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1.3 Lo sport per i giovani e i ragazzi difficili
Nonostante sia importante ricordare che ogni età ha le proprie sfide all’interno del mondo
dello sport, il potenziale educativo di esso viene per la maggior parte investito sui giovani.
Sicuramente diverse sono le motivazioni, come quella di voler prevenire eventuali situazioni e
comportamenti devianti da parte di chi sta vivendo un periodo di crescita molto delicato.
Trasmettere insegnamenti e “tirar fuori” il meglio dei giovani è senz’altro la giusta tendenza
che lo sport ha nei loro confronti. Gli enti socio-educativi che usufruiscono dello sport, hanno
in primis la complicata missione di coinvolgere più ragazzi e ragazze possibili, con un occhio
di riguardo a chi ha particolari bisogni, legati magari alle situazioni familiari o alle disabilità.
Ma ciò che diverrà ancor più difficile sarà gestire tutte quelle situazioni che possono portare
ad un calo di motivazione da parte dell’educando e ad un eventuale abbandono.
L’attività sportiva presenta aspetti importanti per la crescita dei giovani atleti: sviluppo di
potenzialità, inserimento in gruppo, assimilazione di regole, condivisione di compiti, costanza
nella fatica, esperienza di vittoria e sconfitta, entusiasmo per le sfide. E molte cose ancora
(Fantini, 2015, p. 32).
Molti ricercatori ritengono che lo sport sia uno strumento utile e creativo per sollecitare le
potenzialità dei ragazzi, fino a definirlo “una scuola di vita” che produce uno stile per sempre:
“Lo sport agonistico può diventare una fonte di ispirazione e una allegoria ricca di
insegnamenti per tanti contesti […] È una metafora della vita, una prova severa che ti deve
sottoporre a qualsiasi difficoltà. E che ti costringe, se glielo permetti, a sviluppare le doti
necessarie per affrontare li ostacoli, le frustrazioni, l’insuccesso, la solitudine, la sfortuna”
(ivi, p. 34).
Onde evitare di generalizzare il percorso che viene effettuato durante la giovane età, andiamo
a suddividere le varie fasce d’età e il livello di abilità psicofisica e sportiva corrispondenti.
Infatti, per ogni periodo dai 7 ai 20 anni, oltre che nello sviluppo psicofisico, troviamo
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rilevanti differenze nel tipo di pensiero e relazione con gli adulti, nei bisogni fondamentali e
nel rapporto con lo sport stesso.
Durante l’infanzia, età delle prime scoperte, la voglia di muoversi, di giocare, di conoscere
cose e persone diverse sono alla base della loro attività sportiva. Essa attrae i più piccoli per
l’eccitazione che sa trasmettere, e divengono quindi fondamentali i ruoli degli
educatori/allenatori e dei genitori. Soprattutto per compensare ai bisogni di accettazione, di
sentirsi amati e al sicuro, di divertirsi ed essere importante per l’altro. Invece, in quella che è
l’età del passaggio, ovvero la prima adolescenza, troviamo che sia di estrema rilevanza il
cambiamento del proprio corpo e la costruzione delle fondamenta della propria identità.
Diventa poi fondamentale il gruppo, come strumento di confronto, e le prime richieste di
autonomia da parte della scuola e della famiglia. Questo unito anche dal bisogno di
sperimentarsi fuori dalla cerchia familiare. Nello sport quindi l’idea della squadra come
gruppo diviene prevalente, ed è compito degli educatori sostenerlo, soprattutto in un momento
dove nascono le prime insicurezze. Tra i 16 e i 20 anni, la tarda adolescenza, si vive un
periodo di “definizione”, dove ci si inizia a delineare come soggetto adulto. Nonostante le
distrazioni di natura ormonale, negli adolescenti il pensiero logico diventa preponderante sul
pensiero emotivo. Inoltre, la ricerca di una propria identità, il conoscere sé stessi, l’imparare
l’autostima e lo sviluppo di buone relazioni divengono gli aspetti fondamentali di questa età.
Queste esigenze possono ovviamente essere, in parte o totalmente, essere risolte dalla pratica
sportiva.
La consapevolezza degli educatori di avere a che fare con ragazzi e ragazze che stanno
vivendo un periodo molto delicato, diventa assolutamente considerevole. Infatti, la loro
possibile immaturità, le insicurezze derivanti dall’affronto del diventare grandi, la fragilità in
cui possono incombere i rapporti con i genitori, la sfiducia nella scuola sono tutti possibili
aspetti che possono portare i ragazzi a vivere situazioni devianti e pericolose. Però, come
spiegano anche Bertolini e Caronia (2016), non è esclusivamente legata alla crescita il motivo
per chi si diventa “ragazzi difficili”. Lo sono coloro che vivono situazioni di disagio
economico e di ordine relazionale e famigliare, chi viene considerato disadattato all’interno
della società, e chi per diversi motivi infrangono la legge. Spesso è il contesto familiare o
quello sociale ad essere la principale causa del comportamento antisociale, ma possono anche
esserlo fattori biologici (anomali del patrimonio cromosomico per esempio) e fattori psichici
(immaturità, aggressività…). Caso altrettanto importante sono i ragazzi con disabilità (fisiche,
intellettive, sensoriali…), con cui l’educazione deve saper lavorare per far raggiungere loro
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una situazione migliore di quella di partenza. È quindi qui che entra in gioco la risorsa sport,
che può fungere da tramite sia per prevenire determinate situazioni sia per eventualmente
andare a rieducare. Per quanto riguarda il modello sportivo italiano, basato sulle società
sportive e sugli enti educativi, è necessario svolgere pratiche di avvicinamento all’attività
sportiva. Può essere svolto attraverso la collaborazione con gli assistenti sociali di un comune
o con altre figure professionali. Esistono anche diversi progetti che propongono
un’educazione di strada, in cui sono direttamente gli educatori e gli allenatori che vanno a
proporre a ragazzi le proprie attività sportive. Una figura che non può venire a mancare in
questo avvicinamento è sicuramente la scuola, poiché insegnanti e non solo, hanno
quotidianamente a che fare con giovani che avrebbero la necessità di intraprendere un
percorso sportivo. Altri luoghi che storicamente, anche se oggi sempre meno, hanno portato
avanti, tramite lo sport, il coinvolgimento dei giovani in situazioni difficili sono sicuramente
gli oratori. Essi permettevano alle giovani generazioni di avvicinarsi alla religione e ai suoi
valori tramite l’ausilio di strutture sportive presenti nelle parrocchie di tutta Italia, da Don
Bosco ad oggi, anche se attualmente troviamo sempre meno frequentemente la componente
giovanile.
Andando oltre il coinvolgimento di ragazzi, difficili e non, ribadiamo l’importanza che ha il
mantenimento di questo coinvolgimento, ovvero il cercare di farli restare a contatto con il
mondo sportivo e contrastando il dropout. In linea generale, infatti, negli studi sull’analisi
delle ragioni che favoriscono il coinvolgimento sportivo riportate da Alberto Cei
21
(1998) in
“Psicologia dello sport”, i programmi sportivi che sono orientati prettamente all’ottenimento
dei risultati e non considerano la complessità della motivazione favoriscono l’abbandono. I
primi studi psicologici sulla motivazione furono intrapresi da Alderman e Wood, i quali
cercarono di identificare i sistemi di motivi incentivi, ovvero l’affiliazione, la ricerca
dell’eccellenza, il provare stress (motivi base), l’opportunità di sfogare la propria aggressività,
la ricerca del potere sugli altri, l’indipendenza (poco rilevanti) e la caccia al successo. Tutto
risulta poi indipendente da età, sesso, cultura e sport praticato. Andando più nello specifico
Sapp e Haubenstricker indagarono sui motivi di coinvolgimento e abbandono, lavorando sulle
differenze tra chi pratica sport, chi lo ha praticato, e i non atleti. Essi rilevarono come il
divertimento e la volontà di acquisire competenza, forma fisica e affiliazione fossero basilari
per il coinvolgimento, mentre le motivazioni che portano all’abbandono risultavano differenti
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Psicologo sportivo, professore all’Università di Tor Vergata di Roma e docente della Scuola dello Sport del
CONI.
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a seconda delle fasce d’età: i più giovani a causa di problemi con l’allenatore e mancanza di
divertimento e troppo aspetto competitivo, mentre gli adolescenti per l’emergere di altri
interessi (tarda adolescenza anche necessità di trovare occupazione lavorativa). Per quanto
riguarda le successive ricerche di Gill e Huddleston, si potrebbe sintetizzare dicendo che uno
sport viene intrapreso in modo soddisfacente dal momento che vengono acquisite e
migliorante competenze specifiche all’interno di un contesto che favorisca divertimento e
nascita di amicizie. Per loro i fattori che portano a intraprendere una pratica sportiva sono i
seguenti: la riuscita, la squadra, la forma fisica, il dispendio positivo di energia, i rinforzi
estrinseci (persone significative), lo sviluppo delle abilità, l’amicizia e il divertimento. Per
quanto riguarda la motivazione, è interessante notare come ci siano differenze nella sua
prevalenza a seconda delle diverse culture e nazioni di provenienza. Ma non solo, anche in
relazione al livello socio-culturale della famiglia si possono notare approcci differenti: c’è chi
è più entusiasta (livello culturale medio-basso), chi ha più bisogno di socializzazione (medio-
alto), gli individualisti, i competitivi, gli anticompetitivi…
Per la motivazione, oltre alla sua applicazione riguardo la riuscita e la competenza, è basilare
definire chiaramente degli obiettivi, avendo consapevolmente l’idea di voler raggiungere
qualcosa, portando avanti con una specifica direzione e con la giusta intensità le proprie
prestazioni. Rilevanti sarebbero anche gli studi effettuati sui giovani dalla psicologia sulla
personalità (ansia, autoefficacia...), l’attivazione e l’attenzione.
In genere viene definito come “dropout” l’abbandono prematuro di una carriera sportiva,
prima che un atleta abbi potuto esprimere completamente il proprio potenziale (Vitali et. al.,
2013, p. 3).
In una indagine compiuta dal Coni sui processi motivazionali e sulla prevenzione
dell’abbandono nello sport giovanile (2013), vengono mostrate come può nascere la
motivazione a praticare sport attraverso la teoria dell’autodeterminazione:
La teoria dell’autodeterminazione (Self Determination Theory) mostra come la motivazione a
praticare sport derivi da due possibili fonti: ragioni intrinseche o estrinseche. Quando gli atleti
sono motivati in modo intrinseco, partecipano per libera scelta personale, per proprio interesse
e piacere; se, invece, sono motivati in modo estrinseco, il coinvolgimento sportivo è dovuto a
ragioni esterne (ad esempio, riconoscimenti sociali o economici): lo sport, in questo caso,
rappresenta un mezzo per ottenere qualcosa che si desidera o evitare qualcosa che non si
vuole. In realtà, la teoria si sviluppa in modo più complesso e prevede che i processi
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motivazionali si muovano lungo un continuum in relazione all’autodeterminazione. Al livello
più basso, si trova l’assenza di motivazione (amotivation): questi sono atleti che non
percepiscono un senso di controllo rispetto al proprio coinvolgimento sportivo e non vedono
ragioni (né intrinseche, né estrinseche) per praticare; come è ovvio, questi atleti hanno un’alta
probabilità di abbandonare precocemente l’attività sportiva. Lungo il continuum, poi, si
collocano altre forme
di motivazione estrinseca: la prima, fa riferimento a fattori esterni (external
regulation), quando un dato comportamento viene messo in atto solo per ragioni strumentali e
ottenere un vantaggio esterno (es. “Oggi cerco di allenarmi bene perché ci sono osservatori di
una 6 squadra superiore”); la seconda, (introjected regulation) è ancora una forma di
motivazione estrinseca, ma il controllo è diventato interno (es. “Oggi mi alleno, perché se non
lo facessi mi sentirei in colpa”); con il terzo tipo di motivazione estrinseca (identified
regulation) il
comportamento è autodeterminato, ma l’attività è vista come un mezzo per otten
ere qualcos’altro e non è ancora considerata divertente di per sé (es. “La
preparazione fisica è pesante, ma devo impegnarmi altrimenti l’allenatore non mi farà
giocare”); infine, nel continuum si trova la forma più autonoma di motivazione estrinseca
(integrated regulation), per la quale i comportamenti risultano congruenti con i valori e i
bisogni individuali e la motivazione è in parte già intrinseca, ma ancora mancano interesse e
piacere per l’attività in sé (es. “La preparazione fisica è faticosa e pesante, ma
indispensabile”). Al livello più elevato del continuum dell’autodeterminazione si trova la
motivazione intrinseca: gli atleti partecipano all’attività per il piacere di farlo, per
l’appagamento e la soddisfazione che ne derivano. Quest’ultima rappresenta la forma di
motivazione ideale per chiunque, ma in realtà lo sport competitivo, da quello giovanile a
quello olimpico, è dominato da rinforzi esterni (classifiche, trofei, notorietà, denaro).
Ciononostante, soprattutto con i più giovani sarebbe importante considerare tre aspetti che
possono favorire processi di autodeterminazione e quindi di motivazione intrinseca. Il primo,
riguarda la buona qualità delle relazioni interpersonali: inizialmente l’educazione dei bambini
si fonda anche su processi di modellamento, ovvero utilizzando rinforzi esterni, con i
comportamenti che poi vengono valutati e rinforzati da adulti percepiti affettivamente
importanti e significativi; buone relazioni, senso di appartenenza e legami affettivi con gli
altri sono fattori determinanti per i processi di interiorizzazione e, dunque, di
autodeterminazione. Il secondo, fa riferimento alla percezione di competenza, poiché è
probabile che le persone scelgano le attività che sentono di poter padroneggiare: bambini e
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ragazzi andrebbero, perciò, sostenuti nella costruzione della competenza personale. Infine, il
terzo si riferisce all’autonomia: andrebbero favorite tutte le esperienze che vanno in tal senso,
nel quadro di un ambiente che sostenga ed incoraggi anche scelte autonome (ivi, p. 4-5-6)
Affinché si crei un clima motivazionale all’interno di un contesto sportivo il ruolo degli
allenatori diventa essenziale, poiché valorizzando ed incoraggiando i ragazzi, stimolandoli,
riconoscendo l’impegno, stabilendo obiettivi raggiungibili riuscirà a coinvolgerli a pieno,
ponendoli tutti sullo stesso piano. Determinanti sono anche i genitori che trasmettono ai figli
la propria concezione della competizione e del successo. Purtroppo, con gli attuali modelli
culturali trasmessi dai mass media, è oggi abbastanza frequente incontrare genitori che
esortano i propri figli non tanto a fare del proprio meglio, magari accettandone anche qualche
limite o difficoltà, ma soprattutto a fare meglio degli altri, a superare un amico, un compagno,
in un confronto continuo con qualcun altro (a volte un fratello o una sorella) […] I genitori
devono, poi, cercare di distinguere chiaramente tra le proprie motivazioni e quelle dei figli. Ci
sono molte ragioni per cui ai genitori fa piacere che i figli pratichino uno sport, per esempio
perché loro stessi sono stati atleti e desiderano che anche i propri figli vivano esperienze di
questo tipo (ivi, p. 10). Da non escludere infine il ruolo dei compagni, il ruolo della squadra,
che ha un grandissimo valore nella ricerca della motivazione attraverso il confronto o uno
stimolo che solo all’interno di un gruppo ti possono essere dati. Inoltre, deve nascere la
consapevolezza dell’impatto che i ragazzi possono avere sui compagni, apprendendo
comportamenti che possano essere utili e positivi per il clima del gruppo e delle sue
prestazioni.
L’investimento che l’educativo dello sport deve fare sulla motivazione è quindi per la
maggior parte rivolto al contrasto, non del mero abbandono sportivo, ma del burnout. In modo
più specifico, per burnout si intende una condizione psicologica associata con sensazioni di
esaurimento fisico ed emozionale, ridotto senso di realizzazione personale, svalorizzazione
dello sport e dell’ambiente sportivo (ivi, p. 13).
Diverse risultano le giustificazioni del perché avviene un processo di questo tipo, in
particolare sul ripudio di un ambiente ostile, pressante, troppo impegnativo…
Andiamo ora ad osservare alcuni dati riguardanti le motivazioni dei praticanti e gli ex
praticanti:
Le motivazioni che spingono i ragazzi a praticare sport, secondo quanto dichiarato dal
progetto di Sport e Salute (Sport e Salute, 2021) nel 2021, sono per il 37% il piacere della
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pratica, per il 17% passare il tempo con gli amici, per il 17% il mantenersi in forma, per il
10% l’aspirazione di diventare un campione e per il 19% altre motivazioni. (…) Sport e
Salute nel 2021 (Sport e Saute, 2021) ha indagato quali sono le diverse motivazioni che
determinano il drop out sportivo e ha individuato che il 18% dichiara che la motivazione
dell’abbandono sportivo risulta essere il troppo tempo richiesto in termini di tempo, per il
15% la motivazione è il cambio di interessi, per il 10% la causa sono i troppi compiti, l’8%
sostiene che non gli piaceva lo sport praticato, per l’8% il problema era il trasporto, per il 3%
i genitori hanno preferito altre attività e per il 2% il bambino veniva preso in giro (Ederle,
2022, p. 8).
Un aspetto considerevole con cui dobbiamo avere a che fare in questo momento storico, è
sicuramente l’insieme delle conseguenze della pandemia del nuovo coronavirus SarsCov2 che
si diffuse in Italia a partire da marzo 2020. In una situazione già preoccupante di sedentarietà
diffusa nei bambini e negli adolescenti, i quali prediligevano la televisione, gli smartphone e i
videogiochi, rispetto alla più sana attività fisica (diffuse anche diverse situazioni di salute
gravi come l’obesità), l’essere costretti a rimanere a casa e le chiusure degli impianti sportivi
ha portato, oltre alla momentanea sospensione delle attività, ad un elevato abbandono degli
sport praticati in precedenza, anche quando vi è stata la possibilità di ripartire.
Fortunatamente dall’altro della medaglia riusciamo a trovare una mentalità in grado di
accogliere e affrontare i limiti e gli ostacoli che la pratica dello sport può metterti dinnanzi. È
tipico degli individui dotati di resilienza. Con tale termine viene intesa la capacità di un
individuo di resistere e di proseguire senza arrendersi, andando avanti nonostante difficoltà e
avversità. […] Nello sport, la resilienza viene vista come capacità di sostenere carichi di
allenamento impegnativi, affrontare lo stress della competizione, gestire stati emozionali
negativi, ma anche recuperare in modo sicuro e soddisfacente dopo un infortunio. È
considerata sia una caratteristica personale, sia il risultato di un’interazione dinamica fra
individuo e ambiente; quando intesa come caratteristica personale, è spesso associata ad altre
qualità, quali fiducia in sé e nelle proprie capacità, ottimismo, capacità di concentrazione,
impegno, tolleranza alla frustrazione (Vitali et. al., 2013, p. 18).
Ebbene è quindi compito degli educatori sportivi, e di tutti coloro facente parte della vita dei
giovani, trasmettere una mentalità resiliente, creando i giusti ambienti affinché essi possano
prediligerla piuttosto che accantonare lo sport (ibidem).