163
5. Il principio di non refoulement e la causa di giustificazione della legittima difesa:
brevi cenni su Cass., Sez. VI, sent 16 dicembre 2021, n. 15869.
Si è già avuto modo di notare, nel corso della trattazione, come le condotte di
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art.12 TUI vengano
scriminate, talvolta, dalla configurazione, in capo al soggetto agente, delle cause di
164
giustificazione dello stato di necessità o dell’adempimento del dovere. Si è anche
avuto modo di verificare che il doveroso rispetto del principio di non refoulement è
stato talvolta accompagnato, in maniera speculare, dal riconoscimento soprattutto della
causa di giustificazione dello stato di necessità.
In tale panorama, sicuramente una novità di rilievo è rappresentata da Cass., Sez.
VI, sentenza16 dicembre 2021, n. 15869, che ha riconosciuto la sussistenza della causa
di giustificazione della legittima difesa a favore di alcuni migranti soccorsi dal
rimorchiatore “Vos Thalassa”, battente bandiera italiana, in acque internazionali, che
si erano opposti con la forza al tentativo del capitano di riportarli sulle coste libiche da
cui provenivano. Il principio di diritto espresso da tale sentenza risulta il seguente: “Il
diritto al non-respingimento ("non refoulement") in un "luogo non sicuro" - enunciato
dall'art. 33 della Convenzione di Ginevra - costituisce principio internazionale
consuetudinario di carattere assoluto, cui deve riconoscersi valenza di "ius cogens" in
quanto proiezione del divieto di tortura, e come tale invocabile - secondo
l'interpretazione data dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo all'art. 3 della
Convenzione EDU - non dai soli "rifugiati", ma da qualsiasi essere umano che possa
essere respinto verso una nazione in cui sussista un ragionevole rischio di subire un
pregiudizio alla propria vita, alla libertà, ovvero all'integrità psicofisica”. Pertanto,
applicando il suddetto principio, la Corte ha annullato la condanna per i reati di
violenza e resistenza a pubblico ufficiale degli imputati, migranti clandestini, che
avevano posto in essere condotte di minaccia nei confronti del comandante della nave
intervenuta, a seguito della decisione di riportarli in Libia, ritenendo configurata la
scriminante della legittima difesa. In tal modo, la Suprema Corte non faceva che
confermare le conclusioni cui era pervenuto il Tribunale, ovvero che, sebbene la
condotta degli imputati configurasse un fatto tipico (artt. 336, 337 e 339 c.p., art. 12
co. 3 TUI), la stessa risultasse scriminata, sulla base del presupposto che essi avessero
agito per tutelare il proprio diritto al non refoulement, cioè il diritto a non venire
rinviati in un Paese, la Libia, ove sarebbero stati esposti al concreto pericolo di torture
e trattamenti inumani o degradanti. La sentenza d’appello, invero, era giunta a
conclusioni opposte, sulla base del ragionamento secondo cui gli imputati si sarebbero
posti volontariamente in una situazione di pericolo, provando, d’intesa con gli scafisti,
165
a raggiungere irregolarmente l’Italia su un’imbarcazione inidonea, in attesa dell’arrivo
dei soccorsi.
La sentenza in questione rappresenta, come si può facilmente intuire, un elemento
di novità importante nel dibattito riguardante la gestione dei soccorsi in mare e degli
sbarchi dei migranti che, fuggendo dalla Libia, si dirigono su imbarcazioni di fortuna
verso le coste italiane, a partire dal fatto che essa non riguarda l’usuale invocazione,
da parte dei soccorritori, dello stato di necessità o dell’adempimento del dovere, bensì
la sussistenza o meno della legittima difesa. Quest’ultima, come è noto, richiede la
necessità di accertare il “pericolo attuale di un’offesa ingiusta”, cioè di un’aggressione
antigiuridica ai diritti di chi ha reagito, mediante cui viene espressamente riconosciuto
il carattere illegittimo della condotta di respingimento verso la Libia, perché in netto
contrasto col più volte menzionato principio di non refoulement.
Inoltre, la vicenda offre uno spunto anche per verificare se in capo al comandante
dell’unità navale che, contattato dalle autorità libiche, aderisca all’ordine di queste di
dirigersi verso le coste libiche, residuino ipotesi di responsabilità penale. Pur
ritenendo, infatti, che lo stesso aderisca ad un ordine ritenuto legittimo, rimarrebbe da
verificare la responsabilità penale di chi ha dato l’ordine. Per poter svolgere
adeguatamente una tale indagine, occorre tenere in debita considerazione, oltre che
l’effettivo ambito operativo delle zone SAR, e l’effettiva valenza del memorandum
d’intesa tra Italia e Libia del febbraio 2017, più volte citato, con cui l’Italia si impegna
a cooperare con le autorità libiche nel contrasto all’immigrazione irregolare, affinché
siano le stesse autorità libiche ad intervenire e a riportare i migranti sulle coste
africane. La validità stessa del memorandum viene di fatto messa in dubbio sia dal
giudice di primo grado, che dalla Suprema Corte, sulla base di alcune argomentazioni,
tra le quali spicca la presupposizione che esso sia contrario, oltre che al principio di
non refoulement, anche a quanto disposto dall’art. 10, comma 1, Cost.
A modesto parere dello scrivente, le conclusioni cui perviene la Suprema Corte non
appaiono supportate da una puntuale analisi degli istituti giuridici sottesi alla
configurabilità del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di cui
all’art. 12, comma 3, TUI. Lo stesso, infatti, essendo stato contestato agli imputati
all’esito delle indagini preliminari, avrebbe meritato una verifica in sede di udienza
preliminare, al di là dei risultati a cui necessariamente si è pervenuti.
166
Per quanto concerne, poi, l’argomento centrale utilizzato dalla sentenza d’appello
per negare la legittima difesa, basato soprattutto sulla mancanza del requisito della non
volontaria causazione dello stato di pericolo, la Corte di Cassazione ha ritenuto
insostenibile il ragionamento dei giudici palermitani. In realtà occorre segnalare, a tal
proposito, che, per consolidata giurisprudenza, nel caso di specie il suddetto requisito
della non volontaria causazione dello stato di pericolo, non venga a configurarsi.
Secondo tale giurisprudenza e buona parte della dottrina, infatti, l’art. 52 c.p. sarebbe
inapplicabile a chi affronti una situazione di rischio prevista ed accettata
403
. Appare
fuori di dubbio, infatti, che i migranti che partono dalle coste libiche su barconi
fatiscenti per attraversare il mare, pur nella consapevolezza delle profonde e reali
ragioni umanitarie che li spingono a farlo, accettano per ciò stesso il rischio di un
pericolo in mare sia dal punto di vista di un eventuale naufragio, sia per quel che
concerne il pericolo di essere intercettati da imbarcazioni della Guardia Costiera libica
ed essere ricondotti in Libia. E d’altro canto, se così è, sembra perdere appiglio anche
l’argomento di chi ha ritenuto che i giudici d’appello avrebbero confuso il pericolo di
naufragio, rispetto a cui eventualmente poteva sostenersi la volontaria causazione,
qualora fosse risultato provato l’accordo tra gli imputati e gli scafisti, e il pericolo di
respingimento, rispetto al quale invece l’eventuale accordo con gli scafisti non avrebbe
comunque fatto venir meno il carattere non volontario. A parte la considerazione,
infatti, secondo cui non si vede come nel caso di pericolo di respingimento, un
eventuale accordo tra migranti e scafisti non avrebbe comunque fatto venir meno il
carattere non volontario del pericolo cagionato, sembra possibile poter sostenere che
entrambi i pericoli fossero da ritenere verosimilmente presenti nella mente dei
migranti. Gli stessi, infatti, nell’atto stesso di “affidarsi”, pur, si ripete, tenendo in
debita considerazione le motivazioni che spingono a farlo, a collaudate organizzazioni
criminali, non avrebbero potuto ragionevolmente non immaginare che nel corso del
viaggio sarebbero potute sorgere difficoltà di vario genere, tra le quali occorre
403
Cass., 11 dicembre 1978, in Riv. Pen., 1979, 748. Per la dottrina, sebbene in maniera risalente, e piuttosto
minoritaria, si veda C.F. Grosso, voce Legittima difesa (Dir. pen), in Enc. Dir., XXIV, Milano, 1974, 27 ss. Per
una compiuta ricostruzione della tesi giurisprudenziale richiamata, a dire il vero piuttosto criticata dalla dottrina, si
leggano le considerazioni di F. Viganò, Art. 52 c.p., in E. Dolcini e G.L. Gatta, (a cura di), Codice penale
commentato, IV ed., 2015, 924 ss., secondo il quale la suddetta impostazione estende anche alla legittima difesa il
requisito della involontaria causazione del pericolo, espressamente previsto dal c.p. esclusivamente per lo stato di
necessità di cui all’art. 54 c.p.
167
sicuramente annoverare il respingimento o, cosa peggiore, un naufragio. Non può
essere sottaciuto, infatti, il clamore mediatico che entrambi questi eventi, e soprattutto
il secondo, possiedono.
Un altro argomento posto a sostegno della tesi assolutoria, poi ripreso anche dai
giudici della Cassazione, attiene alla presunta invalidità del memorandum di intesa tra
Italia e Libia del 2 febbraio 2017. Lo stesso, come già accennato, costituisce un
accordo bilaterale stipulato in forma semplificata tra l’allora Presidente del Consiglio
dei Ministri italiano e il Capo Governo di Riconciliazione nazionale dello Stato della
Libia, riconosciuto sia dall’Italia che dall’UE, Fayez Mustapa Serraj, avente ad
oggetto il rafforzamento della cooperazione in materia di contrasto all’immigrazione
irregolare e il traffico di esseri umani attraverso il rafforzamento della sicurezza delle
frontiere tra i due Stati. In particolar modo, secondo la ricostruzione proposta, tale
accordo si porrebbe in contrasto col principio del non refoulement, ed inoltre lo stesso
avrebbe dovuto essere adottato in forma solenne, giusto il disposto dell’art. 80 Cost.
secondo cui “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che
sono di natura politica (…), o importano (…) oneri alle finanze”. Ora, secondo il parere
di chi scrive, non sembra che il suddetto accordo assuma una connotazione di carattere
politico, da una parte perché esso va a disciplinare esclusivamente aspetti tecnici della
cooperazione rafforzata tra i due Paesi, in materia di contrasto alla tratta di esseri
umani e dell’immigrazione illegale, dall’altra perché tali aspetti costituiscono, oltre a
precisi obblighi da parte di qualsiasi Stato, anche una specificazione di un accordo
pregresso, questo sì di natura politica
404
. Quest’ultimo accordo, infatti, sebbene fosse
caratterizzato da un ambito di applicazione ben più ampio, prevedeva, tra le sue
finalità, una stretta collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata,
al traffico di stupefacenti, nonché all'immigrazione clandestina. Da questo specifico
punto di vista quindi, il trattato del 2017, il cui contenuto è stato prorogato tacitamente
nel febbraio 2023 da entrambi gli Stati, avrebbe natura esclusivamente tecnica, e tra
l’altro non imporrebbe nemmeno oneri finanziari, come facilmente desumibile dallo
stesso corpo del testo.
404
Ci si riferisce al “Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione” firmato a Bengasi il 30 agosto
2008, a cui è stata data ratifica ed esecuzione con Legge 6 febbraio 2009, n. 7.
168
In forza di questo trattato, poi, la l’Italia si impegna a fornire supporto tecnico e
tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l'immigrazione irregolare,
e le Parti si impegnano all’adeguamento e al finanziamento dei centri di accoglienza
già attivi, attingendo ai finanziamenti disponibili da parte italiana e anche dell'UE. La
parte italiana contribuisce, poi, attraverso la fornitura di medicinali e attrezzature
mediche per i centri sanitari di accoglienza, a soddisfare le esigenze di assistenza
sanitaria dei migranti irregolari, per il trattamento delle malattie trasmissibili e
croniche gravi, e si impegna, altresì, a sostenere la formazione del personale libico
all’interno dei centri di accoglienza summenzionati per far fronte alle condizioni dei
migranti illegali, sostenendo i centri di ricerca libici che operano in questo settore
affinché contribuiscano all’individuazione dei metodi più adeguati per affrontare il
fenomeno dell'immigrazione irregolare e la tratta degli esseri umani.
A parte, poi, la basilare considerazione secondo cui “pacta sunt servanda”,
l’assunto proposto non sembra nemmeno poter essere adombrato dalla considerazione
secondo cui non sarebbe mai valida una ratifica ex post di simili trattati, nel caso in cui
sia stata violata una norma fondamentale relativa alla competenza a stipulare. Dato per
scontato infatti che, come già visto, si tratti di un accordo tecnico e non avente natura
politica, giova ricordare come simili modalità di accordo in forma semplificata siano
legittime ed ampiamente utilizzate nella prassi del diritto internazionale, in cui vige il
principio della libertà delle forme di stipulazione. E del resto, risulta piuttosto seguita
nella prassi internazionale, la richiesta successiva di autorizzazione da parte del
Parlamento. A supporto di quanto appena detto, si può citare la domanda di
ammissione alle Nazioni Unite da parte dell’Italia, sanata molti anni dopo con Legge
17 agosto 1957, n. 848, contenente l’ordine di esecuzione, o anche il memorandum di
Londra del 1954 fra Italia, Stati Uniti, Regno Unito e Repubblica Federativa di
Iugoslavia, che delimitava i confini tra quest’ultima e l’Italia, poi confermato dal
Trattato di Osimo del 1975, successivamente ratificato.
Vale la pena ricordare, inoltre, che un simile accordo è stato concluso proprio con
la finalità di trattenere i migranti che si avventurano in mare nell’ambito del territorio
libico, proprio per scongiurare il più possibile gli episodi di naufragio, e quindi salvare
vite umane. Del resto, la tendenza all’esternalizzazione delle frontiere, sebbene portata
169
avanti dall’UE in maniera soft
405
, ovvero mediante accordi tra i singoli Stati interessati,
come nel caso di specie, oppure tramite accordi tra l’UE, magari in sede di Consiglio
europeo, intende raggiungere il risultato di diminuire le partenze e pertanto le morti
come conseguenza di traversate organizzate da consorterie criminali senza scrupoli.
La competenza ad effettuare il salvataggio dei migranti e il loro trasporto in un
luogo sicuro sarebbe dovuta essere di competenza delle autorità libiche, che in effetti
avevano preso contatti con il Centro di coordinamento di Roma nonché con
l’equipaggio del rimorchiatore Vos Tholossa, al fine di prendere in carico le operazioni
di soccorso. Si ricorda, a tale proposito, che la Convenzione di Amburgo del 1979, più
vote menzionata, proprio perché finalizzata alla concreta attuazione dell’obbligo degli
Stati di assicurare assistenza alle persone in pericolo in mare, prevede espressamente
a carico degli Stati parte, nelle zone di propria responsabilità, l’obbligo di garantire il
soccorso, le prime cure mediche e il trasferimento in luogo sicuro, per come descritto
in precedenza. Solo da questo momento cessano gli obblighi che il diritto
internazionale pone in capo allo Stato competente sulla base delle zone SAR, nel caso
di specie la Libia.
Venendo poi al principio di non refoulement, valorizzato dalla sentenza di primo
grado, ed in certa misura anche dalla Corte d’Appello di Palermo, la ricostruzione
operata appare non contrastabile, nel senso che si tratta di un principio di diritto
405
A tal proposito vale la pena menzionare la proposta fatta nel 2018 dal Consiglio europeo, della
predisposizione di “piattaforme regionali” di sbarco, ubicate esclusivamente presso Paesi terzi, al fine di assicurare
una gestione controllata e sicura delle operazioni di sbarco e post-sbarco attraverso regole e procedure comuni.
Secondo questa interessante proposta, l’UE avrebbe assicurato l'operabilità finanziaria e il coordinamento di un
numero maggiore di operazioni SAR ed inoltre, avrebbe assicurato condizioni di accoglienza tese a soddisfare i
bisogni essenziali richiesti in un place of safety degno di questo nome. L'UE avrebbe altresì contribuito a
ricollocare, non solo in Europa, coloro la cui situazione specifica lo avrebbe richiesto. Un tale progetto, oltretutto,
avrebbe anche previsto come assolutamente necessario, oltre che il coinvolgimento dell’UNHCR e dello IOM
(Organizzazione internazionale per le migrazioni), anche l'individuazione di soluzioni particolari per alcune
categorie (minori accompagnati o separati, vittime di trafficking o di violenza di genere). In particolar modo, la
tutela dei diritti fondamentali delle persone coinvolte sarebbe stata garantita grazie a un sistema uniforme di
screening, che avrebbe garantito, dopo lo sbarco, l'identificazione dei bisogni individuali, anche in termini di salute
e condizione di vulnerabilità. Oltre a ciò, per la buona riuscita di una tale procedura, occorrerebbe finanziare una
missione europea congiunta, magari sotto l’egida di FRONTEX, volta ad intercettare sistematicamente le
imbarcazioni che partono dalle coste nordafricane, in special modo dalla Libia, al fine non di respingerle, ma di
farne sbarcare i passeggeri nelle piattaforme regionali, al fine di essere identificati, ed al fine di fare una prima
“scrematura” per differenziare i migranti economici da quelli che hanno diritto ad una forma di protezione
internazionale, per i più disparati motivi. A tale riguardo, in effetti, il nuovo Patto sull'immigrazione e asilo per
coloro che sbarcano a seguito di operazioni SAR, si basa sull'assunto per cui i suddetti screening iniziali potranno
essere effettuati alle frontiere “esterne” dell'Unione e, in ogni caso, prima dell'ingresso nel territorio europeo.
170
consuetudinario, in merito a cui, si è venuta a creare, nel tempo, e soprattutto, come
già si è avuto modo di evidenziare, per via di un’interpretazione evolutiva da parte
della Corte EDU
406
, delle norme di cui agli articoli 3 e 13, nonché dell’articolo 4 del
Protocollo Addizionale n. 4 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
umani e delle libertà fondamentali, una nuova fattispecie di non refoulement, volta a
impedire che lo straniero – indipendentemente dal suo status personale – rischi di
essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti
407
.
Non convince, invece, il ragionamento secondo il quale l’applicazione di tale
principio presupporrebbe un vero e proprio diritto soggettivo, invocabile da parte dei
singoli migranti. Questo perché, in primo luogo, l’esigenza di rispettare il principio in
questione, pone esclusivamente un obbligo di condotta avente ad oggetto il dovere di
verificare se, tra i migranti salvati, ce ne siano alcuni potenzialmente in grado di
risultare destinatari di una forma di protezione internazionale. Per inciso, a tale
proposito, occorre anche evidenziare che una tale verifica ben potrebbe essere svolta
una volta che gli stessi fossero giunti nelle coste libiche, come tra l’altro prevede il
memorandum più volte citato. In secondo luogo, e secondo un ragionamento a
contrario, anche se fosse riconosciuta la sussistenza di un “diritto soggettivo” a non
essere respinti scaturente dal principio di non refoulement, esso dovrebbe essere
garantito solo nei confronti di coloro che, secondo una valutazione accurata da parte
delle autorità preposte, abbiano le carte in regola per vedersi riconosciuta una forma
di protezione internazionale. Si tratta, a dire il vero, di un aspetto sul quale non sembra
che né la Cassazione né il giudice di primo grado si siano soffermati.
Per quanto concerne più nel dettaglio, poi, il concetto di place of safety, più volte
richiamato dal Tribunale per contestare che la Libia possa fornirne uno, vale la pena
ricordare come il sistema degli obblighi scaturenti in particolar modo dalla
convenzione SAR, che, come si è avuto modo di vedere, si presenta molto dettagliato
sul piano astratto e dei principi, soffre invece di notevole incertezza interpretativa nel
momento in cui ci si trovi di fronte a casi concreti. Questo perché non risultano, né sul
406
In special modo a partire da Soering c. Regno Unito, 10438/88 del 7 luglio 1989.
407
Ai sensi dell’art. 3 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e
degradanti del 1984, nessuno stato parte della Convenzione “espellerà, respingerà o estraderà una persona verso un
altro Stato nel quale vi siano seri motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta alla tortura”.
171
piano internazionale consuetudinario che convenzionale, almeno per ora, regole certe
che consentano di individuare, in maniera chiara e vincolante, il place of safety di
destinazione. Si può, però, provare a stabilire qualche punto fermo, partendo dalla
basilare considerazione secondo cui l'individuazione di un tale luogo appare
interamente rimessa alla volontà degli Stati coinvolti, in quanto attività politica, nello
svolgimento della quale gli sessi godono di un ampio margine di discrezionalità.
Sarebbe, d’altro canto, illegittimo qualificare come porto sicuro, quello nel quale i
soccorsi rischiassero di subire torture o trattamenti inumani e degradanti.
Un dato certo è che lo Stato che ha in carico il salvataggio e soccorso ha l’onere di
individuare il POS, sulla base di alcuni elementi fondamentali, quali le condizioni
generali del Paese di destinazione, l’eventuale sussistenza di accordi ad hoc tra Stati,
o l’eventuale indicazione da parte del comandante. Per quanto riguarda il primo aspetto
occorre senza dubbio verificare l'appartenenza del Paese a sistemi di tutela dei diritti
umani, il rispetto dell'obbligo di non refoulement, diretto e indiretto, l'accesso e
l'affidabilità del sistema di asilo del Paese di destinazione. Anche il reg. (UE) 656/2014
fa riferimento a una valutazione generale del Paese che tenga conto di una molteplicità
di fonti, nonché degli accordi eventualmente in essere in materia di migrazione e asilo.
Anche la c.d. “Dichiarazione di Malta” del 2019, come già visto, evidenzia un
consenso crescente sulla considerazione del POS come luogo in cui non sia anche
assicurato l'accesso a una procedura completa di asilo, anche se in effetti omette di fare
riferimento al comandante della nave come soggetto fondamentale per valutare le
circostanze specifiche del caso per la designazione del POS, il quale viene invece in
rilievo solo per il presunto obbligo di obbedienza rispetto alle istruzioni ricevute dal
Centro di coordinamento del soccorso marittimo competente.
A prescindere, tuttavia, da considerazioni concernenti i pur importanti aspetti
riguardanti il tema dell’individuazione del POS, occorre dire che i migranti che fossero
stati rimpatriati in Libia, proprio sulla base del memorandum d’intesa di cui si è già
accennato, avrebbero ben potuto essere identificati e le loro posizioni verificate,
nell’ambito dei centri d’accoglienza istituiti sotto l’egida delle istituzioni libiche.
Questo inquadramento, sebbene non risulti ragionevolmente in grado di superare la
principale obiezione secondo cui la Libia non sarebbe un Paese sicuro, a causa della
sua perdurante instabilità politica, può tuttavia far riflettere sulla possibilità che invece
172
possa offrire un POS, beninteso nel ristretto ambito istituzionale delineato dal
memorandum stesso, e nei limiti di centri di accoglienza gestiti dalle sue istituzioni. A
parte la sola tendenziale sovrapposizione di questi due concetti, infatti, non è
opportuno sovrapporre la situazione dei migranti che si trovino nelle mani di strutturate
consorterie criminali, con quella di coloro vengano collocati in centri di accoglienza
libici, il cui finanziamento è da ricondurre anche agli organi dell’UE, in attesa di essere
ricollocati in altri Paesi, più in linea con gli standard minimi relativi alle garanzie dei
diritti civili e libertà fondamentali, secondo meccanismi il più possibile basati su
presupposti solidaristici.
Tornando agli elementi costitutivi della legittima difesa, si è già avuto modo di
evidenziare come il giudice di primo grado non abbia dedicato molta attenzione ad una
verifica puntuale dell’inquadramento del fatto nell’ambito della fattispecie scriminata.
Sembra quasi che il percorso argomentativo svolto sia stato più incentrato sull’analisi,
pur puntuale, delle convenzioni di diritto internazionale aventi ad oggetto gli obblighi
di soccorso in mare e il principio di non refoulement, che su una disamina puntuale
degli istituti giuridici coinvolti nella scriminante de qua. Tale incompletezza
argomentativa, a parere di chi scrive, è anche da imputare al giudice di appello.
In primo luogo, per ciò che concerne il requisito dell’ingiustizia dell’offesa, occorre
dire innanzitutto che la stessa non deve essere solamente contra jus, così come sembra
risultare dall’interpretazione data dal giudice di primo grado, altrimenti saremmo al
cospetto di una definizione tautologica. Infatti, l’aggressione, oltre a minacciare un
diritto altrui, non deve essere espressamente facoltizzata dall’ordinamento
408
. Nel caso
di cui trattasi, l’ingiustizia dell’offesa sarebbe stata rinvenuta nella condotta del
capitano della Vos Thalassa, tesa a trasportare i migranti appena salvati in Libia.
Pertanto, secondo il ragionamento del giudice di prime cure, si dovrebbe ritenere che
il capitano stesse agendo sulla base a sua volta di un’altra scriminate, ovvero
dell’adempimento del dovere di cui all’art. 51 c.p., in questo caso derivante sia
dall’ordine impartito dalle autorità libica ed italiana, sia dal contenuto del
memorandum più volte richiamato. D’altro canto, il suddetto ordine risulterebbe
legittimo sia sul piano sostanziale che formale, in quanto proveniente dal MRCC, che,
408
G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, cit., 299.
173
come già notato, è incardinato presso il Comando generale delle Capitanerie di porto
di Roma. Si potrebbe obiettare, in tal senso, che un siffatto ordine fosse illegittimo, ma
anche a voler ragionare nei suddetti termini, occorre tenere a mente che, per costante
giurisprudenza e per dottrina maggioritaria sul tema
409
, la possibilità, ed anzi, il dovere,
di contestare l’ordine deve ritenersi ammissibile solo in caso di sua (vera o supposta
ai sensi dell’art. 59 c.p.) manifesta criminosità, situazione questa che non sembra
configurabile nel caso di specie. Ebbene, sulla base di una tale impostazione, non
sembra possibile che possa invocare la legittima difesa chi pretende di reagire contro
una persona, la quale agisca, a sua volta, nell’esercizio di una facoltà legittima
espressamente stabilita dall’ordinamento oppure nell’adempimento di un dovere
410
.
Per ciò che concerne il requisito della proporzione, è acclarato che il relativo
giudizio di proporzione debba essere sviluppato dal giudice sulla base di un rapporto
di valore tra i beni o interessi in conflitto. Questo vuol dire che l’aggredito che si
difenda non deve a sua volta ledere un bene dell’aggressore di rango superiore a quello
posto in pericolo. Altresì, detto raffronto non può mai prescindere dall’effettivo grado
di messa in pericolo o di lesione cui si trovano ad essere esposti gli interessi in gioco
411
.
A tale ultimo proposito, il giudice di primo grado fa prevalere l’interesse dei migranti
a non essere rimpatriati in Libia, rispetto al valore della vita e dell’incolumità fisica
dell’equipaggio. Sia consentito osservare, a tale proposito, che qualora i migranti
fossero stati trasportati in Libia, sarebbero stati collocati in un centro di accoglienza,
sotto il controllo esclusivo del Ministero dell’interno libico, e non di gruppi criminali
o di bande rivali. Sulla base delle disposizioni pattuite nel memorandum d’intesa del
2017 tra Italia e Libia, poi, verosimilmente si sarebbe proceduto all’identificazione ed
alle procedure di verifica della sussistenza, in capo ai migranti, dei presupposti per
ottenere una forma di protezione internazionale, mentre invece gli altri sarebbero stati
rimpatriati nel loro Paese, in quanto irregolari sul territorio. Sulla base delle
considerazioni esposte, sembra che il requisito della proporzione non venga a
configurarsi, in considerazione del fatto che rispetto all’interesse dei migranti a non
409
In tal senso la manualistica corrente e, Cass. 22 giugno 1967, in Cass. Pen. Mass. Ann., 1969, 62; Cass., 1°
marzo 1956, in Giust. Pen., 1956, II, 507. Sull’argomento cfr. F. Bellagamba, Sui limiti della responsabilità penale
dell’esecutore di un ordine illegittimo insindacabile, in Dir. pen. proc., 2009, 192.
410
Così C.F. Grosso, voce Legittima difesa, cit., 36.
411
G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, cit., 300-302.
174
tornare da dove erano partiti potrebbe, semmai, concretizzarsi una violazione del
divieto di respingimento, pur con i limiti già evidenziati, e non certo una violazione
dell’obbligo di soccorso, che risultava già ampiamente adempiuto.
Per quel che riguarda, poi, il requisito dell’attualità del pericolo, una verifica
puntuale in tal senso non sembra essere stata effettuata né dal giudice di primo grado
né dalla Corte d’appello. Nonostante ciò, non sembra che una tale attualità sia
configurabile, nel caso di specie, mentre sarebbe potuta venire in considerazione in un
momento successivo, ovvero quello di un eventuale controllo da parte delle autorità
libiche. Una delle caratteristiche fondamentali della scriminante de qua, infatti, è
costituita dal fatto che, in assenza dell’intervento immediato da parte delle forze
dell’ordine, o dell’autorità preposta, l’aggressione deve essere in grado di provocare
un pericolo attuale di offesa di un bene giuridico, tale per cui l’unico mezzo idoneo
per tutelarlo
412
, sia considerato un comportamento violento o minaccioso. Occorre, in
altri termini, che detto pericolo sia “incombente” al momento del fatto, e che il giudizio
sulla sua sussistenza vada effettuato sulla base di circostanze oggettive esistenti al
momento della realizzazione della condotta offensiva, e non su quella di circostanze
conoscibili o conosciute solo dall’offensore o dall’aggredito. Nel caso di specie, non
sembra che la presunta offesa, consistente nel pericolo di respingimento, avesse
assunto tale carattere di incombenza nel momento in cui il rimorchiatore battente
bandiera italiana si dirigeva verso le coste libiche. In quel momento, infatti, il pericolo
era solo potenziale, anche perché, non appare possibile stabilire a priori, secondo un
ragionamento di tipo “presuntivo” seguito invece sia dal giudice di prime cure, che da
quello di ultima istanza, basato sul convincimento che, una volta giunti in Libia, i
migranti non sarebbero stati sottoposti a identificazione ed a verifica delle condizioni
per ottenere lo status di rifugiato, ma solamente maltrattati.
Inoltre, seppur la Corte d’Appello non abbia approfondito il tema, non sembra
nemmeno che lo sviluppo fattuale del caso de quo possa potersi ascrivere alla c.d.
legittima difesa putativa di cui all’art. 59, comma 1 c.p. Nell’ambito di tale istituto,
infatti, l’errore, per avere efficacia scusante, deve investire o i presupposti di fatto che
412
G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, cit., 296; in giurisprudenza, sebbene risalente, Cass. 6 aprile 1964,
in Cass. pen. Mass. ann., 1965, p. 682; Cass. 22 gennaio 1964, ivi, 1964, 711.
175
integrano la causa di giustificazione, oppure una norma extra-penale che integri un
elemento normativo della fattispecie giustificante, e non può essere integrato dal
particolare stato d’animo o dal timore del soggetto agente, rispetto al quale è stato,
invece, ricostruito l’assunto giudicante.
Concludendo, la sentenza del giudice di primo grado sembra porsi sulla scia di
quella che potrebbe essere definita come “giurisprudenza creativa”, talvolta
riscontrabile, soprattutto ad opera delle Corti europee
413
. Fermo restando, infatti, che
la funzione interpretativa giurisprudenziale rivesta un ruolo fondamentale, questo non
deve portare a ritenere ricompresa in questa funzione un approccio di tipo creativo, o
comunque tendente alla valorizzazione o meno di scelte politico-criminali, di esclusiva
competenza del potere legislativo. Per quanto riguarda, in particolar modo, l’eventuale
inesistenza o invalidità di un atto espressione di un sistema giuridico extra-penale (in
questo caso ci si riferisce al memorandum d’intesa Italia-Libia), fermo restando che la
giurisdizione piena del giudice penale presuppone che lo stesso sussuma i fatti storici
nell’ambito della fattispecie incriminatrice, ciò trova un limite insuperabile nel
principio di legalità, vero e proprio principio cardine nell’ambito del diritto penale.
L’approccio al fenomeno migratorio deve necessariamente rivestire un carattere
multifattoriale e multilivello, e spetta agli Stati, ma soprattutto all’U.E., per quel che
qui interessa, farsi carico del fenomeno migratorio attraverso strumenti condivisi e
rispettosi dei principi di diritto internazionale e dei trattati, nonché mediante
l’auspicabile superamento del reg. di Dublino
414
in un’ottica maggiormente
413
Sul ruolo assunto dalla giurisprudenza “creativa” soprattutto negli ultimi anni, cfr. G. Cocco, L'eredità
illuministico-liberale: principi forti per affrontare le sfide contemporanee, in Id. (a cura di), Per un manifesto del
neo illuminismo penale, Cedam, Padova, 2016, 26 ss., il quale sottolinea “il ruolo sempre più importante delle Corti
europee ha addirittura fatto apparire centrale il ruolo della giurisprudenza nella elaborazione del diritto, fino alla
teorizzazione del diritto dei giudici, coperto pudicamente con l'espressione diritto dei giuristi, contrapposto al
“mito” della legge penale”.
414
Reg. (UE), n. 604/2013 del 26 giugno 2013, noto come reg. “Dublino III”, entrato in vigore il 1° gennaio
2014, definisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una
domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da
un apolide. In considerazione delle criticità derivanti dall’applicazione del suddetto reg., soprattutto a causa delle
continue impasse realizzatesi in ambito internazionale per quanto riguarda gli oneri dei i singoli Stati (soprattutto
l’Italia e la Grecia) devono accollarsi per una gestione il più possibile condivisa del fenomeno migratorio, la
Commissione europea ha presentato il 23 settembre del 2020, il Nuovo Patto sulla migrazione e sull’asilo, la cui
intenzione, con il richiamo dei principi di solidarietà e di equa condivisione degli oneri, è quella di promuovere una
governance più forte ed integrata che renda la gestione degli arrivi più proporzionata, efficiente e sostenibile. Una
delle cause della crisi del sistema delineato a Dublino, risulta poi il deficit di solidarietà riscontrato tra gli stessi
nella gestione dell’eccezionale pressione migratoria, contrariamente a quanto disposto dall’art. 80 TFUE, per il
176
solidaristica e che individui meccanismi prestabiliti per la ripartizione di quote di
migranti tra i singoli Paesi, anche del Nord Africa, al fine di superare le impasse che
puntualmente si ripropongono sul piano internazionale. Questo non significa,
naturalmente, che la giurisprudenza non possa svolgere un proficuo ruolo di controllo
e verifica della corretta applicazione delle norme in materia di immigrazione sia da
parte di privati che degli Stati. Ed infatti, una costante attenzione su una piena
esplicazione dei diritti umani deve essere sempre altissima da parte di tutti, come anche
lo deve essere il rispetto delle convenzioni internazionali soprattutto concernenti
l’obbligo di salvare le vite in mare e il principio di non respingimento, ma proprio per
questo occorre dedicare maggiore attenzione alla prevenzione del fenomeno
migratorio, proprio per evitare a monte le partenze, al fine di salvare vite innocenti,
oltre che di togliere linfa vitale alle potenti organizzazioni criminali transnazionali
finalizzate alla tratta di esseri umani. L’implementazione di accordi ad hoc con Paesi
nordafricani vanno certamente in questa direzione, ma i passi da fare sono ancora tanti,
anche in direzione di un maggiore coinvolgimento, nelle suddette politiche, di enti,
quali l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM)
415
e l'Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)
416
, deputati
tradizionalmente alla tutela dei diritti dei migranti.
quale le politiche relative ai controlli delle frontiere, all’asilo e all’immigrazione devono essere governate alla luce
dei principi di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra Stati.
415
Fondata nel 1951, l’OIM è la principale organizzazione intergovernativa attiva in ambito migratorio.
416
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, fondata il 14 dicembre 1950, rappresenta l'agenzia
delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati; fornisce loro protezione internazionale ed assistenza
materiale, e persegue soluzioni durevoli per la loro drammatica condizione.