, e che le razze fossero
strutturate secondo un rapporto di tipo gerarchico. In base a tale gerarchia, i bianchi, in
quanto razza più evoluta, erano posti al vertice: «Da qui il razzismo concepito come
strumento di dominio e sottomissione di un gruppo ritenuto inferiore sulla base
dell’appartenenza fisica, o di altre presunte «differenze naturali», a un gruppo di razza
ritenuto superiore»
162
.
Il razzismo coloniale costituì il fondamento del cosiddetto processo di
razzializzazione, riconducibile a quel complesso di politiche e di pratiche volte a
connotare le popolazioni colonizzate come di razze inferiori e distinte
163
.
Le popolazioni colonizzate furono «razzializzate in maniere specifiche che segnarono
e riprodussero in forme variabili nel tempo le relazioni ineguali»
164
mediante le quali gli
europei giunsero all’imposizione dell’ordine coloniale.
Questi processi si configurarono nel momento in cui si presentò per i colonizzatori la
necessità di condividere lo spazio sociale chi era stato colonizzato: la razza contribuiva a
160
A. Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze, cit., pp. 591-592.
161
A. M. Morone, Gli italo-somali e l’eredità del colonialismo, in «Contemporanea», 2, 2018, p. 196.
162
Ivi, p. 196.
163
Ibidem.
164
Ibidem.
71
riaffermare la distinzione sussistente fra colonizzatori e colonizzati o, meglio, fra cittadini
e sudditi.
I figli nati dalle unioni tra europei e africani furono perciò oggetto di molteplici
provvedimenti di natura politica, amministrativa e giuridica aventi la finalità di realizzare
un controllo sessuale finalizzato ad assicurare l’ordine gerarchico della società
coloniale
165
.
Nel corso degli anni Trenta, la colonia fu concepita come un «luogo di sperimentazione
nel quale vennero forgiate e applicate alcune soluzioni giuridiche
che, in un secondo momento, dopo una fase di rodaggio e dopo esser state adeguatamente
modellate e rivisitate, agevolarono l’avvio di una politica razziale in metropoli»
166
.
Il regio decreto, legge 19 aprile 1937, n. 880 vietava le relazioni miste “di indole
coniugale”, le quali venivano sanzionate con una pena fino a 5 anni di reclusione. Peraltro,
vigeva per gli italiani il divieto di vivere nei quartieri indigeni e, viceversa, per i sudditi
di risiedere in quelli dei cittadini bianchi.
In seguito, la legge 29 giugno 1939, n. 1004, introdusse nuove ed ulteriori sanzioni
penali volte a tutelare il prestigio della razza rispetto ai nativi dell’Africa italiana. Infine,
la legge 13 maggio 1940, n. 882, ponendo l’attenzione sulla questione dei meticci, negava
al padre italiano di procedere al riconoscimento del figlio meticcio che assume lo statuto
del genitore nativo ed è considerato nativo a tutti gli effetti.
La perdita delle colonie avvenuta nel corso del secondo conflitto mondiale e poi la
firma del Trattato di Pace di Parigi nel 1947, con cui il nostro Paese dichiarava
formalmente di rinunciare ai possedimenti d’oltremare, rappresentarono la base per
l’emanazione del decreto legislativo del capo provvisorio dello Stato del 3 agosto 1947,
n. 1096, con cui l’Italia procedeva all’abrogazione della legge contro il meticciato del
1940
167
.
Tale legge, comunque, non fu automaticamente applicabile in Somalia, la quale restava
sotto controllo politico e militare dell’amministrazione britannica, per cui sarebbe stato
necessario un espresso atto legislativo di recepimento da parte delle autorità britanniche
al quale di fatto, tuttavia, non si provvide, e la medesima situazione si verificò in Eritrea.
165
Ivi, p. 197.
166
Ivi, p. 199. Cfr. S. Falconieri, La legge della razza. Strategie e luoghi del discorso giuridico fascista, Il
Mulino, Bologna, 2011, p. 66.
167
Ivi, p. 200.