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Introduzione
La società odierna si è trovata ad affrontare un’altra emergenza dentro l’emergenza sanitaria:
la sovrabbondanza di informazioni e la relativa diffusione incontrollata di informazioni false e
fuorvianti – definibili come ‘fake news’ – riguardo il COVID-19. Esse, sfruttando le paure e
le incertezze delle persone, possono potenzialmente dare luogo a numerosi danni in quanto,
come evidenziato da Roozenbeek e colleghi (2020a), potrebbero effettivamente influenzare in
modo disfunzionale il comportamento delle persone durante la pandemia di COVID-19,
comportando una perdita di fiducia nella medicina e nella scienza ufficiale. Se la maggior
parte delle persone crede a queste fake news, vi è il pericolo – soprattutto nelle democrazie –
che esse possano avere il potere di costruire la base per le decisioni politiche e sociali che
vanno contro il migliore interesse di una società.
Fake news, tuttavia, è un termine alquanto inadeguato per rendere conto della
complessità e vastità del fenomeno della disinformazione. A tal proposito, è utile distinguere
e considerare tre tipi differenti del cosiddetto ‘disturbo dell’informazione’ (Wardle &
Derakhshan, 2017): (a) mis-information (in italiano traducibile come ‘disinformazione’), che
comprende informazioni false o errate, diffuse a prescindere da intenzioni ingannevoli; (b)
dis-information (in italiano traducibile come ‘malainformazione’), che si riferisce alla
disinformazione diffusa con l’intenzione deliberata di ingannare; (c) mal-information, cioè
informazioni vere diffuse con l’intento di nuocere. Nonostante l’importanza del discernere
queste differenti tipologie, nel corso dell’elaborato, useremo il termine ‘disinformazione’ per
riferirci alle informazioni false in generale, dal momento che l’intenzione di nuocere è
difficile da determinare.
Ad ogni modo, limitare gli effetti dannosi dell’esposizione alla disinformazione non è
semplice. Infatti, le persone che hanno ricevuto informazioni false attraverso la loro
preferenza politica, ad esempio, generalmente non hanno benefici da interventi mirati a
correggere la disinformazione, ciò a causa del coinvolgimento di quella che viene chiamata
‘cognizione (politicamente) motivata’ (Flynn et al., 2017) o del cosiddetto ‘effetto di
influenza continua’ – che approfondiremo in seguito. In modo particolare, le persone che
detengono credenze cospiratorie (false credenze nell’esistenza di un piano segreto malvagio o
illegale tenuto nascosto da una cerchia di cospiratori) faticano a distaccarsene per il semplice
fatto che, avendoci investito impegno e fiducia, diventano parte della loro identità (Massimo
Polidoro, 2020).
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A tal proposito, alcuni ricercatori hanno pensato di elaborare dei metodi mirati ad
agire in maniera preventiva nel contrastare la disinformazione prima che possa mettere radici,
quando cioè le persone non sono ancora state esposte alla disinformazione. Questo è
l’approccio classico della teoria dell’inoculazione psicologica (o ‘prebunking’), che prevede
l’apprendimento di tecniche volte a confutare ed a formulare controargomentazioni agendo
analogamente ad una vaccinazione medica. In tal senso, l’esposizione ad una certa minaccia
(ad esempio, una teoria del complotto), indebolita al punto da non provocare cambiamenti
nella posizione ideologica della persona, innescherà risposte protettive (‘anticorpi mentali’)
che renderanno l’individuo più immune alla persuasività della disinformazione la volta
successiva in cui vi sarà esposto (McGuire, 1964; Compton, 2013). Nello specifico, gli
approcci di inoculazione attiva – ovvero quelli che richiedono il coinvolgimento diretto
dell’individuo nel prendere decisioni in uno scenario fittizio che simula quello dei social
media reali – sembrano in grado di dare luogo ad una maggiore resistenza verso la
disinformazione rispetto agli approcci di inoculazione che richiedono di leggere passivamente
controargomentazioni e confutazioni (Roozenbeek & van der Linden, 2018).
In questo elaborato, dopo una lettura critica di alcune teorie ed evidenze che mettono
in luce le peculiarità del fenomeno della disinformazione e dei metodi per contrastarla (in
particolare riguardo il COVID-19), sarà presentato uno studio empirico finalizzato ad
indagare l’efficacia su un campione italiano di un gioco educativo – Go Viral! – che si
configura come un metodo di inoculazione attiva pensato prioritariamente per il contesto della
disinformazione sul COVID-19. Inoltre, cercheremo di capire se la tendenza al
cospirazionismo possa influenzare gli effetti benefici del gioco e come essa possa essere
associata ad altre caratteristiche di personalità (es., umiltà intellettuale).
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1. Fake news e teorie del complotto
L’intenzione di ingannare è vecchia quanto il genere umano e nel corso della storia sono state
documentate numerose campagne di fake news (Posetti & Matthews, 2018). Ciò che si è
modificato nel tempo è solamente la capacità dell’uomo di diffondere la disinformazione in
un modo rapido ed efficace ad un pubblico sempre più vasto. Gli esempi di campagne di
disinformazione (o per meglio dire, malainformazione) nel corso della storia vanno dalla
diffusione della falsa conquista della città di Kadesch ad opera di Ramses II nel 1274 a.C. alla
campagna di propaganda contro Antonio in epoca romana condotta da Ottaviano (Kaminska,
2017) e dalla pubblicazione di articoli falsi sulla scoperta di vita umanoide sulla luna nota
come la ‘Grande Bufala della Luna’ nel 1835 da parte di un giornale di New York (Thornton,
2000) alle estese campagne di disinformazione nel periodo precedente la Seconda Guerra
Mondiale tramite l’utilizzo della radio (Herzstein, 1978; Kallis, 2005). Tuttavia, fino ai tempi
più recenti la gamma di attori che potevano trarre vantaggio da tecnologie come la stampa e i
media radiotelevisivi era limitata a causa delle risorse considerevoli che richiedeva la loro
ampia diffusione.
Con l’introduzione di internet, seguita dalla moderna tecnologia degli smartphone e
dei social network online, invece, la diffusione delle notizie non è più un privilegio di pochi,
ma ogni utente può essere un emittente (Greifeneder et al., 2021). Sebbene questo
cambiamento abbia il potenziale di dare potere ai cittadini, esso permette anche la diffusione
incontrollata di disinformazione e per questo motivo, richiede la creazione di nuove norme
sociali di attenta valutazione e condivisione delle informazioni. L’enorme quantità di
disinformazione che circola ampiamente e rapidamente attraverso le piattaforme dei social
media, ha dato avvio a quella che alcuni hanno soprannominato l’era della ‘post verità’ (Cook
et al., 2017), cioè un tempo “in cui il concetto specifico [di verità] è diventato poco
importante o irrilevante”, soprattutto nel contesto della politica (Oxford Dictionary, 2016).
Nel discorso pubblico, il termine ‘fake news’ (usato per identificare quelle notizie
false e fuorvianti spacciate come veritiere) è appunto di solito associato alla sfera politica, ma
in realtà le informazioni falsificate sono diffuse in tutti i settori, forse in modo più evidente
nei domini dei prodotti di consumo, della salute e delle finanze (Greifeneder et al., 2021).
Questo fenomeno, durante le emergenze di salute pubblica, ha preso piede a tal punto da
creare la necessità di coniare il termine ‘infodemia’, che si riferisce ad “una sovrabbondanza
di informazioni – alcune accurate mentre altre no – che rende difficile per le persone trovare
fonti degne di fiducia e una guida affidabile quando ne hanno bisogno” (Organizzazione
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Mondiale della Sanità [OMS], 2020a). Dalla SARS in Cina nel 2002-2003 all’epidemia di
Ebola nella Repubblica Democratica del Congo nel 2019 fino alla più recente pandemia di
COVID-19 nel 2020 ed ancora in corso, l’ampia e rapida diffusione di dicerie,
stigmatizzazioni e teorie del complotto può avere implicazioni potenzialmente serie
sull’individuo e la comunità se viene data loro priorità invece di fare affidamento sulle linee
guida evidence-based (Islam et al., 2020). Le notizie false, infatti, hanno il potenziale di
erodere la fiducia all’interno della società e costituiscono quindi una minaccia soprattutto per
le democrazie (Greifeneder et al., 2021).
In questo capitolo verrà fornita una panoramica sul problema delle fake news e delle
teorie del complotto, con un particolare riferimento alla problematica della disinformazione
online nel contesto della salute pubblica e della pandemia di COVID-19 e dei processi
cognitivi e motivazionali che sottostanno all’accettazione e alla condivisione delle
informazioni false.
1.1 Il problema delle ‘fake news’
Le fake news possono essere definite come “informazioni false, spesso sensazionalistiche,
diffuse sotto la veste di notizie di cronaca” (Collins-Dictionary, 2017). Grazie ad un utilizzo
senza precedenti di tale termine nel Corpus del Collins-Dictionary, con un incremento del
365%, il termine ‘fake news’ è stato nominato ‘Collins Word of the Year 2017’. Sebbene il
concetto di notizie create per fuorviare i lettori non fosse affatto nuovo (Standage, 2017), il
termine per indicarle lo era, infatti i dati del NOW Corpus mostrano che “non c’è quasi
nessuna menzione del termine ‘fake news’ fino alla prima settimana di Novembre [2016]”
(Davies, 2017). Infatti, prima delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti del 2016, il termine
era usato sporadicamente per fare riferimento a notizie satiriche, ma successivamente l’uso si
è spostato su ricerche relative alle elezioni presidenziali americane, a Donald Trump, a
Twitter e alla CNN (Cunha et al., 2018). È bene sottolineare che le informazioni false e
fuorvianti non sono identificabili in una singola entità omogenea. Come hanno sostenuto nel
2017 la professoressa Claire Wardle, l’attivista e blogger Ethan Zuckerman, la ricercatrice
della Microsoft Research Danah Boyd, la professoressa Caroline Jack e giornalisti come
Margaret Sullivan del Washington Post, il termine ‘fake news’ è disastrosamente inadeguato
per descrivere il complesso fenomeno della ‘mis- e dis-information’. Nello specifico,
Zuckerman (2017) ha affermato che “è un termine vago e ambiguo che abbraccia tutto, dai
falso allarme (notizie reali che non meritano la nostra attenzione), alla propaganda (discorso
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strumentalizzato per sostenere un partito piuttosto che un altro), alla disinformatzya
(informazione progettata per seminare il dubbio e alimentare la sfiducia nelle istituzioni)”.
Wardle & Derakhshan (2017), come detto in precedenza, hanno distinto tre tipi di
‘disturbo dell’informazione’ usando le dimensioni di danno e falsità: (a) mis-information, che
si riferisce a informazioni false che vengono diffuse senza lo scopo di creare danno; (b) dis-
information, che fa riferimento a informazioni false create deliberatamente per danneggiare
una persona, un gruppo sociale, un’organizzazione o un Paese; (c) mal-information, cioè
quando informazioni vere sono diffuse con l’intento di nuocere, spesso spostando
un’informazione privata nella sfera pubblica, con la quale non dovrebbero di fatto avere
alcuna attinenza. Dal momento che l’intenzione di nuocere è spesso difficile da determinare,
il termine ‘misinformation’ è utilizzato anche per le informazioni false in generale.
Nonostante questo, è importante riconoscere la diversità di forma, motivazione e di diffusione
tra mis- e dis-information. Le motivazioni che stanno alla base della creazione dei contenuti
falsi possono essere sia finanziarie che ideologiche; infatti, studi recenti del Global
Disinformation Index (2019) hanno mostrato che la spesa pubblicitaria online per i domini di
disinformazione ammonta a 235 milioni di dollari all’anno. In riferimento al contesto
inglese/statunitense, il dossier del Center for Countering Digital Hate (2021),
un’organizzazione no-profit che interrompe la diffusione dell’odio e della disinformazione
digitale, ha rivelato che sono 12 i profili social responsabili del 65% della disinformazione sui
vaccini in lingua inglese diffusa su Facebook e Twitter. Questi sono stati etichettati come ‘la
sporca dozzina’, tra loro un Kennedy, il guru della medicina alternativa Mercola, ex istruttori
di body building e osteopati. I video e gli articoli diffusi da loro generano un giro d’affari di
circa 36 milioni di dollari l’anno.
Invece di focalizzarsi su una definizione ristretta di fake news o un’astratta definizione
di ‘disturbo dell’informazione’, Kozyreva e colleghi (2020) hanno riportato una tassonomia di
fonti e tipi di informazioni online false e fuorvianti. Tra le principali fonti abbiamo: 1) i media
tradizionali (sia online che offline che possono essere partitici, iperpartitici o media di
propaganda sponsorizzati dallo Stato); 2) i media basati sul web (organizzazioni e persone che
diffondono teorie della cospirazione, disinformazione e notizie iperpartitiche e che di solito
hanno un sito web e sono presenti nei social media); 3) le persone reali sui social e web-based
media (ad esempio, figure pubbliche e politici o privati cittadini); 4) la propaganda
computazionale (che si basa sull’utilizzo di algoritmi e automazione e sulla loro gestione da
parte dell’uomo, come la pubblicità mirata, gli account automatici quali i bot e gli account
falsi sui social media). Mentre, i diversi tipi di informazioni false e fuorvianti nel mondo
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digitale possono essere categorizzati in: (a) informazioni false, (b) disturbi dell’informazione
(che abbiamo già descritto in precedenza) e (c) cospirazioni e propaganda. Nello specifico, le
informazioni false (a) possono essere distinte in: fake news, cioè “articoli su notizie che sono
intenzionalmente e verificabilmente false e possono fuorviare il lettore” (Allcott & Gentzhow,
2017); false dicerie (chiacchiere generiche o per sentito dire, ampiamente diffuse e non basate
su conoscenze fattuali); satira e parodia (l’uso dell’umorismo e del ridicolo senza intenzione
di causare danni ma con il potenziale di ingannare e fuorviare); mix di informazioni fittizie,
cioè mezze verità e speculazioni che mescolano fatti con informazioni false (Rojecki &
Meraz, 2016); deepfakes (falsificazione con l’utilizzo dell’intelligenza artificiale “iper-
realistica di immagini, video e audio” (Chesney & Citron, 2018) e cheap fakes, cioè
“manipolazioni audiovisive che usano tecniche convenzionali come accelerare, rallentare,
tagliare, rimettere in scena o ricontestualizzare le riprese” (Paris & Donovan, 2019). Nella
categoria ‘cospirazioni e propaganda’ (c) invece troviamo: la propaganda; le bugie
sistematiche, cioè “fabbricazioni o offuscamenti accuratamente costruiti per proteggere e
promuovere interessi materiali o ideologici con un’agenda coerente” (McCright & Dunlap,
2017); le teorie cospiratorie, che Roozenbeek e van der Linden (2019) definiscono come
“spiegazioni alternative per gli eventi di cronaca tradizionali che presuppongono che questi
eventi siano controllati da un piccolo gruppo elitario segreto, di solito malevolo”. A seguito di
questo excursus sulla tassonomia delle informazioni false è lecito però chiedersi quale sia la
reale grandezza e rilevanza del problema della disinformazione.
Uno studio condotto dal BBC World Service in ottanta Paesi a settembre 2017 ha
mostrato come il 79% degli intervistati ha riportato di essere preoccupato riguardo al
discernimento su cosa è falso e cosa è vero su Internet (Cellan-Jones, 2017). A tal proposito,
il Directorate-General for Communication dell’Unione Europea (2018) ha mostrato come
l’esposizione percepita delle persone alla disinformazione online sia elevata: nell’UE, “in
ogni Paese, almeno la metà degli intervistati [nel campione di 26.576] afferma di imbattersi in
fake news almeno una volta alla settimana”. Nel 2019, un rapporto di Bradshaw e Howard ha
mostrato che dal 2017 al 2019, il numero di Paesi con campagne di disinformazione è più che
raddoppiato (da 28 nel 2017 a 70 nel 2019) e che Facebook rimane la piattaforma principale
per queste campagne. Inoltre, alcuni episodi spiacevoli – tra cui quello della teoria del
complotto Pizzagate, che sosteneva che Hillary Clinton e i suoi principali aiutanti stessero
gestendo un giro di traffico di bambini da una pizzeria di Washington, diffusa durante la
campagna presidenziale del 2016 su Reddit, Twitter e siti web di fake news – hanno mostrato
come la disinformazione online possa avere conseguenze perfino mortali nel mondo reale.
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Infatti, questa bufala ha portato a ripetute molestie ai dipendenti del ristorante per poi
spingere un uomo armato a sparare all’interno della pizzeria (Aisch, Huang & Kang, 2016).
Le campagne di disinformazione possono anche avere effetti dimostrabili sui comportamenti
di salute: per esempio, un calo dei tassi di vaccinazione infantile contro il morbillo, la parotite
e la rosolia è stato direttamente collegato alla falsa credenza che il vaccino contro queste
malattie sia collegato alle diagnosi di autismo (Leask et al., 2010) e ha portato a una serie di
focolai di morbillo. Più recentemente, la pandemia di COVID-19 ha dato origine a molteplici
teorie della cospirazione e notizie fuorvianti che hanno guadagnato credibilità tra i membri
del pubblico sfruttando le loro paure ed incertezze; per esempio, ci sono stati fino a 50
attacchi alle antenne di telefonia mobile nel Regno Unito da quando la diffusione del
coronavirus è stata collegata in modo fallace al lancio della rete mobile 5G nel Paese (Adams,
2020).
Tuttavia, diverse analisi recenti tra cui una ricerca di Guess e colleghi (2019) ha
rivelato che circa un adulto americano su quattro (27%) ha visitato un sito web di fake news
nel periodo precedente alle elezioni del 2016, visitando una media di 5,5 articoli ciascuno e “i
siti web di fake news hanno rappresentato una media di circa il 2,6% di tutti gli articoli che gli
americani hanno letto su siti che si concentravano su argomenti di notizie hard” durante tale
periodo. Inoltre, sempre Guess e colleghi (2019), hanno individuato una diminuzione
notevole dell’esposizione alle fake news tra il 2016 e il 2018. Questi risultati sembrano
suggerire come il problema delle fake news non sia così grave come si pensava all’indomani
della Brexit e delle elezioni americane del 2016 (Kozyreva et al., 2020), cioè quando vi era
grande preoccupazione che la diffusione di notizie false su Facebook e Twitter avesse
influenzato le elezioni presidenziali americane e il referendum sulla Brexit (Digital, Culture,
Media and Sport Committee, 2019; Persily, 2017). Kozyreva e colleghi (2020) hanno preso in
considerazione alcuni studi (Allen et al., 2020; Grinberg et al., 2019; Guess et al., 2019;
Guess et al., 2020a; Guess et al., 2020b) che hanno tutti utilizzato analisi recenti di Big-Data
per misurare l’esposizione degli americani alle fake news. Sebbene ci fosse una notevole
eterogeneità tra gli studi, in particolare nella fonte dei dati, le analisi hanno identificato tre
attribuzioni coerenti del problema delle fake news: in primo luogo, la distribuzione del
consumo e della condivisione di fake news è estremamente sbilanciata, in quanto solo un
piccolo numero di utenti è responsabile del loro consumo e condivisione selvaggia; in
secondo luogo, le persone che condividono molte più fake news hanno più di sessantacinque
anni; infine, è asimmetrica anche la distribuzione politica, in quanto la maggior parte delle
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fake news è consona ad atteggiamenti di estrema destra. I sostenitori di Trump in particolare,
condividono molte più fake news rispetto ai moderati o ai liberali.
Nonostante questo, come notato da Allen e colleghi (2020), il suggerimento dato da
questi articoli secondo cui poche persone visitano o condividono materiali da siti di fake news
non rende conto della grandezza e dell’importanza del problema della disinformazione in
generale. Infatti, anche una piccola dose di fake news può stabilire l’agenda mediatica nella
“sua capacità di ‘spingere’ o ‘guidare’ la popolarità delle questioni nel più ampio ecosistema
mediatico online” (Vargo et al., 2018). Inoltre, se la maggioranza delle persone crede a queste
fake news, la disinformazione ha il potere di costruire la base per decisioni politiche e sociali
che vanno contro il miglior interesse di una società. Non dobbiamo dimenticare che una
democrazia funzionante si basa su una popolazione istruita e ben informata (Kuklinski et al.,
2000) e per tale motivo, i processi con cui le persone formano le loro opinioni e convinzioni
sono certamente di ovvio interesse pubblico.
1.2 Gli effetti di internet sulla disinformazione nell’ambito sanitario
Internet ha rivoluzionato la disponibilità delle informazioni nella società post-moderna ma ha
portato con sé alcuni svantaggi: in primo luogo, le informazioni sono diventate talmente
abbondanti da determinare l’esordio del cosiddetto fenomeno dell’‘information overload’ (o
dipendenza da ricerca di informazioni), situazione in cui la presenza di troppe informazioni
impedisce alla persona di trovare le informazioni richieste comportando difficoltà nella presa
di decisioni (Renjith, 2017); in secondo luogo, ha agevolato la diffusione della
disinformazione dal momento che tende ad ostacolare l’utilizzo dei convenzionali meccanismi
di ‘sorveglianza’, come la pubblicazione di contenuti da parte di editori professionisti. Infatti,
con lo sviluppo del Web 2.0, gli utenti sono passati dall’essere semplici consumatori di
informazione ad essere coinvolti attivamente nella creazione di contenuti sui blog personali o
sui social media come Twitter, Facebook o YouTube (Lewandowsky et al., 2012). Di
conseguenza, l’accesso rapido alle informazioni rilevanti ed alle notizie ‘accurate’ è diventato
un incubo. Sebbene questo fenomeno possa riservare alcuni vantaggi – come l’accessibilità a
qualsiasi tipo di informazione – ciò ha portato alla progressiva sostituzione da parte della
società delle opinioni degli esperti: nel 2009, infatti, il 61% degli adulti americani ha cercato
online le informazioni sulla salute (Fox & Jones, 2009). Questo comportamento non è privo
di rischi, in quanto l’affidabilità delle fonti è piuttosto variabile e la posta in gioco è
abbastanza alta: la qualità di vita delle persone e persino il rischio di mortalità – nel caso in
cui si facesse affidamento su fonti non attendibili. Nello specifico, per quanto riguarda la
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diffusione deliberata di notizie errate al fine di ottenere denaro, potere o fama, quello della
salute pubblica è un campo in cui questa pratica può sfortunatamente prosperare, in quanto vi
sono ovvi vincitori e perdenti, e questi ultimi hanno in ballo significative perdite finanziarie
(Swire-Thompson & Lazer, 2020). Sebbene sia estremamente difficoltoso discernere la
disinformazione deliberata da quella diffusa senza secondi fini, i potenziali effetti nocivi
possono provenire da entrambe le tipologie.
Per quanto riguarda l’epidemiologia della disinformazione, autori come Vosoughi e
colleghi (2018) hanno trovato che la disinformazione si diffonde online significativamente più
lontano, più velocemente, più in profondità e più ampiamente rispetto alle informazioni vere.
Questo perché il contenuto delle informazioni false è percepito come più nuovo e suscitava
più disgusto, paura e sorpresa. In aggiunta, Goel e colleghi (2016) hanno trovato che la
popolarità dell’informazione era prevista principalmente dal fatto di essere stata diffusa da
account influenti e raramente le informazioni si diffondevano per viralità (cioè, da persona a
persona). Questo suggerisce come gli individui e le aziende con un grande pubblico sui social
media abbiano una maggiore responsabilità nel verificare che le informazioni che
condividono siano corrette. Inoltre, ciò che rende facile la diffusione incontrollata di
disinformazione su Internet è la quantità dei suoi canali differenti tra loro, nei quali non
sempre è immediato il discernimento delle piattaforme rispettabili da blog e siti non
rispettabili, dei fatti dalla finzione e l’interpretazione corretta di tali informazioni.
Un importante fattore che media la qualità delle ricerche online nell’ambito sanitario è
un fenomeno chiamato ‘confirmation bias’ (o bias di conferma): Keselman e colleghi (2008)
hanno trovato che, partendo da credenze errate, le persone cercavano informazioni su siti
ininfluenti andando alla ricerca di dati che avrebbero confermato la loro iniziale ipotesi non
corretta. Un fenomeno analogo, che si verifica nel contesto dei media in generale, è quello
dell’‘esposizione selettiva’ (Prior, 2003), per cui le persone sono più propense ad esporsi
selettivamente alle fonti che la pensano come loro. Questo problema, con la nascita e lo
sviluppo di Internet, si è tradotto in un panorama di scissione dell’informazione che
comprende le ‘echo cambers’ (Sunstein, 2018) e le ‘filter bubbles’ (Pariser, 2011). Le eco
chambers sono ambienti in cui gli individui seguono una ‘dieta informativa’ che rinforza la
loro visione del mondo e che costituiscono terreni fertili per l’estremismo (Sunstein, 2018);
mentre, le filter bubbles fanno riferimento ad una selezione di contenuti effettuata “tramite
algoritmi e secondo i comportamenti precedenti di uno spettatore” (Bakshy et al., 2015).
Un altro fenomeno che rende la diffusione della disinformazione di facile attuazione è
quello della presenza sempre maggiore di piattaforme che permettono la coproduzione e il
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consumo di contenuti da parte degli utenti e tale contributo da parte degli utenti avviene
spesso in forma di commenti. Ad esempio, WebMD e Amazon permettono di lasciare
commenti e recensioni su prodotti ed i siti di notizie spesso ospitano thread di discussione,
rendendo queste piattaforme meno resilienti alle minacce della disinformazione. Nello
specifico, WebMD, a settembre 2019 ha riportato numerose testimonianze non verificate
sull’efficacia dei semi di albicocca per il trattamento del cancro, con un rapporto di efficacia
di 4,60 punti su 5 (WebMD, 2019). Questo evento è molto preoccupante, dal momento che
mette in luce come i siti che generalmente sono considerati fonti credibili di informazione
sulla salute possano in realtà rendere i loro utenti suscettibili alla disinformazione (Swire-
Thompson & Lazer, 2020).
Tuttavia, anche ammettendo che le persone che cercano online le informazioni sulla
salute siano brave nel discernere le fonti rispettabili da quelle non rispettabili, loro potrebbero
essere più coinvolte dalle informazioni di bassa qualità, più facili da comprendere o più
accattivanti rispetto a quelle di elevata qualità (Swire-Thompson & Lazer, 2020). Ad
esempio, Loeb e colleghi (2019) hanno scoperto che più la qualità scientifica diminuiva, più il
coinvolgimento (in termini di views e likes) aumentava. Tale risultato suggerisce la necessità
per i creatori di contenuti di alta qualità scientifica di modificare il loro modo di comunicare
le informazioni, rendendole più comprensibili e coinvolgenti.
In conclusione, nonostante sia senza dubbio difficile indagare gli effetti della
disinformazione online sul comportamento nel mondo reale, è importante considerare quel
poco che si conosce sugli effettivi danni psico-fisici associati alla consultazione di
informazioni sanitarie su Internet. A tal proposito, una revisione sistematica della letteratura
condotta da Crocco e colleghi (2002) ha mostrato come, su 1.512 abstract e 186 articoli sul
tema, solo tre articoli hanno riportato casi di danno effettivo ascrivibile alla disinformazione:
un caso in cui tre cani sono stati accidentalmente avvelenati, un individuo che ha avuto
un’insufficienza renale ed epatica dopo essersi curato da solo il cancro, e un individuo che ha
sperimentato stress emotivo dopo aver letto informazioni errate riguardo le irregolarità fetali.
Tuttavia, la vera proporzione di danni è sicuramente più alta semplicemente a causa delle
percentuali di persone che riportano di aderire a consigli medici non ufficiali. In effetti, circa
il 39% delle persone negli Stati Uniti crede che la medicina alternativa, come la dieta, le erbe
e le vitamine possano curare il cancro al posto dei trattamenti standard (American Society of
Clinical Oncology, 2018). Dunque, sembra chiaro come siano necessari metodi migliori per
misurare i reali effetti nocivi della disinformazione online che non si basino solo su self-
report.