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Prefazione:
Si piange perché si è tristi o si è tristi perché si piange, ma
soprattutto perché lo facciamo?
Da sempre, l’essere umano si è identificato come l’essere più
intelligente del pianeta, razionale, composto, pensante; un essere
superiore agli altri perché nel corso della sua Storia ha dato prova di
grandi capacità di adattamento e progresso. Egli ha, quindi, vissuto
periodi di grande fervore scientifico da cui sono venuti fuori grandi nomi
e grandi pensatori. Ma, spesso, questi sono stati seguiti da momenti
storici ricchi di patòs e di interesse verso quell’unica parte di sé che
l’uomo, ancora oggi, sente di non poter controllare del tutto.
Si parla, qui, delle emozioni.
Di come funzionano, da cosa derivano, da come si esprimono e
riconoscono. Si vuole comprendere, in riferimento alla domanda iniziale,
se le emozioni, spesso viste come un fattore assolutamente non
scientifico, quasi mistico, abbiano basi fisiologiche e neurologiche e
come queste funzionino a seconda del contesto di riferimento.
Quello che ci si chiede è, se è vero che l’uomo è un essere
assolutamente razionale, “fatto di mente e biologia”, le emozioni possono
entrare a far parte di questo triangolo? Possiamo considerare le emozioni
come un costrutto psicologico che guida il comportamento umano, al pari
della ragione, senza superarla o sottomettendosi ad essa, ma
semplicemente accompagnandola? Possiamo considerare la
sensazione provata dal nostro corpo, in un certo momento, come
emozione perché la nostra mente l’ha interpretata come tale grazie alla
situazione di riferimento? L’emozione, come chiesto anche da Caruana
e Viola (2018), è ciò che si prova o ciò che si fa?
Ed in ultima istanza risulta opportuno chiedersi, ma è possibile per
un individuo non riconoscere ciò che sta provando? È possibile, sentire
un “tremolio interno”, un’attivazione fisiologica, e non riuscire a darle un
senso?
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Può esistere un essere umano senza emozioni?
E come può un individuo vivere bene, se rifiuta qualsiasi sentire
emotivo? E quanto è importante poter comunicare ed esprimere ciò che
si sta esperendo in un determinato momento? Quali sono i rischi ed i
disagi nascosti dietro un “non comunicare” le proprie emozioni?
Perché molte persone appaiono fredde, rifiutanti, verso qualsiasi
manifestazione emotiva, indipendentemente dal fatto che questa
provenga dall’esterno o da una sensazione interna?
Perché molto spesso ci capita di “sentire qualcosa”, ma non
riusciamo a darle senso e significato, causando in noi frustrazione e
malessere diffuso? Da cosa deriva questa paura di comunicare?
E quanto è, invece, importante lasciare che l’emozione
interagisca, non solo con noi, ma anche con l’ambiente esterno?
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Capitolo 1: “Tu chiamale, se vuoi, Emozioni
(1)”
:
“Tutti sanno cos’è un’emozione, finché non viene chiesto loro di
definirla. Allora sembra che nessuno più lo sappia”
(Berly Fehr e James Russell, 1984)
1.1 Che cosa sono le emozioni:
Trovare una definizione univoca e precisa di emozione è
assolutamente difficile, forse impossibile. Nel corso degli anni, si sono
succedute diverse affermazioni volte a spiegare cosa sia un’emozione e
tutte, o quasi, concordano nel definire l’emozione come una sensazione
affettiva che accompagna la condotta di un individuo in risposta a stimoli
sia esterni sia interni. La parola emozione deriva dal francese émouvoir
che significa “mettere in movimento” ed è spiegata nel dizionario online
Treccani come una “impressione viva, turbamento, eccitazione. […] In
psicologia, il termine indica genericamente una reazione complessa di
cui entrano a far parte variazioni fisiologiche a partire da uno stato
omeostatico di base ed esperienze soggettive variamente definibili
(sentimenti)
(2)”
con la conseguente produzione di risposte
comportamentali.
Dalla definizione appena proposta si evince il carattere
multicomponenziale delle emozioni, secondo cui vi è una componente
cognitiva che permette l’analisi dell’evento emotigeno, una reazione o
risposta emotiva indotta da uno stato affettivo (componente
comportamentale) ed una componente fisiologica, riguardante le
modificazioni corporee interne a livello vegetativo ed ormonale.
Secondo D’Urso e Trentin (1998), dunque, il sostantivo
“emozione” determina “stati affettivi di breve durata
(3)
” che
(1)
L. BATTISTI, MOGOL “Emozioni” (1970)
(2)
http://www.treccani.it/vocabolario/emozione/
9
sopraggiungono in risposta ad eventi specifici, determinando
l’insorgenza di un comportamento coerente con la causa. Da non
confondere, quindi, con “sentimento” ed “umore” che determinano,
invece, stati affettivi più pervasivi senza che vi siano cause specifiche
associabili a determinati eventi o contesti emotigeni. Le emozioni non
cambiano e non manipolano assolutamente, sempre per le autrici, il
pensiero dell’individuo, ma possono tuttavia, soprattutto in caso di forti
sbornie emotive, bloccarne momentaneamente i processi
(4)
.
Tendenzialmente, però, l’insorgere di un’emozione favorisce
l’attribuzione di una connotazione piacevole/spiacevole al contesto che
si sta vivendo che si differenzia dallo stato d’animo (mood), in quanto
quest’ultimo manca di specificità.
Tutto ciò dimostra come le emozioni siano l’esito di un processo
inconsapevole di analisi del contesto e della situazione vigente avente
come punto di partenza il funzionamento biopsicologico dell’individuo e
la cultura di appartenenza. La società in cui l’individuo si muove e vive è,
infatti, permeata da norme sociali e culturali che determinano, da un lato,
come dimostrato anche da Ekman, una certa universalità delle emozioni
e delle loro espressioni e, dall’altro lato, una necessità di controllo e
regolazione variabile a seconda del contesto o della società stessa di
riferimento. In culture come quella polacca, per esempio, il mostrarsi
riservati e chiusi circa il proprio sentire emotivo è visto con connotazioni
negative, a differenza di quanto avviene per i “freddi” inglesi. Ma esistono
anche emozioni specifiche per determinate culture, come l’oime
(5)
dei
giapponesi, oppure emozioni totalmente assenti in alcune culture, come
nel caso della cultura indiana dove non esiste la collera verso la
(3)
V. D’URSO, R. TRENTIN “Introduzione alla psicologia delle emozioni”, Urbino,
Gius. Laterza & Figli, 1998, pag. 9.
(4)
Per esempio, questo può succedere nel caso in cui si provi una rabbia
incontrollata.
(5)
Traducibile come un intenso disagio quando si è in condizioni di eccessivo debito
psicologico con qualcuno.
10
popolazione per i suoi comportamenti, in quanto si tende ad attribuire le
responsabilità degli eventi verso forze esterne come il destino.
Una prima distinzione riconosciuta fra le emozioni è quella
riguardante le emozioni di base, o fondamentali, e le emozioni sociali, o
complesse. Le prime hanno principalmente una funzione adattiva in
quanto si ricollegano al soddisfacimento di alcuni bisogni come la
sopravvivenza e la prosecuzione della specie; mentre le emozioni
complesse sono figlie di obiettivi e processi cognitivi influenzati dalla
cultura e dalla società di riferimento dell’individuo e non sono, quindi,
universali.
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1.2 Esprimere le proprie emozioni:
Le emozioni fondamentali sono gioia, tristezza, paura, rabbia,
sorpresa, disprezzo e disgusto e, a differenza di quelle sociali, come
vergogna, senso di colpa, invidia e gelosia, sono palesate
universalmente dalle espressioni facciali, dalla tonalità della voce e dalla
gestualità corporea.
Il primo ad interessarsi del legame esistente fra le emozioni e le
espressioni facciali è stato Darwin che, nel 1872, pubblicò il trattato
L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, sostenendo che
le espressioni facciali delle emozioni hanno una funzione adattiva, in
quanto permettono, per esempio, la comunicazione, fra esseri di una
stessa specie, circa la presenza di un pericolo limitrofo o di una risorsa.
Le espressioni delle emozioni sono, quindi, per Darwin, innate e specie
specifiche, non si apprendono grazie alla socialità, ma fanno parte del
patrimonio genetico della specie di riferimento, in quanto rappresentano
segnali indispensabili per la prosecuzione e l’evoluzione della specie
stessa. Un anno dopo la pubblicazione della sua opera più celebre,
L’origine della specie (1871), lo scienziato naturalista inglese si
preoccupò di osservare e catalogare le espressioni umane ed animali ed
arrivò alla formulazione di tre principi fondamentali per la loro
considerazione. Il primo principio riguarda le “associazioni delle abitudini
utili
(6)
” e si basa sul fatto che ogni emozione evoca risposte che
permettono la sua soddisfazione o risoluzione. Secondo l’autore, i
comportamenti riguardanti le manifestazioni emotive hanno una certa
utilità, servono a qualcosa, poiché permettono il sollievo o la
soddisfazione di un bisogno. Emblematica l’utilità del disgusto, in questo
caso, dato che la sua espressione anticipa l’atto di rigurgitare,
permettendo così al corpo di avere il minor contatto orale possibile con
(6)
C. DARWIN, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Milano,
Longanesi, 1971.
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la sostanza, spesso un cibo, disgustosa. Ma a cosa si riferisce nello
specifico, allora, il primo principio darwiniano? Le “abitudini associate”,
infatti, riguardano la manifestazione emotiva nel momento di inutilità della
stessa. Riprendendo l’esempio del disgusto, se ci venisse raccontato da
qualcuno di aver mangiato un cibo assolutamente raccapricciante, allora
anche noi, grazie al solo di pensiero di entrare in contatto con il cibo
malefico, inizieremo a manifestare il “nostro” disgusto, assumendo le
stesse smorfie del nostro narratore, come se cercassimo di allontanare
anche noi la sostanza dalla nostra bocca. È chiaro che, qui, l’espressione
emotiva è assolutamente inutile, in quanto manca la sostanza che
dovrebbe far scaturire il disgusto. Questo è ciò che Darwin definisce
come “abitudine associata”; si esegue la smorfia, anche in assenza della
sostanza, perché si ha associato l’emozione del disgusto alla sostanza
disgustosa. È un retaggio che, per Darwin, ha radici, non solo sociali, ma
anche biologiche. Vi sono moltissime manifestazioni emotive ad oggi
inutili, come la pelle d’oca nei momenti di paura, che per i nostri antenati
avevano utilità.
Il secondo principio darwiniano è quello dell’antitesi e fa
riferimento alla diversità che può intercorrere fra due emozioni e le loro
manifestazioni. È chiaro a tutti, infatti, che emozioni come la gioia e la
tristezza siano diametralmente opposte fra loro, sia per quanto concerne
le loro manifestazioni sia per gli eventi che le determinano. Questo le
rende difficilmente confondibili, permettendo una più facile
comunicazione con l’altro circa il proprio stato d’animo o la situazione
vigente. Per farla breve, emozioni opposte avranno quasi sicuramente
anche manifestazioni opposte.
Il terzo, ed ultimo, principio riguarda l’“azione diretta del sistema
nervoso”. Con esso, Darwin afferma che alcune espressioni emotive
sono al di fuori del controllo volontario e dalle abitudini del soggetto, in
quanto attivamente costruite dal cervello.